Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

giovedì 18 febbraio 2016

Cantami, o Diva, del Pelide Achille..... di Massimo Capuozzo

Cantami, o diva, del Pelide Achille…
L’Iliade si presenta come specchio della società micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo.
L’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e per questo va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentendo sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangendo insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore.
Il termine Iliade letteralmente significa “le vicende intorno Ilio”, ma il poema non narra tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che passano tra la pestilenza nel campo Acheo e i funerali di Ettore.
Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille su cui si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici.
Il mito racconta che la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale.
Nell’Iliade si vive l’ideale dell’areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù, che non va considerato come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico-bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di sé e soprattutto di esasperata voglia di onore.
Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade.
Il dramma dell’eroe greco omerico nasce quando egli non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità.
I Greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove resta solo una pallida copia del corpo e dello spirito. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo  il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.
Quando, evocando le anime dei morti, Odisseo vede l’ombra di Achille, subito gli dice: «o Achille, nessun uomo vi è stato in passato più beato di te né vi sarà in futuro: prima infatti da vivo ti onoravamo al pari degli Dei noi Argivi, e anche ora hai un grande potere sui morti stando qui: non affliggerti della morte, o Achille» (Od. XI, 482-86).
Ma il Pelide gli risponde amaro: «non consolarmi della morte, nobile Odisseo» (Od. XI, 488), confessando che preferirebbe servire da bracciante un uomo povero, piuttosto che regnare su tutti i morti.
Questo episodio ha dato luogo ad un equivoco poiché a molti è sembrato che con queste parole Achille criticasse in qualche modo «l’ideale della morte eroica» cui si era ispirato da vivo: ma, a parte il fatto che non esiste in Omero un’ideale di morte eroica dal momento che l’ideale cui si ispirano gli eroi di Omero non è un certo tipo di morte, ma un certo tipo di vita, Achille vi si attiene ancora fermamente visto che subito dopo chiede ad Odisseo notizie di suo figlio, se è andato in guerra a combattere in prima fila.
Con queste parole Achille non rinnega nulla della sua vita, semplicemente la rimpiange: i vivi possono avere molti desideri e aspirazioni, ma per i morti non c’è che nostalgia. Pensando al padre Peleo, che gli è sopravvissuto, l’eroe si preoccupa che il vecchio non riceva il giusto rispetto, privato della protezione del figlio: certo nessuno oserebbe offenderlo se Achille gli fosse accanto, «difensore sotto i raggi del sole, essendo tale quale ero allora nella vasta piana di Troia e facevo strage di prodi, soccorrendo gli Argivi. Ah, se mi fosse concesso andare così anche per un solo momento dal padre…» (Od. XI, 498-501), così come lo descrive Omero nell’Iliade: «si lanciava ad acquistare gloria il Pelide, le mani tremende macchiate di sangue» (Il. XX, 502-503).
Le parole di Achille nell’Odissea non sono in contrasto con quelle che egli pronuncia nell’Iliade. Non è un caso che sia proprio il più valoroso tra gli eroi a dire «nulla per me vale quanto la vita…» (Il. IX, 401) tra tutte le ricchezze che si possono trovare sulla terra, poiché «la vita dell’uomo non si può saccheggiare né predare perché ritorni di nuovo, dopo che abbia varcato il recinto dei denti» (Il. IX, 408-409).
Achille, come era sua abitudine nell’Iliade, non nasconde i suoi sentimenti: anche solo per un attimo, vorrebbe tornare ad essere quello che era. E questo è assolutamente comprensibile: ma non è il caso di spingersi troppo oltre.
E’ evidente che nel discorso di Achille sono messi a confronto il bracciante vivo e il re morto, non l’eroe: infatti egli esordisce dicendo ad Odisseo di non consolarlo della morte, ed è questa affermazione che da il senso alle parole che seguono. La morte non può essere bella, nemmeno per chi si trovasse a regnare sulle ombre dei defunti: il povero bracciante vivo, «sotto i raggi del sole», sta meglio del re dei morti. Il morto manca di qualcosa rispetto al vivo e anche per il grande Achille non c’è differenza: i morti non sono più ciò che erano da vivi. Ma quando si è vivi, nel pieno delle forze e delle facoltà mentali, si pongono altre priorità, come ricorda Epitteto: «a che scopo… mi domandi: “E’ preferibile la morte o la vita?”. Io rispondo: “La vita”. “La fatica o il piacere?” Io rispondo: “Il piacere”». Tuttavia, «colui… che si sia messo anche una sola volta a riflettere su siffatte questioni, confrontando tra loro il valore degli oggetti esterni e calcolandolo, è molto simile a quelli che hanno ormai dimenticato il valore della propria persona»: e se c’è qualcosa che Achille non dimentica certamente mai è il valore della propria persona.
Anche Aristotele, parlando del coraggio, farà alcune considerazioni che sembrano particolarmente valide nel caso di Achille: «il coraggio comporta anche dolore ed è giusto che venga lodato: infatti è più difficile affrontare le situazioni dolorose che astenersi dai piaceri. Tuttavia si riconoscerà che il fine che il coraggio permette di raggiungere è piacevole, ma che è oscurato dalle circostanze… E poiché le cose dolorose sono molte, mentre il fine è piccola cosa, esso sembra non avere niente di piacevole. Se, dunque, la situazione è tale anche nel caso del coraggio, la morte e le ferite saranno dolorose per l’uomo coraggioso, che le subirà contro voglia, ma le affronterà perché è bello affrontarle, ovvero perché è brutto non farlo. E quanto più completa sarà la virtù che possiede e quanto più sarà felice, tanto più soffrirà di fronte alla morte: è per un uomo simile, soprattutto, che la vita è degna di essere vissuta, ed è lui che sarà privato dalla morte dei beni più grandi, e lo sa; e ciò è doloroso. Ma non è affatto meno coraggioso, anzi, forse lo è anche di più, perché sceglie, in cambio di quei beni, ciò che in guerra è bello…».
E ciò che in guerra è bello, come risulta chiaro anche qui, non è il morire, ma realizzare un ideale di comportamento etico nell’agire coraggiosamente, cioè virtuosamente. Omero mette spesso in evidenza ciò cui i combattenti consapevolmente rinunciano perdendo la vita in battaglia, e questo fa appunto risaltare la loro virtù.

Invocazione e protasi
Cantami, o Diva[1], del Pelide[2] Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei[3], molte anzi tempo all'Orco[4]
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Zeus
l'alto consiglio s'adempìa),
da quando primamente disgiunse
aspra contesa il re de' prodi Atride[5]
e il divo Achille.

Con questi versi inizia l’Iliade, e con essi inizia la letteratura del mondo occidentale.
Il titolo vorrebbe dire «vicenda d’Ilio» e farebbe pensare a un racconto completo della guerra di Troia, dal suo inizio fino alla caduta della città, invece, l’Iliade comincia col decimo anno della guerra e racconta un solo episodio della guerra, il più importante: l’ira di Achille.
Nella protasi del poema, Omero invoca la Musa perché canti l’ira funesta di Achille, che causò dolori infiniti agli Achei e gettò tanti eroi nell’Ade, da quando vennero a contesa l’Atride Agamennone, capo della spedizione, e Achille, l’eroe più valoroso. Il poema non finisce con la presa di Troia, nemmeno con la morte di Achille, ma con la fine dell’ira e con le conseguenze del ritorno dell’eroe alla battaglia: cioè con la morte di Ettore, il più forte eroe troiano, i giochi funebri in onore di Patroclo, l’amico prediletto di Achille, la restituzione del cadavere di Ettore al padre e i funerali dell’eroe troiano, poiché con la morte di Ettore il destino di Troia è segnato.
L'Iliade è, dunque, veramente un'Iliade e, insieme, un’Achil­leide (un racconto e una celebrazione delle gesta dell’eroe Achille): cioè, un'Achilleide indissolubilmente legata a un'Iliade, un episodio che non fa mai perder di vista l’insieme. Nell’aver saputo legare le parti in un tutto, contemperando opportunamente unità e varietà, è un'architettura sapiente, che rivela l’arte raffinata del poeta.
Comunque, l'Iliade ha una sua unità in­tima e profonda. E Achille è il vero protagonista. Assente durante la maggior parte del poema, egli è sempre presente allo spirito del poeta e finisce per impressionare, con la sua lontananza, l’animo del lettore assai più che se fosse sempre nella mischia.
Il mondo degli eroi e quello degli dèi è rappresentato con forza e finezza irraggiungibili. Gli eroi sono caratterizzati, con acume psicologico profondo, dai loro discorsi: Agamennone orgoglioso, Nestore saggio, Achille impetuoso e appassionato. La contesa sorge a poco a poco, poi scoppia in toni sempre più violenti: gli eroi rivelano la loro indole primitiva, abbandonandosi alle passioni con impeto selvaggio. E tuttavia sono profondamente umani. Gli dèi sono rappresentati con grande vigore di fantasia e infinita libertà spirituale: Apollo, fosco e implacabile saettatore; Teti amorosa verso il figlio, e, per amor suo, lusingatrice; Zeus benigno nell’immensità del suo potere; Era gelosa e litigiosa; Efesto pieno d’ac­cortezza e di spirito.
L’eroe principale dell’Iliade è sempre Achille, che raramente è dimenticato, anche quando è assente e inoperoso. Il poeta ha creato in Ettore una figura nobilissima di eroe quasi sempre saggio e temperato, affettuoso negli affetti familiari, eroicamente devoto alla sua patria. Ma il poeta umanissimo è pur sempre un Greco e il suo eroe preferito è un Greco, Achille, l'eroe molto più forte di Ettore, che ha preferito una vita breve e gloriosa a una vita lunga e senza gloria. L'Iliade è pur sempre il poema dei vincitori, non il poema dei vinti, se anche il poeta ha per i vinti talvolta ammirazione, quasi sempre umana compassione. Non senza ragione Alessandro, l’eroe più grande della storia greca, ammirò non Ettore, ma Achille; e di Achille si consi­derò l’incarnazione vivente, quando corse per il mondo incontro alla gloria e alla morte.

L’oltraggio a Crise
·         La hybris preso gli antichi greci indica l’orgogliosa tracotanza che si manifesta negli atti e nelle parole e che immancabilmente viene seguita dalla vendetta o punzione divina: nei primi due libri dell’Iliade Nei primi due libri dell’Iliade il motivo dominante è proprio quello della prepotenza che si manifesta a parole, nel lungo e violento dialogo tra i due eroi greci Achille e Agamennone.
·         Già dall’esordio, l’opera rispecchia il mondo greco delle origini, in cui l’aristocrazia guerriera era formata da capi con pari potere e pari auto­revolezza. Il poema, infatti, si riferi­sce a quel periodo storico in cui i popoli della Grecia erano organizzati in tribù, disseminate nelle varie re­gioni. Ciascuna tribù aveva un pro­prio capo, che risiedeva, per que­stioni di comune interesse, nella città più importante della regione. In ogni città, dunque, un palazzo accoglieva più capitribù, tutti pari fra loro per potere e dignità. Per i contatti con gli altri popoli o in caso di guerra, questi capi eleggevano uno di loro perché li rappresentasse o li guidasse in battaglia.
·         L’ira è la naturale reazione psicolo­gica e morale all’oltraggio dell’ono­re, il valore supremo della società omerica. L’episodio dell’ira di Achil­le ha infatti, per così dire, due pre­cedenti nell’ira di Agamennone che al sacerdote Apollo si rivolge con parole violente, irato anche e so­prattutto dall’acclamazione che l’assemblea militare rivolge al vec­chio Crise (tutti lo acclamarono); nell’ira di Apollo, provocata dalla tracotanza del re nei confronti del suo sacerdote Crise, e quindi, indi­rettamente, nei suoi confronti.

