Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

lunedì 26 agosto 2013

Storia sociale della cultura del primo millennio (Classe II)

1. L’Impero – Le due date indicate come inizio e fine convenzionali dell'Impero Romano sono puramente arbitrarie per tre ragioni:
1.      non vi fu mai una vera e propria fine formale della Res publica romana[1], le cui istituzioni non furono mai abolite, ma persero solo il loro potere effettivo a vantaggio dell'imperatore;
2.      nei quattrocentoventidue anni tra esse compresi, si alternarono due fasi caratterizzate da forme profondamente diverse di organizzazione e di legittimazione del potere imperiale, il Principato, forma di governo dell'impero in cui, senza abolire le precedenti istituzioni repubblicane, il principe assumeva la guida dello stato e ne costituiva il perno politico. Gradatamente rafforzatasi la forma assolutistica con i successivi imperatori, il principato entrò in crisi con la fine della dinastia dei Severi nel 235, e si ebbe il Dominato, forma di governo dell'Impero, nella quale l'imperatore, non più contrastato dai residui delle antiche istituzioni della Repubblica Romana, poteva disporre da padrone dell'Impero, cioè nella qualità di dominus. La transizione dalle due forme di governo, avviata con la fine della dinastia dei Severi, può dirsi completata nel 285 con l'inizio del regno di Diocleziano, e l'inizio della Tetrarchia.
3.      dopo la divisione dell'impero le due parti continuarono a sopravvivere, l'una sino alla deposizione dell'ultimo cesare d'Occidente Romolo Augustolo nel 476, l'altra perpetuandosi per ancora un millennio nell'entità politica nota come Impero Bizantino.