Ma chi fra gli dèi li fece lottare in contesa?
Il figlio[6] di Zeus e Latona; egli, irato col re,
mala peste fe’ nascer nel campo, la gente moriva,
perché Crise l’Atride trattò malamente,
il sacerdote; costui venne alle navi rapide degli Achei
per liberare la figlia, con riscatto infinito,
avendo tra mano le bende[7] d’Apollo che lungi saetta,
intorno allo scettro d’oro, e pregava tutti gli Achei
ma soprattutto i due Atridi[8], ordinatori d’eserciti:
«Atridi, e voi tutti, Achei schinieri robusti,
a voi diano gli dèi, che hanno le case d’Olimpo,
d’abbattere la città di Priamo[9], di ben tornare in patria;
e voi liberate la mia creatura, accettate il riscatto,
venerando il figlio di Zeus, Apollo che lungi saetta».
Allora gli altri Achei tutti acclamarono,
fosse onorato quel sacerdote, accolto quel ricco riscatto.
Ma non piaceva in cuore al figlio d’Atreo, Agamennone,
e lo cacciò malamente, aggiunse comando brutale:
«Mai te colga, vecchio, presso le navi concave,
non adesso a indugiare, non in futuro a tornare,
che non dovesse servirti più nulla lo scettro, la benda del dio!
Io non la libererò: prima la coglierà vecchiaia
nella mia casa, in Argo, lontano dalla patria,
mentre va e viene al telaio e accorre al mio letto.
Ma vattene, non m’irritare, perché sano e salvo tu parta».
Disse così, tremò il vecchio, obbedì al comando,
e si avviò in silenzio lungo la riva del mare urlante;
ma poi, venuto in disparte, molto il vegliardo pregò
il sire Apollo, che partorì Latona bella chioma:
«Ascoltami, Arco d’argento, che Crisa[10] proteggi,
e Cilla[11] divina, e regni sovrano su Tènedo[12],
Sminteo[13], se mai qualche volta un tempio gradito t’ho eretto,
e se mai t’ho bruciato cosce pingui
di tori o capre, compimi questo voto:
paghino i Danai[14] le lacrime mie coi tuoi dardi[15]».
Disse così pregando: e Febo[16] Apollo l’udì,
e scese giù dalle cime d’Olimpo, irato in cuore,
l’arco avendo a spalla, e la faretra chiusa sopra e sotto:
le frecce sonavano sulle spalle dell’irato
al suo muoversi; egli scendeva come la notte.
Si postò dunque lontano dalle navi, lanciò una freccia,
e fu pauroso il ronzio dell’arco d’argento.
I muli colpiva in principio e i cani veloci,
ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta
lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte.

Il diverbio di Achille e Agamennone
·         Agamennone è stato scelto da tutti i rappresentanti degli altri popoli co­me capo supremo della spedizione greca contro Troia, divenendo così il “primo fra i pari”. La sua superiorità è quindi legata a questa situazione - come suprema guida militare egli deve essere rispettato e obbedito da tutti, anche dal valente Achille.
·         Come all'interno del proprio regno, il sovrano era assistito dall'assemblea degli anziani (gherusia), che ne sor­vegliava e fiancheggiava l'opera, co­sì anche in guerra è presente l’as­semblea costituita dai vari monarchi che hanno preso parte alla spedizio­ne e dai loro soldati. Ma quando i capi parlano (è il caso di Achille), i soldati assistono in silenzio. Siamo ancora in una società aristocratica, in cui il peso di un’assemblea è pra­ticamente inesistente.
·         La contesa tra Achille e Agamennone dà inizio al poema, creando una situazione di frattura tra il comandante della spedizione e il suo eroe più valoroso. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, l’ira di Achille non è legata a fattori sentimentali. Egli si sente offeso perché Agamennone vuole privarlo del suo bottino di guerra, segno del suo valore, e per lui questo gesto è un abuso di potere e un mancato riconoscimento del suo onore.

[...] S’alzò fra loro
l’eroe figlio d’Atreo, il molto potente Agamennone,
infuriato; d’ira tremendamente i neri precordi[17]
erano gonfi, gli occhi parevano fuoco lampeggiante;
subito guardando male Calcante gridò:
«Indovino di mali, mai per me il buon augurio tu dici,
sempre malanni t’è caro al cuore predire,
buona parola mai dici, mai la compisci!
E adesso in mezzo ai Danai[18] annunci profetando
che proprio per questo dà loro malanni il dio che saetta,
perch’io della giovane Criseide il ricco riscatto
non ho voluto accettare; molto io desidero
averla in casa, la preferisco a Clitennestra[19] davvero,
benché sposa legittima, ché in nulla è vinta da lei,
non di corpo, non di figura, non di mente, non d’opere.
Ma anche così consento a renderla, se questo è meglio;
io voglio sano l’esercito, e non che perisca.
Però un dono, subito, preparate per me; io non solo
degli Argivi[20] resti indonato, non è conveniente.
Dunque guardate tutti quale altro dono mi tocchi».
Lo ricambiò allora Achille divino piede rapido:
«Gloriosissimo Atride, avidissimo sopra tutti,
come ti daranno un dono i magnanimi Achei?
In nessun luogo vediamo ricchi tesori comuni;
quelli delle città che bruciammo, quelli son stati divisi.
Non va[21] che i guerrieri li mettano di nuovo in comune.
Ma ora tu cedi al dio questa; poi noi Achei
tre volte, quattro volte la riscatteremo, se Zeus
ci dia d’abbatter la rocca di Troia mura robuste».
Ma ricambiandolo disse il potente Agamennone:
«Ah no, per quanto tu valga, o Achille pari agli dèi,
non coprire il pensiero, perché non mi sfuggi né puoi persuadermi.
Dunque pretendi – e intanto il tuo dono tu l’hai – che così
io me ne lasci privare, e vuoi farmi rendere questa?
Ma se mi daranno un dono i magnanimi Achei,
adattandolo al mio desiderio, che faccia compenso, sta bene;
se non lo daranno, io stesso verrò
a prendere il tuo, o il dono d’Aiace[22], o quel d’Odisseo[23]
prenderò, me lo porterò via: ah! s’infurierà chi raggiungo.
Ma via, queste cose potremo trattare anche dopo:
ora, presto, una nave nera spingiamo nel mare divino,
raccogliamovi rematori in numero giusto, qui l’ecatombe[24]
imbarchiamo, la figlia di Crise guancia graziosa
facciamo salire; uno dei capi consiglieri la guidi,
o Aiace, o Idomeneo[25], oppure Odisseo luminoso,
o anche tu, Pelide, il più tremendo di tutti gli eroi,
che tu ci renda benigno, compiendo il rito, il Liberatore[26]».
Ma guardandolo bieco Achille piede rapido[27] disse:
«Ah vestito di spudoratezza[28], avido di guadagno,
come può volentieri obbedirti un acheo,
o marciando o battendosi contro guerrieri con forza?
Davvero non pei Troiani bellicosi io sono venuto
a combattere qui, non contro di me son colpevoli[29]:
mai le mie vacche han rapito o i cavalli,
mai a Ftia dai bei campi, nutrice d’eroi,
han distrutto il raccolto, poiché molti e molti nel mezzo
ci sono monti ombrosi e il mare sonante.
Ma te, o del tutto sfrontato, seguimmo, perché tu gioissi,
cercando soddisfazione per Menelao[30], per te, brutto cane[31],
da parte dei Teucri[32]; e tu questo non pensi, non ti preoccupi,
anzi, minacci che verrai a togliermi il dono
pel quale ho molto sudato, i figli degli Achei[33] me l’han dato.
Però un dono pari a te non ricevo, quando gli Achei
gettano a terra un borgo ben popolato dei Teucri;
ma il più della guerra tumultuosa
le mani mie lo governano; se poi si venga alle parti
a te spetta il dono più grosso. Io un dono piccolo e caro
mi porto indietro alle navi, dopo che peno a combattere.
Ma ora andrò a Ftia[34], perché certo è molto meglio
andarsene in patria sopra le concave[35] navi. Io non intendo per te,
restando qui umiliato, raccoglier beni e ricchezze».
Lo ricambiò allora il sire[36] d’eroi Agamennone:
«Vattene, se il cuore ti spinge; io davvero
non ti pregherò di restare con me, con me ci son altri
che mi faranno onore, soprattutto c’è il saggio Zeus.
Ma tu sei il più odioso per me tra i re alunni di Zeus[37]:
contesa sempre t’è cara, e guerre e battaglie:
se tu sei tanto forte, questo un dio[38] te l’ha dato!
Vattene a casa, con le tue navi, coi tuoi compagni,
regna sopra i Mirmίdoni[39]: di te non mi preoccupo,
non ti temo adirato; anzi, questo dichiaro:
poiché Criseide mi porta via Febo[40] Apollo,
io lei con la mia nave e con i miei compagni
rimanderò; ma mi prendo Briseide guancia graziosa[41],
andando io stesso alla tenda, il tuo dono, sì, che tu sappia
quanto son più forte di te, e tremi anche un altro
di parlarmi alla pari, o di levarmisi a fronte[42]».

Achille, ferito nell’onore, si sentì ribollire il sangue nelle vene e poco mancò che sguainasse la spada per uccidere all’istante Agamennone. Ma dall’Olimpo discese rapida Atena, la dea dagli occhi lucenti, protettrice dei Greci. Si avvicinò ad Achille e, invisibile a tutti tranne che a lui, gli sussurrò all’orecchio: «Calmati, controlla la tua ira! Se uccidi Agamennone, a gioirne saranno i nemici troiani. Se invece saprai dominarti, ti assicuro che sarai ripagato». Achille piegò la testa in segno di assenso e trattenne la mano, limitandosi a sfogare la sua rabbia a parole.

Ma il Pelide[43] di nuovo, con parole oltraggiose[44],
si rivolgeva all’Atride[45], non desisteva ancora dall’ira:
«Avvinazzato[46], tu che hai lo sguardo del cane,
ma il cuore di un cervo[47], mai di armarti alla guerra
insieme all’esercito, né di appostarti in agguato
con i più forti degli Achei ti senti il coraggio nell’animo:
questo ti sembra la morte. Certo che è molto più comodo,
nello spazioso accampamento acheo,
rapinare premi a chiunque parli diverso da te[48].
Sei un re che divora il suo popolo,
poiché comandi su gente da nulla:
se no adesso, figlio di Atreo, era l’ultima volta che insolentivi[49]!
Ma ti dirò una cosa, e farò un gran giuramento:
[…] certo un giorno verrà rimpianto di Achille
ai figli degli Achei, a tutti quanti, e allora non sarai capace,
per quanto ti affligga[50], di dare un aiuto,
quando molti per mano di Ettore massacratore
cadranno morendo; e tu dentro ti mangerai l’anima,
crucciandoti[51] che al migliore degli Achei negasti un compenso».

Quando ebbe finito di parlare, con un gesto di stizza gettò a terra lo scettro e sedette. Agamennone e Achille stavano l’uno di fronte all’altro, lanciandosi occhiate di fuoco.
Intervenne allora il vecchio Nestore, che sapeva come placare gli animi con i suoi saggi discorsi. Con pacate parole riuscì infine a riportare la calma e l’assemblea si sciolse.
Criseide fu affidata a Odisseo, che la riportò per mare a suo padre. Poi vennero indetti solenni sacrifici in onore di Apollo, e la peste smise finalmente di mietere vittime tra i Greci. Ma Agamennone non aveva rinunciato al suo piano: voleva Briseide, la schiava di Achille.
Quando Achille vide arrivare alla sua tenda gli scudieri mandati da Agamennone non si stupì: «Fate pure quello che vi è stato ordinato, voi non avete colpa» e, a malincuore, consegnò loro Briseide, «ma riferite questo ad Agamennone: se un giorno gli Achei avranno bisogno del mio coraggio per combattere contro Troia, che nessuno venga a cercarmi. Io non ci sarò».
Poi voltò loro le spalle e piangendo di rabbia e di dolore, Achille se ne andò sulla spiaggia e lì, solo, in riva al mare, invocò sua madre Teti.

Achille e Teti
·         Amarezza, sconforto e delusione generano il pianto di Achille: la sua personalità è diversa nella sua relazione con gli altri e nella sua anima giovane. Egli ha creduto nella glori promessa da Zeus ed ha trovato il disonore per questo il suo pianto è sconsolato e solo la madre che invoca potrà dargli conforto.
·         Dal profondo degli abissi Teti sentì i suoi lamenti e subito emerse dalle onde.


 [...] e Achille
scoppiando in pianto sedette lontano dai compagni, in disparte,
in riva al mare canuto, guardando l’interminata distesa,
e molto implorava la madre[52], stendendo le mani:
«Madre, poiché mi generasti a vivere breve vita,
gloria almeno dovrebbe darmi l’Olimpio[53]
Zeus, che tuona sui monti; e invece per nulla m’onora.
Ecco, il figlio d’Atreo strapotente, Agamennone,
m’offende; m’ha preso e si tiene il mio dono: me l’ha strappato!»
Diceva così versando lacrime: l’udì la dea madre[54],
seduta negli abissi del mare, vicino al padre vegliardo:
subito emerse dal mare canuto, come nebbia,
e si mise a sedere vicino a lui che piangeva,
lo carezzò con la mano e disse parole, diceva:
[...]
«Ah! creatura mia, perché t’ho allevato, misera madre?
Almeno presso le navi senza lacrime, senza dolore
fossi, dopo che hai sorte breve, non lunga!
Ora votato a rapida morte e ricco di pene fra tutti
tu sei, ché a mala sorte ti generai nel palazzo.
Per dire questa parola a Zeus signore del tuono,
andrò io stessa all’Olimpo nevoso, se voglia ascoltare.
Ma tu, restando presso le navi, che vanno veloci,
contro gli Achei conserva l’ira, rinuncia a combattere.
Però Zeus verso l’Oceano, verso gli Etίopi[55] senza macchia
ieri partì, per un pranzo; e tutti gli dèi lo seguivano;
al dodicesimo giorno ritornerà sull’Olimpo,
e allora t’andrò alla casa di Zeus, dalla soglia di bronzo,
lo supplicherò e penso che potrò persuaderlo».
[...]

Teti scomparve tra la schiuma dei flutti. Tra gli dei dell’Olimpo passavano i giorni, ma l’ira di Achille non si placava. L’eroe non partecipava alle assemblee né alle parate e, chiuso nella sua tenda, ripensava alle dure parole di Agamennone.
Infine Teti volò sull’Olimpo e si inginocchiò ai piedi di Zeus e così lo pregò: «O padre di tutti gli dei, mio figlio Achille è stato offeso da Agamennone, che gli ha sottratto il premio e l’onore. Aiutalo tu e sostieni i Troiani, perché i Greci si pentano della loro superbia». Ma Zeus non rispondeva. Infine disse: «La questione non è semplice. Sai bene che Era, mia sposa, con Atena sostiene la causa degli Achei. Se intervengo in aiuto dei Troiani, certo io e lei litigheremo. Ma lascia fare a me: la tua richiesta verrà esaudita».
Quando Zeus tornò alla sua casa, subito Era intuì che le stava nascondendo qualcosa. «Che cosa trami questa volta, marito mio? Zeus, adirato, rispose brusco: «Come osi rivolgerti a me con questo tono? Io sono il signore degli dei, che dirige le vie del destino. Non pretendere di conoscere il mio pensiero, che è oscuro anche agli dei».
Ma Era, piena di sospetto, insisteva e lo accusava di tenerla all’oscuro dei suoi piani, mentre Zeus si adirava sempre di più.
Nel frattempo Agamennone aveva pensato che lui e il suo esercito avrebbero potuto continuare a combattere normalmente anche senza l'aiuto del più valoroso degli achei contro Troia, ma si sbagliava, perché da quel momento Ettore, colse l'occasione per far avanzare la sua armata e sbaragliare quella nemica. L'esercito greco incomincia a perdere terreno e battaglie, venendo ricacciato sempre più indietro nella spiaggia fino alle navi.
Achille, sebbene sollecitato da frequenti ambasciate inviate da Agamennone e dai suoi amici, tra i quali Patroclo, il suo migliore amico, rifiutava di accettare la pace e così continuò fino ad un evento tragico. Infatti, essendo l'esercito dei Greci in seria difficoltà, con il grave pericolo di essere ricacciato in mare, Patroclo, migliore amico di Achille, decide di imbracciare le armi dell’amico pensando di far credere ai Troiani di essere Achille e farli in questo modo scappare terrorizzati, così si presenta in campo.
Ma Ettore non ci casca e non perde l'occasione per affrontarlo; credendolo Achille, lo uccide quasi subito. Solo quando muore Patroclo Ettore riconosce il grave errore e già prevede la sua morte per mano di Achille.

Morte di Patroclo
Da Iliade[56] di Omero ( traduzione di Rosa Calzecchi Onesti)
·         Patroclo chiese ad Achille che non voleva ritornare a combattere, di mandarlo in campo ri­vestito delle sue armi per incutere terrore ai nemici. Achille acconsentì, ma gli raccomandò di limitarsi a respingere i Troiani, senza tentare la conquista della città e supplicò Zeus di concedergli la vittoria e di farlo tornare illeso. Zeus esaudisce la prima preghiera, ma non la seconda.
·         L’apparizione di Patroclo con le armi di Achille, provoca scompiglio fra i Troiani; il giovane avanza e si lancia all’attacco delle mura di Troia. Apollo lo colpisce alla schiena, gli scioglie l’armatura e lascia che sia ucciso da Ettore, che si impadronisce delle armi e le indossa giubi­lante. Patroclo gli predice che presto anch’egli morirà per mano di Achille, mentre Zeus osserva la scena dall’Olimpo.
·         intorno alla salma di Patroclo, si accende la battaglia fra Greci e Troiani, mentre un messaggero si reca da Achille per portar­gli la notizia della morte dell’amico.
·         La morte di Patroclo è descritta con intensa partecipazione emotiva. Ettore apparirà qui come un eroe spietato, mentre Patroclo, con la sua dolcezza e nobiltà d’animo, è pronto a sacrificare la vita in nome dell’amicizia e della solidarietà verso i compagni. Egli è però destinato a essere vinto, ucciso dagli dèi e dal fato, di cui è impossibile modificare il corso

E fino che il sole saliva nel mezzo del cielo,
d’ambe le parti volavano i dardi, cadeva la gente,
ma quando il sole inchinò all’ora che i bovi si sciolgono,
gli Achei furono allora oltre modo più forti,
trassero fuori dal tiro l’eroe Cebrione,
fuor dalle grida dei Teucri, e lo spogliarono dell’armi.
E Patroclo[57] si slanciò sui Troiani meditando rovina,
si slanciò per tre volte, simile ad Ares[58] ardente,
paurosamente gridando: tre volte ammazzò nove uomini[59].
Ma quando alla quarta balzò, che un nume[60] pareva,
allora, Patroclo, apparve la fine della tua vita[61]:
Febo[62] gli mosse incontro nella mischia selvaggia,
tremendo, ed egli non lo vide venire in mezzo al tumulto;
gli venne incontro nascosto di molta nebbia.
E dietro gli si fermò, colpì la schiena e le larghe spalle
con la mano distesa: a Patroclo girarono gli occhi[63].
E Febo Apollo gli fece cadere l’elmo giù dalla testa:
sonò[64] rotolando sotto gli zoccoli dei cavalli
l’elmo a visiera abbassata, si sporcarono i pennacchi
di sangue e polvere: mai prima era stato possibile
che il casco chiomato si sporcasse di polvere,
che d’un uomo divino[65] la bella fronte e la testa
proteggeva, d’Achille: ma allora Zeus lo donò a Ettore,
da portare sul capo: e gli era vicina la morte[66].
Tutta in mano di Patroclo si spezzò l’asta ombra lunga,
greve[67], solida, grossa, armata di punta: e dalle spalle
con la sua cinghia di cuoio cadde per terra lo scudo,
gli slacciò la corazza il sire Apollo, figlio di Zeus.
Una vertigine gli tolse la mente, le membra belle si sciolsero[68],
si fermò esterrefatto[69]: e dietro la schiena con l’asta aguzza.
in mezzo alle spalle, dappresso[70], un eroe dardano lo colpì,
Èuforbo di Pàntoo[71] che sui coetanei brillava
per l’asta, per i cavalli e per i piedi veloci[72];
venti guerrieri gettò giù dai cavalli
appena giunse col cocchio a imparare la guerra.
Questi per primo a te lanciò l’asta, Patroclo cavaliere,
ma non t’uccise, e corse indietro e si mischiò tra la folla,
strappata l’asta di faggio: non seppe affrontare
Patroclo, benché nudo[73], nella carneficina.
Ma Patroclo, vinto dal colpo del dio e dall’asta,
fra i compagni si trasse evitando la Chera[74].
Ettore, come vide il magnanimo Patroclo
tirarsi indietro, ferito dal bronzo puntuto[75],
gli balzò addosso in mezzo alle file, lo colpì d’asta
al basso ventre: lo trapassò col bronzo.
Rimbombò stramazzando[76], e straziò il cuore all’esercito acheo.
Come quando un leone vince in battaglia un cinghiale indomabile,
- essi superbamente han combattuto sui monti
per una piccola polla[77]: volevano bere entrambi –
e infine con la sua forza il leone vince l’altro che rantola[78];
così il Meneziade[79], che già molti ammazzò,
Ettore figlio di Priamo privò della vita con l’asta,
e gli disse vantandosi parole fuggenti[80]:
«Patroclo, tu speravi d’abbattere la nostra città,
e alle donne troiane togliendo libero giorno[81],
condurle sopra le navi alla tua terra patria,
stolto[82]! Per esse i veloci cavalli d’Ettore
si tendono sopra i garretti[83] a combattere: io con l’asta
eccello fra i Teucri amanti di guerra: e così li difendo
dal giorno fatale[84]; ma te qui gli avvoltoi mangeranno[85].
Pazzo! Achille, per forte che sia, non ti potrà proteggere,
egli che, forse, restando, a te che partivi raccomandò molte cose:
«O Patroclo cavaliere, non mi tornare davanti
alle concave navi, prima che d’Ettore massacratore
l’insanguinata tunica intorno al petto tu stracci».
Così, certo, ti disse, stolto, e persuase il tuo cuore».
E tu rispondesti, sfinito, Patroclo cavaliere:
«Sì, Ettore, adesso vantati: a te hanno dato
vittoria Zeus Cronide[86] e Apollo, che m’abbatterono
facilmente: essi l’armi dalle spalle mi tolsero.
Se anche venti guerrieri come te m’assalivano,
tutti perivano qui, vinti dalla mia lancia;
me uccise destino fatale e il figliuol di Latona[87],
e tra gli uomini Èuforbo: tu m’uccidi per terzo.
Altro ti voglio dire e tientelo in mente:
davvero tu non andrai molto lontano, ma ecco
ti s’appressa la morte e il destino invincibile:
cadrai per mano d’Achille, dell’Eacide[88] perfetto[89]».
Mentre parlava così la morte l’avvolse,
la vita volò via dalle membra e scese nell’Ade[90],
piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il vigore[91].
Al morto Ettore luminoso rispose:
«Patroclo, perché mi predici abisso di morte?
Chi sa se Achille figlio di Teti chioma bella
non mi preceda nel perder la vita, colto dalla mia lancia?».
Dicendo così, l’asta di bronzo dalla ferita strappò,
premendo col piede, lo rovesciò supino.

Il libro diciottesimo dell’Iliade segna una fine ed un inizio.
L’ira di Achille, suscitata dalla contesa con Agamennone, si spegne in seguito al dolore per la morte di Patroclo, ma lascia il posto a una nuova ira rivolta contro Ettore.
Achille, saputa la notizia terribile, scoppia in singhiozzi che si trasformano in furia cieca. Avendo sentito dalle profondità del mare il pianto del figlio, Teti si reca da lui a confortarlo, poi chiede ad Efesto di forgiare nuove armi per Achille, che ha deciso di ritornare in battaglia per vendicare Patroclo. Il libro finisce con la descrizione dello scudo di Achille, in cui il dio ha raffigurato il mondo intero: il cielo, la terra, il mare, il sole, il fiume Oceano che cinge il mondo, la vita della città e della campagna, scene di pace e di guerra.
Successivamente si celebrano i funerali in onore di Patroclo e Achille si farà ricostruire le armi e partirà verso Troia per compiere il proprio destino.

La disperazione di Achille
Così combattevano quelli, come divampa un incendio,
mentre corse da Achille Antiloco, messaggero veloce.
Lo trovò davanti alle navi, che hanno alta la poppa e la prua,
presago in cuor suo di quanto era avvenuto;
disse allora turbato al suo stesso cuore animoso:
«Ahimè, perché di nuovo gli Achei dalle chiome fluenti
sono respinti alle navi spaventati per la pianura?
Che gli dèi non procurino dolori amari al mio cuore,
come prevedeva mia madre, e mi diceva
che il più forte dei Mirmidoni, me ancora in vita,
avrebbe lasciato la luce del sole per mano dei Troiani.
Certamente è morto il prode figlio di Menezio,
testardo! E sì che gli avevo ordinato di tornare alle navi,
dopo avere sventato il fuoco nemico, e di non battersi con Ettore!».
Mentre questo agitava nel petto e nell’animo,
gli venne vicino il figlio del nobile Nestore,
versando lacrime calde, e gli dava la triste notizia:
«Ahimè, figlio del valoroso Peleo, tu sentirai
una notizia davvero luttuosa, che non doveva succedere!
Patroclo è caduto, e combattono sul suo cadavere ormai nudo:
le armi le ha prese Ettore dall’elmo ondeggiante».
Così diceva; su Achille calò una densa nube di dolore:
con entrambe le mani prendendo polvere e cenere,
se le spargeva in testa, imbrattava il suo bel volto;
altra cenere nera sporcava il suo chitone profumato.
Giaceva smisurato, steso in mezzo alla polvere,
e con le sue stesse mani straziava i capelli strappandoli.
Le ancelle prese in guerra da Achille e da Patroclo,
disperate in cuor loro, gridavano forte, e dal di dentro
corsero intorno ad Achille animoso, si battevano tutte
il petto con le mani, le gambe venivano meno.
Dall’altra parte, Antiloco si lamentava piangendo,
e tratteneva le mani di Achille: era angosciato in cuor suo:
temeva che Achille si tagliasse la gola col ferro.
Lanciò un grido terribile: lo udì la madre divina
mentre sedeva nelle profondità del mare, accanto al suo vecchio padre
e ruppe in lamenti; le vennero incontro tutte le dee,
quante erano le Nereidi giù nel fondo del mare.
A lui che gemeva accorato s’accostò la madre divina,
con un lamento acuto prese la testa del figlio,
e piangendo diceva parole che volano:
«Figlio, perché piangi? Quale dolore t’è entrato nel cuore?
Parla, non tenerlo nascosto! Tutto quanto è stato compiuto
da Zeus per te, come tu pregavi, le braccia protese al cielo,
che fossero tutti respinti alle navi i figli degli Achei,
bisognosi di te, e subissero colpi terribili».
A lei, con un gemito profondo, diceva Achille dal piede veloce:
«Madre mia, questo certo l’Olimpio l’ha fatto per me;
ma che gioia me ne viene, se è morto il mio compagno,
Patroclo, che fra tutti i compagni più mi era caro,
come la mia stessa vita! Ed io l’ho perduto! Ettore ha preso,
dopo averlo ucciso, la grande armatura, splendore a vedersi,
bellissima: gli dèi la dettero a Peleo, dono stupendo,
il giorno in cui ti spinsero nel letto di un mortale.
Magari fossi restata laggiù con le dee del mare,
e Peleo avesse sposato una donna mortale!
E invece è il contrario, perché avessi dolore infinito nel cuore
per la morte del figlio tuo, che tu non rivedrai
al suo ritorno a casa, perché non mi spinge il cuore
a vivere, a stare in mezzo alla gente, se Ettore prima,
colpito dalla mia lancia, non perde la vita,
non paga la rapina che ha fatto a Patroclo, figlio di Menezio!».
A lui rispondeva allora Teti fra le lacrime:
«A vita breve mi sei destinato, figlio mio, per come parli:
la morte per te è subito pronta, dopo quella di Ettore».
Esacerbato le disse Achille dal piede veloce:
«Potessi morire subito, se non dovevo dar soccorso
al mio compagno ucciso; è morto lontano dalla sua patria,
e non ebbe me a proteggerlo dalla sventura!
Ora non posso tornare nella mia terra patria,
e non sono stato d’aiuto a Patroclo né agli altri compagni,
che in gran numero furono uccisi da Ettore divino,
ma me ne sto accanto alle navi, inutile peso alla terra,
benché in guerra sia tale, quale nessuno degli Achei bellicosi
(in assemblea ci sono anche altri migliori di me).
Perisca la discordia fra gli uomini e fra gli dèi,
perisca, l’ira, che spinge alla furia anche il più saggio,
che è molto più dolce del miele stillante
e come fumo si gonfia nel petto degli uomini!
Come ora m’ha fatto adirare Agamennone sovrano.
Ma lasciamo correre ormai, nonostante il dolore,
dominando il cuore nel petto, come è necessario;
adesso andrò a prendere chi m’ha ucciso l’amico più caro,
Ettore; anch’io accetterò la mia sorte quando
voglia compierla Zeus e gli altri dèi immortali».

Nel blocco di quattro libri (XIX-XXII) è raccontata la giornata più importante di tutta l’Iliade che inizia con la vestizione delle armi da parte di Achille e si conclude con la morte di Ettore.
Ritornato a combattere, Achille si scontra una prima volta con Ettore, senza riuscire a colpirlo, e fa una prima strage di Troiani. Poi si dirige verso il fiume Scamandro e continua la strage, inseguendo i nemici fin dentro le acque ed uccidendoli con tale furia da suscitare l’ira del dio-fiume il quale tenta di travolgerlo nei suoi gorghi, poi lo insegue uscendo dagli argini.
Infine affronta Ettore, che è rimasto fuori dalle mura dove tutti gli altri Troiani si sono rifugiati. Quando vede Achille avvicinarsi a lui, terribile nello splendore delle armi, l’eroe troiano è colto da paura e fugge. Gira per tre volte intorno alle mura, mentre gli dèi osservano la scena dall’alto.
Quando Zeus si accorge che la bilancia del fato su cui ha posto il destino di Ettore si abbassa rapidamente, lo abbandona alla sua sorte.
Atena consiglia gli eroi di fermarsi ed incoraggia Ettore, assumendo le sembianze del fratello Deifobo. I due si scontrano ed Ettore è trafitto dalla lancia di Achille, il quale poi fa scempio del cadavere, trascinandolo legato al suo carro fino alle navi degli Achei e trascina nella sua tenda il corpo insanguinato.

La morte di Ettore
·         La sfida tra Ettore e Patroclo ha provocato la morte di quest'ultimo. Achille, infatti, appena apprende della morte di Patroclo, decide di tornare a combattere per vendetta. Il suo ritorno preannunciato da un urlo terrificante, atterrisce i nemici, i quali decidono di tornare a Troia. Qui si svolge un'assemblea e alla fine si stabilisce di ingaggiare una nuova battaglia contro i Greci. Ettore dichiara di essere pronto a sfidare in duello Achille.
·         Lo scontro tra Ettore ed Achille avviene sotto lo sguardo dei genitori di Ettore e degli Dei che guardano dall'alto. Zeus soffre per la morte di Ettore e propone agli altri Dei di salvarlo, ma Atena gli ricorda che non è possibile sottrarre un uomo dal suo destino. Zeus consulta il volere del Fato sollevando una bilancia che indica gli esiti dei combattimenti. La sorte di Ettore scende in basso, verso il regno dei morti. Di fronte a questo, Apollo, che continuava a sostenere l'eroe, lo abbandona al suo destino. Ma, quando Ettore vede Achille, fugge atterrito per sottrarsi alla morte, inseguito dall'avversario. La lunga corsa si finisce quando di fronte all'eroe troiano appare la dea Atena, che ha assunto le sembianze di Deifobo, fratello di Ettore. Confortato dal sostegno di chi crede essere suo fratello, ignaro dell'inganno, l'eroe troiano decide allora di affrontare Achille.
·         Achille lo uccide colpendolo nel punto tra la scapola e il collo, dove le sue armi (bronzee e bellissime) erano più vulnerabili. Apollo colpisce a tradimento Ettore, che è ferito a morte da Achille. Prima di morire gli predice il suo destino, mentre tutta Ilio guarda la scena.
·         I personaggi più noti dell'Iliade sono sicuramente Ettore e Achille. Questi due guerrieri sono molti diversi anche se appartengono agli stessi tempi, questo perché rispecchiano due società molto diverse. Il famoso Achille nasce dall'amore della ninfa Teti e dal mortale Peleo. È il personaggio principale dell'Iliade, forse per la sua immortalità avuta grazie alla madre. La leggenda narra che Teti nel tentativo di renderlo immortale, quando era molto piccolo, lo immerse nel fiume Stige tralasciando però il tallone da cui lo manteneva, che rimase così l'unica parte vulnerabile del suo corpo, è proprio da qui nasce la tipica espressione ''il Tallone di Achille'' che la si usa quando si vuole evidenziare una parte fisica o psichica molto debole di qualcuno.
·         Achille rappresentava la società greca, era un guerriero molto volenteroso e dal carattere molto forte, combatteva solo per la propria gloria. Venne ucciso da Paride, fratello di Ettore, nell'intento di vendicare il fratello ucciso appunto da Achille. Paride con una freccia avvelenata riesce a colpire esattamente l'unico punto vulnerabile del volenteroso guerriero, portandolo così alla morte. Una morte prevista dato che Achille aveva scelto la sua sorte ossia di non affidarsi ad una morte di vecchiaia, senza onore ma di avere una vita breve che, però, lo portasse nella memoria di tutti.
·         Ettore è un personaggio anch'egli molto importante, ma molto diverso da Achille. Ettore rappresenta i Troiani, ed è figlio di Priamo e di Ecuba, un guerriero dal carattere molto debole. Ettore a differenza di Achille ama la propria patria e combatte solo per essa e per amore della sue famiglia. A differenza di Achille, Ettore si evidenzia perché sfida la sua sorte, sfida Achille in modo coraggioso ma quasi inutilmente convinto che l'unico modo per difendere ciò che ama sia morire. Achille rappresenta il semidio, temuto da tutti e molto forte e Ettore la specie umana, destinata a morire.

Achille veloce seguiva Ettore, senza riposo incalzandolo;
come un cane sui monti insegue un nato di cerva[92]
per valli e per gole dopo averlo snidato:
e se quello s’appiatta smarrito sotto un cespuglio,
corre pur sempre cercando le tracce finché lo trova;
così non sfuggiva Ettore al piede rapido Achille.
Quante volte[93] pensava di balzare in avanti
verso le porte dei Dardani[94], verso le solide torri,
se mai con l’aste dall’alto potessero dargli soccorso;
tante[95] Achille gli si parava incontro e lo faceva voltare
verso la piana; volava lui sempre dritto alla rocca.
Come uno nel sogno non può arrivare un fuggiasco,
questi non può sfuggire, l’altro non può arrivarlo[96];
così non poteva correndo Achille afferrarlo, né l’altro salvarsi.
E come Ettore avrebbe potuto sfuggire le Chere di morte
se Apollo non gli veniva vicino per l’ultima volta
a stimolargli le forze e le ginocchia veloci?
Intanto ai soldati il rapido Achille accennava di no,
non voleva che i dardi amari scagliassero ad Ettore,
non gli rubasse qualcuno la gloria, colpendolo, e lui fosse secondo.
Ma quando arrivarono la quarta volta alle fonti,
allora Zeus agganciò la bilancia d’oro,
le due Chere di morte lunghi strazi vi pose,
quella d’Achille e quella d’Ettore domatore di cavalli,
la sospese pel mezzo: d’Ettore precipitò il giorno fatale
e finì giù nell’Ade; l’abbandonò allora Apollo.
E quando furon vicini, marciando uno sull’altro,
il grande Ettore elmo lucente parlò per primo ad Achille:
«Non fuggo più davanti a te, figlio di Peleo, come or ora
corsi tre volte intorno alla grande rocca di Priamo, e non seppi
sostenere il tuo assalto: adesso il cuore mi spinge
a starti a fronte, debbo io vincere o essere vinto.
Su invochiamo gli dèi: essi i migliori
testimoni saranno e custodi dei patti;
io non intendo sconciarti orrendamente, se Zeus
mi darà forza e riesco a strapparti la vita;
ma quando, o Achille, t’abbia spogliato l’inclite[97] armi,
renderò il corpo agli Achei: e anche tu fa’ così».
E guardandolo bieco, Achille piede rapido disse:
«Ettore, non mi parlare, maledetto, di patti:
come non v’è fida alleanza fra uomo e leone,
e lupo e agnello non han mai cuori concordi,
ma s’odiano senza riposo uno con l’altro,
così mai potrà darsi che ci amiamo io e te; fra di noi
non saran patti, se prima uno, caduto,
non sazierà col sangue Ares, il guerriero indomabile.
Ogni bravura ricorda; ora sì che tu devi
esser perfetto con l’asta e audace a lottare!
Tu non hai via di scampo, ma Pallade Atena
t’uccide con la mia lancia: pagherai tutte insieme
le sofferenze dei miei che uccidesti infuriato con l’asta».
Diceva, e l’asta scagliò, bilanciandola;
ma vistala prima, l’evitò Ettore illustre[98]:
la vide, e si rannicchiò, sopra volò l’asta di bronzo
e s’infisse per terra; la strappò Pallade Atena,
la rese ad Achille, non vista da Ettore pastore di genti.
Ettore, allora, parlò al Pelide perfetto:
«Fallito! Ma dunque tu non sapevi, Achille pari agli dèi,
no affatto, da Zeus la mia sorte; eppure l’hai detta.
Facevi il bel parlatore, l’astuto a parole,
perché atterrito, io scordassi il coraggio e la furia.
No, non nella schiena d’uno che fugge pianterai l’asta,
ma dritta in petto, mentre infurio, hai da spingerla,
se un dio ti dà modo[99]. Evita intanto questa mia lancia
di bronzo: che tu possa portarla tutta intera nel corpo!
Ben più leggera sarebbe la guerra pei Teucri,
te morto: che tu sei per loro l’angoscia più grande».
Diceva, e bilanciandola scagliò l’asta ombra lunga;
e colse nel mezzo lo scudo d’Achille, non sbagliò il colpo;
ma l’asta rimbalzò dallo scudo; s’irritò Ettore,
che inutile il rapido dardo gli fosse ruggito di mano,
e si fermò avvilito, perché non aveva un’altr’asta di faggio;
chiamò gridando forte il bianco scudo Deìfobo,
chiedeva un’asta lunga: ma quello non gli era vicino.
Comprese allora Ettore in cuore e gridò:
«Ahi! Davvero gli dèi mi chiamano a morte.
Credevo d’aver accanto il forte Deìfobo:
ma è fra le mura, Atena m’ha teso un inganno.
M’è accanto la mala morte, non è più lontana,
non è inevitabile ormai, e questo da tempo era caro
a Zeus e al figlio arderò di Zeus, che tante volte
m’han salvato benigni. Ormai m’ha raggiunto la Moira.
Ebbene, non senza lotta, non senza gloria morrò,
ma compiuto gran fatto, che anche i futuri lo sappiano!».
Parlando così, sguainò la spada affilata,
che dietro il fianco pendeva, grande e pesante;
e si raccolse e scattò nell’assalto, com’aquila alto volo,
che piomba sulla pianura traverso alle nuvole buie,
a rapir tenero agnello o lepre appiattato:
così all’assalto scattò Ettore, la spada acuta agitando.
Ma Achille pure balzò, dì furia empì il cuore
selvaggio: parò davanti al petto lo scudo
bello, adorno, e squassava l’elmo lucente
a quattro ripari; volava intorno la bella chioma
d’oro, che fitta Efesto lasciò cadere in giro al cimiero.
Come la stella avanza fra gli astri nel cuor della notte,
Espero, l’astro più bello ch’è in cielo,
così lampeggiava la punta acuta, che Achille scuoteva
nella sua destra, meditando la morte d’Ettore luminoso,
cercando con gli occhi la bella pelle, dove fosse più pervia.
Tutta coprivan la pelle l’armi bronzee, bellissime,
ch’Ettore aveva rapito, uccisa la forza di Patroclo;
là solo appariva, dove le clavicole dividon le spalle
dalla gola e dal collo, e là è rapidissimo uccider la vita.
Qui Achille glorioso lo colse con l’asta mentre infuriava,
dritta corse la punta traverso al morbido collo;
però il faggio greve non gli tagliò la strozza,
così che poteva parlare, scambiando parole.
Stramazzò nella polvere: si vantò Achille glorioso:
«Ettore, credesti forse, mentre spogliavi Patroclo,
di restare impunito: di me lontano non ti curavi,
bestia! ma difensore di lui, e molto più forte,
io rimanevo sopra le concavi navi,
io che ti ho sciolto i ginocchi. Te ora cani e uccelli
sconceranno sbranandoti: ma lui seppelliranno gli Achei».
Gli rispose, senza più forza, Ettore elmo lucente:
«Ti prego per la tua vita, per i ginocchi, per i tuoi genitori,
non lasciare che presso le navi mi sbranino i cani
degli Achei, ma accetta oro e bronzo infinito,
i doni che ti daranno il padre e la nobile madre:
rendi il mio corpo alla patria, perché del fuoco
diano parte a me morto i Teucri e le spose dei Teucri...».
Ma bieco guardandolo, Achille piede rapido disse:
«No, cane, non mi pregare, né pei ginocchi né pei genitori;
ah! che la rabbia e il furore dovrebbero spingere me
a tagliuzzar le tue carni e a divorarle così, per quel che m’hai fatto:
nessuno potrà dal tuo corpo tener lontane le cagne,
nemmeno se dieci volte, venti volte infinito riscatto
mi pesassero qui, altro promettessero ancora;
nemmeno se a peso d’oro vorrà riscattarti
Priamo Dardanide, neanche così la nobile madre
piangerà steso sul letto il figlio che ha partorito,
ma cani e uccelli tutto ti sbraneranno».
Rispose morendo Ettore elmo lucente:
«Va’, ti conosco guardandoti! io non potevo
persuaderti, no certo, che in petto hai un cuore di ferro.
Bada però, ch’io non ti sia causa dell’ira dei numi,
quel giorno che Paride e Febo Apollo con lui
t’uccideranno, quantunque gagliardo, sopra le Scee».
Mentre diceva così, l’avvolse la morte:
la vita volò via dalle membra e scese nell’Ade,
piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il vigore.
Rispose al morto il luminoso Achille:
«Muori! La Chera io pure l’avrò, quando Zeus
vorrà compierla e gli altri numi immortali».

Con la morte di Ettore l’ira di Achille ha raggiunto il suo scopo, ma non la sua fine. Essa ha provocato uno sconvolgimento nel mondo che potrà trovare un nuovo equilibrio solo attraverso la pacificazione. Ciò avviene in tre momenti, placando l’anima di Patroclo con funerali, celebrando gio­chi funebri in suo onore e restituendo a Priamo il cadavere di Ettore, momento culmi­nante della vicenda.

Priamo e Achille
·         Quella stessa notte Priamo, re di Troia, si reca nell'accampamento greco a chiedere la restituzione del corpo di Ettore, per tributargli i dovuti onori. Achille decide di non uccidere Priamo per rispetto, ma sulle prime è riluttante sul fatto di restituirgli il cadavere. Priamo riesce a convincere l'animo di Achille, ricordandogli suo padre Peleo. Achille così restituisce il cadavere di Ettore a Priamo, che lo riporta nella città.
·         Protagonista dell’episodio è la sofferenza di un padre che, per amore del figlio, si spoglia della sua regalità e bacia le mani omicide del nemico. Priamo, re di Troia assediata, si fa supplice davanti all’eroe greco per riavere il cadavere di suo figlio. Di fronte alla ritrosia dell’avversario, il vecchio fa leva sul ricordo, ancora fresco, dei lutti passati: i due si ritrovano così a piangere insieme, versando lacrime amare, ma sincere e purificatrici.
·         In questo episodio ci sono due mondi che si incontrano e insieme soffrono. Priamo ed Achille sono soli nella tenda di Achille: gli dei sono assenti, tacciono. In scena c’è solo umanità. Non c’è scontro tra greco e barbaro: i due nemici mettono da parte le rivalità e si abbracciano, un abbraccio mediterraneo, universale. Solo i ricordi dei cari popolano la tenda, e tra il vecchio re troiano e il giovane principe greco si crea empatia: un’empatia che spinge il giovane uomo a cedere alla richiesta di un vecchio padre straziato. Ma prima della consegna è necessario un rito di passaggio: il banchetto e il sonno ristoratore. La rappresentazione si chiude infatti con l’invito di Achille a mangiare insieme e, successivamente, a riposare. Questo riferimento, apparentemente poco significativo, assume invece grande importanza: Priamo, che dalla morte di Ettore non era più riuscito a darsi pace, purificato ora dalle lacrime del ricordo può ricominciare a mangiare, a dormire – a vivere.
·         In questo episodio si palesa la grande protagonista di tutta l’epica: la memoria. «Tutto il passato si fonda sulla memoria» Fino a quando non fu inventata la scrittura e per molto tempo ancora avanti, infatti, fu solo grazie alla memoria dei rapsodi che le tradizioni poterono sopravvivere, tramandate di bocca in bocca, di generazione in generazione. Ma il rapsodo è solo un tramite, perché la memoria non si esaurisce nell’attore: fluisce nel canto in chi lo ascolta e solo chi ricorda partecipa. Ora ci vogliono far dimenticare guerre e orrori, ma è la Storia che ci fa uomini»
·         L’incontro tra Priamo e Achille è un incontro tra Oriente ed Occidente e fa riflettere su come ancor oggi continua quell’incontro confronto e scontro. In Priamo c’è la dolorosa constatazione della morte del suo figlio migliore, di quell’Ettore, che pur conscio del possibile epilogo della lotta quasi stabilito dagli dei, combatte la sua battaglia nella speranza che i suoi sforzi possano essere coronati dal successo, difendere e salvare la patria. Di fronte c’è un Achille, di per sé spietato nella sua consapevolezza di essere quasi immortale e conscio di voler avere un giorno da leone, di vivere la sua vita come una fiamma capace di brillare più intensamente di altre anche se per un tempo più breve. Achille ed Ettore uomini si ritrovano di fronte: entrambi sconfitti dalla vita e dalla stessa persona che è infine responsabile della morte loro e di tanti altri eroi. Muoiono entrambi uccisi da Paride che provocò la guerra, dando ad Agamennone l’occasione per avviare quel duello fra Occidente ed Oriente che si sarebbe concluso solo con la sconfitta di Serse.
·         In questo confronto fra occidente e oriente i due protagonisti quasi gareggiano per conquistare la scena, ma è Priamo il più grande perché commuove l’animo di Achille e lo induce a quella pietà sconosciuta agli Achei che saranno poi sconfitti dai Dori che mieteranno allori proprio a casa di quei Greci Antichi che avevano navigato, anch’essi pieni di sé, verso Ilio dalle alte mura! Priamo, che in gioventù era stato grande guerriero, qui mostra tutta la debolezza del padre al quale un Fato avverso ha sottratto il figlio adorato e la sua preghiera ad Achille ha nell’umiltà il tratto saliente che non sfugge ad Achille. Proprio lui che è maestro di orgoglio, di rigidezza e di inflessibilità, dinanzi al vecchio padre, inerme dinanzi alla sua forza, scopre una pietà inesplicabile e restituisce il corpo violato del suo nemico. Quello stesso nulla dinanzi agli occhi di Achille deve aver spalancato in lui una finestra dalla quale deve aver visto la sua stessa fine, nella caducità della vita umana degli eroi: fiaccole che bruciano nella notte con inusitata potenza. Ma Achille, nel corpo di Ettore avrà intuito la visione di sé verso il Tartaro inglorioso e avrà pensato che su di lui neanche Peleo avrebbe potuto piangere e la pietà per quel padre che, invece, ha la possibilità di piangere il figlio, eroicamente, lo spinge al gesto magnanimo e riconsegna le spoglie su cui ha infierito per desiderio di vendetta più che per puro odio.
·         Ancora una volta Omero in questo episodio lascia che le passioni violente cedano il passo ad un sentimento più composto. Ora, ritorna la compostezza ed un velo di umanità spegne la rabbia nel cuore di Achille. Non solidarietà che mancava in quell’epoca di eroi contrapposti e neanche una pietas fatta di grandezza, ma piuttosto commozione di fronte alla grandezza del vecchio che si umilia dinanzi al più forte e che già, nei disegni del Fato, si avvia verso il buio della morte in un’epoca nella quale non si risorge, non ancora, non si può perché si è sotto lo sguardo dell’Olimpo fatto esso stesso di passioni…
·         Nell’atto di Achille sta la sintesi della fine dell’Iliade che non potrà dire null’altro perché è questo il suo episodio più grande… Del cavallo e degli incubi della fine se ne incaricherà l’Odissea con uno stile più maturo ed anche sofferto!

Il grande Priamo entrò non visto, ed avvicinatosi
abbracciò le ginocchia di Achille, baciò le sue mani[100]
tremende, omicide, che a lui tanti figli avevano ucciso.
Come quando grave follia colpisce un uomo, che al suo paese
uccide qualcuno ed emigra in terra straniera,
in casa d’un ricco, e chi lo vede prova stupore,
così Achille ebbe un sussulto, quando vide Priamo simile a un dio;
anche gli altri stupirono, si guardarono tra loro.
Priamo, in atto di supplice, gli rivolse questo discorso:
«Ricordati del padre tuo, Achille pari agli dèi,
come me avanti negli anni, sulla soglia triste della vecchiaia:
forse anche a lui danno guai i popoli intorno
accerchiandolo, e non c’è nessuno a stornare da lui la rovina.
Eppure tuo padre, sapendo che tu sei vivo,
gioisce nell’animo suo, e spera di giorno in giorno
di vedere suo figlio tornare da Troia;
infelice davvero sono io, che nella vasta Troia ho generato
figli meravigliosi, e non me ne resta nessuno.
Ne avevo cinquanta, quando arrivarono i figli degli Achei;
diciannove m’erano nati tutti da uno stesso ventre[101],
gli altri me li partorivano donne diverse nella mia casa.
Alla maggior parte Ares violento ha fiaccato i ginocchi[102];
e quello che per me era unico, che salvava la città e la gente,
tu proprio adesso l’hai ucciso, mentre combatteva per la patria,
Ettore: ora vengo per lui fino alle navi degli Achei
a riscattarlo da te, e porto un compenso ricchissimo.
Su, Achille, rispetta gli dèi ed abbi pietà di me,
nel ricordo di tuo padre: ancora più degno di pietà sono io,
ho sopportato quello che al mondo nessun altro mortale,
di portare alla bocca la mano dell’uccisore di mio figlio».
Disse così, ed in lui stimolò il desiderio di piangere il padre:
allora afferrò la sua mano e scansò dolcemente il vecchio.
Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore
piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille,
mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti
anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa.
Ma quando il divino Achille fu sazio di pianto,
gli svanì quella voglia dal corpo e dal cuore,
s’alzò di scatto dal seggio, sollevò per la mano il vecchio,
mosso a pietà dalla sua testa bianca, dal suo mento bianco,
e, articolando la voce, gli diceva parole che volano:
«Infelice, molti affanni davvero hai patito in cuor tuo.
Come hai osato recarti da solo alle navi degli Achei,
al cospetto dell’uomo che numerosi e gagliardi
figli t’ha ucciso? Hai un cuore forte come l’acciaio!
Ma su, riposati su questo seggio, ed anche se afflitti,
lasciamo comunque dormire nel cuore i dolori;
dal lamento che ci raggela non viene un guadagno:
gli dèi stabilirono questo per gl’infelici mortali,
vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni.
Due giare[103] sono piantate sulla soglia di Zeus, piene di doni
che egli largisce, l’una di mali, l’altra di beni:
l’uomo cui dà[104] mescolando Zeus, che gode del fulmine,
s’imbatte ora in un male, altra volta in un bene;
ma colui cui dà soltanto sciagure, lo fa miserabile,
una fame tremenda lo spinge su tutta la terra divina,
se ne va disprezzato sia dagli uomini che dagli dèi.
Così gli dèi anche a Peleo[105] dettero splendidi doni
fin dalla nascita: primeggiava fra tutti gli uomini
per felicità e ricchezza, regnava sopra i Mirmidoni,
e a lui che era un mortale dettero in moglie una dea.
Ma il dio anche a lui diede un male, perché mancò in casa sua
una discendenza di figli eredi al potere,
ma generò un solo figlio destinato a morte precoce;
né l’accompagno nella vecchiaia, perché lontano dalla mia patria
me ne sto qui a Troia, a te e ai tuoi figli portando sciagura.
Sentiamo dire che anche tu, vecchio, eri felice in passato:
fra quanti racchiude da un lato Lesbo[106], terra di Macare[107],
dall’altro lato la Frigia[108] e l’Ellesponto[109] infinito,
dicono, vecchio, che tu primeggiassi per ricchezza e per figli.
Ma da quando i Celesti t’hanno mandato questa rovina,
ci sono intorno alla tua città soltanto battaglie e massacri.
Sii forte, non abbandonarti troppo al dolore in cuor tuo:
non ne trarrai un guadagno a disperarti per il tuo figliolo,
né potrai farlo rivivere, piuttosto ne avrai altro male!».
Gli rispondeva allora il vecchio Priamo simile a un dio:
«Non invitarmi a sedere, alunno[110] di Zeus,
fino a quando Ettore sta nella tenda privo di esequie, restituiscilo invece
al più presto, ch’io lo riveda con i miei occhi;
tu accetta il grande riscatto che porto: possa goderne,
e ritornare nella tua patria, dato che prima di tutto
m’hai lasciato in vita, a vedere la luce del sole».
A lui, guardandolo storto, disse Achille, veloce nei piedi:
«Non continuare, vecchio, a irritarmi: io stesso penso
a liberare Ettore, è venuta da me portavoce di Zeus
la madre[111] che m’ha partorito, la figlia del vecchio del mare.
Anche su te vedo chiaro, Priamo, tu non m’inganni,
che un dio[112] t’ha scortato alle rapide navi degli Achei.
Nessuno, nemmeno nel fiore della giovinezza, oserebbe venire
qui al campo: non sfuggirebbe alle guardie, né facilmente
potrebbe spostare la spranga della mia porta.
Smetti dunque di tormentarmi l’anima con i dolori,
potrei, vecchio, non tollerarti più nella tenda,
benché supplice, e venir meno al comando di Zeus».
Disse così, il vecchio ebbe paura e obbedì all’ordine suo.
Il Pelide balzò come un leone fuori la porta della sua tenda,
non da solo, anche i due scudieri uscirono con lui,
l’eroe Automedonte[113] ed Alcimo[114], che Achille stimava
più degli altri compagni, dopo la morte di Patroclo,
i quali sciolsero allora muli e cavalli dal giogo,
fecero entrare l’araldo, il banditore del vecchio,
lo fecero sedere; poi dal carro ben lucidato
scaricarono l’immenso riscatto del corpo di Ettore.
Ma vi lasciarono dentro due mantelli e un chitone ben lavorato,
per restituire il morto dopo averlo vestito.
Chiamate poi le ancelle, ordinò di lavarlo e di ungerlo
portatolo altrove, perché Priamo non vedesse il figlio,
se mai non riuscisse a trattenere lo sdegno nel cuore adirato,
alla vista del figlio, e ad Achille montasse la furia,
e l’ammazzasse, venendo meno al comando di Zeus.
Quando poi le donne lo ebbero lavato ed unto di olio,
e gli misero indosso il chitone ed un bel mantello,
Achille stesso l’alzò, l’adagiò sopra la bara,
i compagni quindi lo posero sopra il carro ben lucidato.
Ruppe allora in lamenti, e chiamava per nome il compagno:
«Non adirarti con me, Patroclo, se vieni a sapere,
pur essendo nell’Ade, che ho restituito a suo padre
Ettore divino, perché non m’ha dato un riscatto da poco.
Anche di questo, in giusta misura, a te farò parte».
Disse, e tornò nella tenda Achille divino,
sedette sul seggio ben lavorato, da cui s’era alzato,
alla parete opposta, e fece a Priamo questo discorso:
«Vecchio, ti è stato reso tuo figlio, come volevi,
giace sopra la bara; allo spuntare del giorno
lo vedrai tu stesso, portandolo via; ma ora pensiamo alla cena.
Si ricordò di mangiare perfino Niobe dalla bella chioma,
alla quale ben dodici figli morirono dentro la casa,
sei figlie e sei figli nel fiore degli anni.
Questi li uccise Apollo tirando con l’arco d’argento,
adirato contro Niobe[115], le figlie Artemide saettatrice,
perché osava paragonarsi a Leto dalle belle guance:
“Leto fece soltanto due figli” diceva, mentre lei ne mise al mondo tanti;
eppure quelli, benché solo in due, li sterminarono tutti.
Per nove giorni giacquero nel loro sangue, e non c’era nessuno
a seppellirli, il Cronide[116] rese la gente di pietra;
infine al decimo giorno li seppellirono gli dèi del cielo.
E lei si ricordò di mangiare, quando fu stanca di piangere.
Ora in mezzo alle rupi, tra i monti solitari,
sul Sipilo[117], dove si dice sia il letto delle dee ninfe,
che intrecciano danze sulle rive dell’Acheloo[118],
lì, trasformata in roccia, smaltisce il lutto mandatole dagli dèi.
Ma su, vecchio divino, pensiamo anche noi
a mangiare; poi piangerai nuovamente tuo figlio,
portatolo ad Ilio: e sarà pianto a lungo».

Con i funerali per Ettore si finisce l'Iliade.
Poi la guerra riprende finché, Ulisse riesce a trovare una soluzione affinché la grande guerra cessi definitivamente: costruire un grande cavallo di legno con i resti delle navi distrutte per ingannare in troiani. Dentro il ventre della costruzione sarebbero entrati almeno trenta dei più valorosi guerrieri, mentre il resto dell'esercito avrebbe finto di andarsene verso la Grecia.
Il trucco funziona e i troiani, credendo che il cavallo sia un'offerta agli Dei, per non inimicarseli, se lo portano dentro Troia. Durante la notte le sentinelle non sono messe di guardia, poiché tutti credono che i Greci siano ormai partiti per sempre. E invece dal ventre del cavallo escono i guerrieri che uccidono tutte le guardie e fanno entrare il resto delle guarnigioni, riapprodate sulla spiaggia. Troia è ormai in fiamme e tutti i troiani vengono o uccisi o fatti prigionieri. Achille, il più furente di tutti, viene però colpito a tradimento al tallone, suo unico punto debole, da una freccia. La scocca Paride mentre Achille era girato: Achille muore come un comune mortale e alla fine della distruzione di Troia, gli sono attribuiti i dovuti onori come un immortale.

L’incontro con Achille e con Aiace nell’oltretomba
Omero Odissea XI, vv. 471-564
·         L’episodio è narrato durante i racconti delle avventure di Odisseo  presso la corte dei Feaci. Tra gli episodi più significativi c’è l’evocazione delle anime dei morti, allo scopo di ottenere informazioni dall’indovino Tiresia circa il suo ritorno.
·         Nell’oltretomba, dopo l’incontro con la madre morta Anticlea e con Agamennone, il capo della spedizione achea, che gli ha raccontato la propria misera fine, gli si fa incontro un gruppo di anime, formato da Achille, Patroclo, Antiloco (figlio di Nestore) e Aiace Telamonio.
·         Dopo il colloquio con l’anima di Agamennone, Odisseo incontra quella di Achille. La prima domanda che Achille gli rivolge riguarda le ragioni per cui si trova nell’Ade; Odisseo rivela così di aver chiesto consiglio a Tiresia e di non essere ancora giunto in patria. Odisseo afferma poi che nessuno è più beato di Achille, perché come era celebrato e onorato fra i vivi, così lo è fra i morti. Ma la risposta di Achille è sorprendente: lui che da vivo era stato l’emblema dell’etica eroica, improntata al valore e alla ricerca della gloria in battaglia, ora la rifiuta e mette al primo posto la vita, dichiarando che preferirebbe servire da bracciante che essere morto; il senso delle parole di Achille è che tra i morti non vi sono “beati”.
·         Subito dopo, Achille si informa sui suoi congiunti (anziché sull’esito della guerra di Troia), preoccupato per il padre e ansioso di conoscere il valore del figlio. Mentre Odisseo non sa nulla di Peleo, può rassicurare Achille su Neottolemo. Omero sfrutta così la possibilità di inserire nel racconto episodi della guerra di Troia che non avevano trovato posto nell’Iliade.
·         Neottolemo si è distinto come uno dei più valorosi condottieri achei; Odisseo ricorda in particolare l’uccisione di Euripilo e la sua condotta nel celebre episodio del cavallo di legno. Achille si dimostra compiaciuto e orgoglioso per il valore dimostrato dal figlio.
·         Successivamente, Aiace mostra invece lo sdegno e il rancore che serba per Odisseo, che si era guadagnato le armi di Achille senza meritarle; Aiace per la vergogna era morto suicida. Nell’oltretomba, Odisseo rende onore ad Aiace, affermando che avrebbe preferito non ottenere le armi, pur di evitare la morte dell’eroe, che considera un segnale dell’ira di Zeus nei confronti degli Achei, privati del loro più forte guerriero dopo Achille. La morte non rappresenta però una possibilità di conciliazione: Aiace si allontana senza rispondere, tuttora offeso.

Mi riconobbe l’anima del celere Eacide[119]
e piangendo mi rivolse alate parole[120]:
«Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie,
temerario, quale impresa più audace penserai nella mente?
475      Come ardisti venire nell’Ade, dove i morti
privi di sensi dimorano, le ombre degli uomini estinti?».
Disse così ed io rispondendogli dissi:
«Achille, figlio di Peleo, tra gli Achei il più valoroso,
son venuto per sentire Tiresia, se un consiglio
480      mi dava, come giungere nella ripida Itaca.
Non giunsi mai vicino all’Acaide[121], non toccai mai
la nostra terra, ma sempre ho sventure. Nessuno
di te più beato, o Achille, in passato e in futuro:
prima infatti, da vivo, ti rendevamo onori di dèi
485      noi Argivi[122], ed ora hai grande potere tra i morti
qui dimorando: non t’angusti, Achille, la morte».
Dissi così e subito rispondendomi disse:
«Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte!
Vorrei da bracciante servire un altro uomo,
490      un uomo senza podere che non ha molta roba;
piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti.
Ma dammi qualche notizia del mio nobile figlio:
se è andato, o no, in guerra per essere un prode.
Dimmi del nobile Peleo, se hai saputo qualcosa:
495      se ha ancora la sua dignità tra i molti Mirmidoni,
o se nell’Ellade e a Ftia[123] non lo onorano più,
perché la vecchiaia lo opprime alle mani e ai piedi.
Magari io potessi in suo aiuto, sotto i raggi del sole,
essendo così come quando nella vasta terra di Troia
500      facevo strage di eroi difendendo gli Argivi –
magari potessi andare così da mio padre, anche per poco:
odiose farei la mia forza e le irresistibili mani
per chi gli fa violenza e lo priva dell’onore dovuto».
Disse così ed io rispondendogli dissi:
505      «Veramente non so del nobile Peleo,
ma sul tuo caro figlio Neottolemo
tutta la verità ti dirò, come vuoi.
Lo portai sulla concava nave librata
io stesso da Sciro[124], tra gli Achei dai saldi schinieri[125].
510      E quando facevamo dei piani su Troia,
sempre parlava per primo e non sbagliava i discorsi:
soli lo superavamo Nestore pari a un nume ed io.
Ma quando nella piana di Troia noi Achei lottavamo,
non restava mai nella folla degli uomini e nella schiera,
515      ma molto avanzava, senza cedere in furore a nessuno:
molti uomini uccise nella mischia terribile.
Di tutti io non posso narrare né posso elencare,
quanti armati egli uccise difendendo gli Argivi:
ma solo che uccise col bronzo il figlio di Telefo,
520       l’eroe Euripilo, e intorno molti compagni
Cetei[126] furono uccisi per doni di donne.
Era lui il più bello che vidi, dopo il chiarissimo Memnone[127].
E quando nel cavallo, che Epeo costruì, ci calammo
noi Argivi migliori, e tutto dipendeva da me,
525      se aprire l’agguato compatto o se chiuderlo[128],
allora gli altri capi e consiglieri dei Danai[129]
si asciugavano il pianto, e gli arti di ognuno tremavano:
ma lui non lo vidi mai coi miei occhi
impallidire nel suo bell’aspetto o asciugarsi
530       dalle gote una lacrima; mi chiese invece più volte
di uscire da quel cavallo: l’elsa della spada stringeva
e la pesante lancia di bronzo, bramava sventure ai Troiani.
Ma quando abbattemmo la città scoscesa di Priamo,
egli tornò sulla nave avendo la sua parte e il nobile dono,
535       illeso, senz’essere stato raggiunto da aguzzo bronzo,
senz’essere stato ferito nel corpo a corpo, come spesso
in guerra succede: alla cieca Ares impazza».
Dicevo così e l’anima del celere Eacide
andava a gran passi sul prato asfodelio[130],
540      lieta, perché io gli dissi che il figlio era insigne.
Le altre anime dei morti defunti
stavano tristi, dicevano ognuna i propri dolori.
L’anima sola di Aiace Telamonide
se ne stava in disparte, in collera per la vittoria
545       con cui io lo vinsi in giudizio, ottenendo presso le navi
le armi di Achille: in palio le mise la madre augusta
e le aggiudicarono i figli dei Teucri e Pallade Atena[131].
Oh, non avessi mai vinto per tale premio!
Tale persona la terra coprì per causa loro,
550      Aiace, che superava per aspetto, ed azioni
gli altri Danai dopo il nobile figlio di Peleo.
Io gli parlai con parole gentili:
«Aiace, figlio del gran Telamone, e così neanche da morto
avresti scordato il rancore contro di me per le armi
555      funeste? Una disgrazia le resero i numi agli Argivi:
tale baluardo è crollato per loro con te! Per la tua morte
soffriamo sempre noi Achei, come
per la persona di Achille Pelide. Nessun altro
l’autore, ma Zeus: terribilmente ebbe in odio le schiere
560      dei Danai armati di lancia e impose a te questa sorte.
Ma vieni, o signore: che il racconto e la nostra parola
tu senta! vinci il furore e il tuo animo duro!».
Dicevo così, ed egli non mi rispose, e andò
nell’Erebo[132] tra le altre anime dei morti defunti.
(trad. di G.A. Privitera)


[1] Le nove Muse, figlie di Zeus e di Mnemosine, erano protettrici delle arti e delle attività intellettuali; qui il poeta si riferisce a Calliope, la musa ispiratrice della poesia epica.
[2] É un patronimico, ossia un termine che designa la discendenza dal padre: Achille è figlio di Peleo, re di Ftia, in Tessaglia, e della dea Teti.
[3] Il termine designa propriamente una popolazione del Peloponneso, ma nei poemi omerici viene spesso impiegato per indicare i Greci nel loro complesso.
[4] Il regno dell’oltretomba, dominato appunto dal dio Ade.
[5] É un altro patronimico: qui il poeta si riferisce ad Agamennone, figlio di Atreo, re di Argo e di Micene. A lui è affidato il comando della spedizione greca contro Troia.
[6] É il dio Apollo.
[7] Si tratta dei paramenti sacri portati dai sacerdoti.
[8]  Il poeta si riferisce ad Agamennone e a suo fratello Menelao, entrambi figli di Atreo.
[9] Mitico re di Troia; è il padre di Ettore e Paride.
[10] Città della Misia, in Asia Minore, dove era presente il culto di Apollo.
[11]Città della Troade, in Asia Minore, dove era presente il culto di Apollo.
[12] Isola dell’Egeo orientale, vicina alla città di Troia, anche questa luogo di culto apollineo.
[13] Epiteto del dio Apollo, il cui significato non è ben chiaro. Secondo alcuni il termine deriverebbe dal nome dell’antica città di Sminte, nella Troade.
[14] Come il termine “Achei”, anche questo nome è spesso impiegato nei poemi omerici per indicare i Greci nel loro complesso. La sua origine è connessa a Danao, mitico re di Argo.
[15] Apollo è spesso rappresentato con arco e frecce: egli è, al tempo stesso, il dio che allontana il male (padre di Asclepio, dio della medicina), e il dio che punisce con i suoi infallibili dardi; tutte le morti improvvise erano ritenute effetto delle sue frecce.
[16] Epiteto di Apollo; significa propriamente “luminoso”.
[17] Antica denominazione del diaframma, considerato come una membrana avvolgente il cuore e ritenuto sede degli affetti
[18] Danai è un termine usato come sinonimo di Greci. Letteralmente significa "la stirpe di Danao". 
[19] Sposa di Agamennone e sorella di Elena.
[20] Anche questo termine è generalmente impiegato per indicare i Greci nel loro complesso.
[21] Non è giusto
[22] Figlio di Telamone, re di Salamina; viene presentato da Omero come l’eroe greco secondo soltanto ad Achille per forza e per coraggio sul campo di battaglia.
[23] Re di Itaca, piccola isola nel mare Ionio; l’eroe greco sarà protagonista dell’Odissea, il poema omerico che ne narra il lungo viaggio di ritorno in patria dopo la presa di Troia.
[24] Questo termine indicava propriamente in Grecia un sacrificio di cento buoi; tuttavia la parola viene spesso impiegata anche per indicare in modo più generico un sacrificio solenne.
[25] Re di Creta, aveva seguito a Troia Agamennone.
[26] É ovviamente il dio Apollo, adirato con i Greci.
[27] veloce nei piedi: “rapido nella corsa”; è epiteto ricorrente di Achille.
[28] rivestito d’impudenza: arrogante.
[29] di nulla... colpevoli: non hanno commesso alcuna colpa nei miei confronti.
[30] La spedizione greca contro Troia era stata organizzata da Agamennone per vendicare l’onore del fratello Menelao, re di Sparta: la bellissima moglie Elena lo aveva infatti abbandonato, fuggendo insieme al principe troiano Paride.
[31] faccia di cane: l’insulto di Achille è molto forte.
[32] Il termine viene spesso impiegato nei poemi omerici per indicare i Troiani. La sua origine è connessa a Teucro, capostipite dei re di Troia.
[33] i figli degli Achei: i giovani Greci, i guerrieri. Il premio è la schiava Briseide.
Achille è risentito perché Agamennone minaccia di sottrargli Briseide, sua schiava di guerra e segno del suo valore guerresco. La lite è una questione d’onore.
[34] Ftia: città della Tessaglia, di cui Achille era re.
[35] ricurve: epiteto formulare ricorrente in riferimento alle imbarcazioni.
[36] signore
[37] L’espressione sottolinea innanzitutto la discendenza divina di Achille, figlio della dea Teti; in secondo luogo ricorda il legame tra la regalità e Zeus, re di tutti gli dèi.
[38] se sei... d’un dio: Agamennone pare sminuire il valore di Achille.
[39] Popolo della Ftiotide, in Tessaglia, governato da Achille.
[40] Febo: significa “luminoso” ed è epiteto ricorrente di Apollo, spesso considerato dio del Sole.
[41] dalle belle gote: epiteto formulare, per sottolineare la bellezza femminile.
[42] rifugga... a fronte: non osi ritenersi pari a me e confrontarsi con me Agamennone rende esplicita la sua minaccia, sottolineando che il suo gesto è un modo per ribadire la propria autorità, umiliando Achille.
[43] Pelide: il “figlio di Peleo” è Achille.
[44] oltraggiose: offensive.
[45] Atride: Agamennone, figlio di Atreo.
[46] Avvinazzato: ubriacone.
[47] tu che hai... cervo: tu che sei minaccioso come un cane ma vile come un cervo.
[48] parli diverso da te: ti si opponga.
[49] insolentivi: offendevi.
[50] ti affligga: ti tormenti
[51] crucciandoti: pentendoti
[52] É la dea Teti. Divinità marina, era una delle cinquanta Nereidi, figlie di Nereo e di Doride.
[53] Signore dell’Olimpo
[54]  Teti, particolarmente venerata in Tessaglia, è  la  sposa di Peleo e madre di Achille. Era la più bella delle cinquanta Nereidi, le naiadi figlie di Nereo e Doride. Poseidone avrebbe voluto sposarla e anche Zeus l'avrebbe voluta per sé; ma siccome le Moire avevano profetizzato che il figlio di Teti avrebbe acquistato maggiore fama del proprio padre, Poseidone rivolse le sue attenzioni ad Anfitrite, sorella di Teti.
Zeus scelse come compagna Era e impose a Teti di sposare Peleo, il più nobile degli uomini, il quale però faticò non poco per farsi accettare da Teti. Si appostò sulla spiaggia di un'isoletta della Tessaglia dove la ninfa era solita recarsi a cavallo di un delfino per riposarsi in una grotta, la assalì appena ella si fu addormentata ed ebbe ragione di lei, nonostante che ella si trasformasse senza posa in fuoco, acqua, leone e seppia, una seppia che inzuppò completamente il povero Peleo con un fiotto d'inchiostro.
Per le nozze, che ebbero luogo sul monte Pelio, di fronte alla grotta del centauro Chirone, furono organizzati festeggiamenti grandiosi: oltre ai dodici dei dell'Olimpo assisi sui loro troni, vi presero parte le Moire e le Muse, le cinquanta Nereidi e i Centauri che reggevano splendenti torce di legno d'abete.
[55] Popolazione abitante gli estremi confini meridionali della Terra; era particolarmente cara agli dèi per la sua mitezza e per il suo senso della giustizia.

[56] I temi dell’Iliade sono tre: l’ira, la guerra e la riconciliazione. L’ira e la guerra, che si manifestano in innumerevoli forme e sono stret­tamente connesse tra loro, attraversano e dominano l’intero poema, definito «un monumento alla guerra», perché ne celebra la forza e la bellezza. Alla fine, però, esse si rivelano solo cau­sa di dolore e di morte e lasciano il posto alle ragioni dei vinti e alla conciliazione che permette il recupero dell’equilibrio e costituisce la vera compensazione dell’ira.
[57] Patroclo – figura mitologica dell’Iliade. Era figlio di Menezio e di Stenele, ed amico di Achille.
Costretto ad abbandonare la sua città, si rifugiò presso Peleo e divenne amico e amante inseparabile di Achille. I due giovani si recarono insieme alla guerra di Troia, e quando Achille si ritirò dalla battaglia, Patroclo indossate le sue armi, ne prese il posto, portando scompiglio nelle schiere avversarie. Ma non tenne conto del consiglio dell’amico, ovvero limitarsi a respingere i troiani presso l’accampamento, e per questo in un primo momento Apollo lo stordì, poi Euforbo lo ferì con un colpo di lancia e infine Ettore gli diede il colpo di grazia. Le ceneri del suo corpo furono messe accanto a quelle di Antiloco di Achille, dopo che costui fu ucciso da Paride.
Spogliato delle armi, il cadavere di Patroclo viene conteso dai due schieramenti nel corso di una lotta furiosa che si conclude solo con l’arrivo di Achille: al suo grido, i troiani fuggono verso le mura della città in preda al terrore. Sconvolto dal dolore, dopo aver organizzato i giochi funebri in onore dell’amico, Achille riprende il combattimento.
[58] Ares: è il violento dio della guerra.
[59] tre volte... uomini: il ricorrere del numero tre e del nove ha un valore rituale, e sottolinea il gran numero di nemici uccisi da Patroclo.
[60] un nume: un dio.
[61] Il poeta si rivolge direttamente a Patroclo, usando la seconda persona. L’appello diretto sottolinea la partecipazione emotiva del poeta e coinvolge anche il lettore.
[62] Febo: Apollo, protettore dei Troiani.
[63] girarono gli occhi: si offuscò la vista, per lo stordimento.
[64] sonò: risuonò.
[65] d’un uomo divino: Achille è figlio della dea Teti.
[66] gli era... morte: l’intervento del poeta ha valore di prolessi. Ettore, ucciso Patroclo, si era impadronito delle sue armi.
[67] greve: pesante.
[68] le membra... si sciolsero: Patroclo perde al tempo stesso forza e lucidità.
A indebolire Patroclo, a disarmarlo e ucciderlo non sono tanto i nemici umani, quanto soprattutto il dio Apollo, che nel fare ciò porta a compimento il volere del destino.
[69] esterrefatto: sorpreso e atterrito
[70] dappresso: da vicino.
[71] Èuforbo di Pàntoo: è un guerriero troiano.
[72] per l’asta... veloci: Euforbo era abile con la lancia, con i cavalli e nella corsa.
[73] nudo: disarmato.
[74] fra i compagni... Chera: si ritirò tra i compagni, sfuggendo alla morte.
[75] dal bronzo puntuto: dall’asta con la punta di bronzo.
[76] stramazzando: cadendo a terra.
[77] polla: sorgente d’acqua.
[78] rantola: respira a fatica, nell’agonia.
[79] il Meneziade: Patroclo, figlio di Menezio, re di Opunte.
[80] parole fuggenti: parole destinate a perdersi nell’aria; è espressione formulare.
[81] il libero giorno: la libertà.
[82] Ettore si comporta secondo il codice di comportamento eroico, e non esita a infierire sul nemico vinto. Egli appare qui molto diverso da come si era comportato con Andromaca.
[83] si tendono... garretti: si sforzano; i “garretti” sono le articolazioni delle zampe posteriori.
[84] giorno fatale: il giorno della caduta di Troia.
[85] ma te... mangeranno: Ettore minaccia crudelmente Patroclo di lasciarlo senza sepoltura, esposto agli uccelli predatori.
[86] Cronide: patronimico: Zeus è figlio di Crono.
[87] il figliuolo di Latona: Apollo.
[88] Eacide: Achille discende da Eaco, figlio di Zeus e padre di Peleo.
[89] Patroclo profetizza a Ettore la morte imminente. Le parole pronunciate in punto di morte erano considerate dagli antichi particolarmente veritiere.
[90] Ade: è l’aldilà.
[91] lasciando... il vigore: l’espressione è formulare.
[92] Un … cerva: cerbiatto
[93] Ogni volta che
[94] Troiani
[95] Ogni volta
[96] raggiungerlo
[97] gloriose
[98] famoso
[99] Se un … modo: se un dio te ne dà l’opportunità
[100] gli prese le ginocchia e baciò le mani: in segno di umiltà e di sottomissione.
[101] da uno stesso grembo: da Ecuba
[102] il terribile Ares, dio della guerra, fece morire.
[103] La giara è un recipiente, solitamente di terracotta simile all'anfora.  Achille cita il mito delle due giare secondo il quale ogni uomo può avere da Zeus un po' di doni buoni e un po' di doni brutti o solamente doni brutti. Achille mette in contrapposizione Peleo suo padre dicendo che egli ha avuto l’onore di governare un popolo, di sposare una dea e di avere un figlio; ha avuto la sfortuna però di non avere una discendenza, di avere un figlio lontano da casa che morirà presto. Priamo invece è un grande re, ha doni e onori attribuitigli nonostante abbia avuto anche da Zeus la sfortuna di perdere molti suoi figli.
Tutto questo discorso si collega al fatto che Achille vuole consolare Priamo disperato e fargli capire che piangere per una persona morta e non mangiare per essa è inutile.
[104] dona
[105] padre di Achille, re dei Mirmidoni, popolo della Tessaglia.
[106] isola greca situata nell'Egeo nordorientale, di fronte alle coste della penisola anatolica.
[107] mitico re dell’isola di Lesbo.
[108] La Frigia era una regione storica dell'Anatolia centrale, abitata dai Frigi, una popolazione indoeuropea che si era stabilita nella zona nel 1200 - 1100 a.C. circa.
[109] Lo stretto dei Dardanelli era anticamente chiamato Ellesponto. 
[110] i re sono considerati “allievi” di Zeus in quanto si riteneva che la loro autorità avesse origine divina
[111] Teti, madre di Achille, era figlia del dio del mare Nereo
[112] Priamo, infatti, era giunto alla tenda di Achille grazie all’aiuto del dio Ermes.
[113] Automedonte, figlio di Dioreo, era l'Auriga (cocchiere) di Achille durante la guerra di Troia: dopo la morte dell'eroe passò al servizio di suo figlio Neottolemo
[114] Alcimo era un compagno di Achille che Omero ricorda in due passi dell'Iliade. Insieme all'auriga Automedonte, sistemò il carro da guerra dell'eroe che trasudava ira per l'uccisione dell'amico Patroclo, sceso in battaglia al suo posto per mettere in fuga Ettore e i suoi uomini. Alcimo aggiogò i cavalli immortali di Achille alla vettura e li imbrigliò.
[115] Niobe, figlia di Tantalo aveva sposato Anfione, re di Tebe, e aveva avuto sette forti e robusti figli e sette bellissime figlie. Ne era così orgogliosa tanto da affermare di essere più feconda di Leto, che aveva avuto solo due figli Artemide e Apollo, e pretendeva che a lei e non a Leto spettassero gli onori divini. La storia arrivò alle orecchie di Apollo e Artemide che vollero punire Niobe per l'oltraggio fatto alla madre.
Un giorno che i figli di Niobe erano a caccia, Apollo col suo arco d'argento li fece cadere tutti morti. Dopo questo dura punizione Niobe non si arrese anzi nonostante la perdita, continuava a vantarsi in quanto le rimanevano comunque ben sette figlie femmine; era ancora lei a vincere sulla madre di Apollo e Artemide. Questa volta toccò ad Artemide vendicarsi della madre, e con le sue frecce, uccise le sette figlie di Niobe. La sventurata madre accorse sulle pendici del monte dove erano le quattordici salme dei suoi figli, e davanti a quella scena si arrese e pianse, pianse tanto da scongiurare Zeus di tramutarla in roccia. Dopo un lungo vagabondare, Niobe capitò in Lidia dove, come suo volere, fu tramutata in roccia conservando la sua forma; tuttora continua a piangere tanto che da quella pietra colano incessantemente gocce d'acqua.
[116] Patronimico figlio di Crono
[117] Monte dell'Asia Minore: alle falde di esso stava e sta la città di Magnesia al Sipilo, donde il nome moderno. 
[118] Il maggior fiume dell'antica Grecia (l'odierno Aspropotamo) e il più importante dio fluviale, oggetto di vari culti e miti. Era raffigurato come toro dal volto umano (eccezionalmente come drago marino) in numerose opere d'arte greca (metopa arcaica di Selinunte, figurazioni vascolari, monete), generalmente in lotta con Eracle per la mano di Deianira. La testa di Acheloo, barbuta e con corna taurine, è uno dei motivi prediletti dell'arte etrusca (bronzi, oreficerie, ecc.). Gli si attribuiva la paternità delle Sirene e di numerose ninfe fluviali.
[119] Eacide: patronimico di Achille, nipote di Eaco, il padre di Peleo.
[120] alate parole: è un’espressione formulare che indica il “volo” delle parole nell’aria.
[121] Acaide: variante di Acaia, regione della Grecia da cui prendono nome gli Achei; Odisseo intende dire che non è ancora tornato in patria.
[122] Argivi: da Argo, potente città micenea, era un altro nome degli Achei.
[123] Mirmidoni… Ftia: i Mirmidoni sono il popolo di Achille, su cui regna Peleo; Ellade non indica ancora tutta la Grecia, ma una città della Tessaglia, come Ftia, la patria di Achille.
[124] Lo portai… da Sciro: dopo la morte di Achille, Odisseo si era recato nell’isola di Sciro per chiamare Neottolemo, il figlio che Achille aveva generato su quell’isola, prima di arrivare a Troia.
[125] schinieri: parte dell’armatura che ricopriva la parte inferiore delle gambe.
[126] il figlio…Cetei: si tratta di avvenimenti precedenti l’arrivo degli Achei a Troia; Achille aveva ferito Telefo, re di Teutrania in Misia (Asia Minore); poi lo stesso Achille era stato costretto a guarire la ferita di Telefo, il cui aiuto si era rivelato essenziale per giungere a Troia; in seguito però il figlio di Telefo, Euripilo, aveva scelto di parteggiare per i Troiani ed era infine caduto per mano di Neottolemo; Cetei è il nome di un popolo della Misia, qui indica i compagni di Euripilo.
[127] Memnone: figlio dell’Aurora e di Titone, era giunto a Troia dopo la morte di Ettore e caduto per mano di Achille.
[128] E quando… chiuderlo: Epeo era il costruttore del cavallo di legno, mentre Odisseo era a capo del contingente acheo nascosto nel cavallo.
[129] Danai: sinonimo di Achei; da Danao, mitico re di Argo.
[130] asfodelio: di asfodeli, un tipo di fiore legato al culto di Persefone, dea degli Inferi.
[131] in collera… Atena: si fa qui riferimento all’episodio del “giudizio delle armi”. Dopo la morte di Achille, Teti, madre dell’eroe, aveva deciso di assegnare le armi del figlio al più valoroso dei guerrieri achei; il giudizio era stato affidato ai prigionieri troiani (Teucri). Questi, forse per l’intervento della dea Atena, avevano proclamato vincitore Odisseo anziché Aiace, che le meritava maggiormente; per il dispiacere dovuto all’ingiusto verdetto, Aiace era impazzito e si era poi ucciso.
[132] Erebo: uno dei nomi del regno dei morti.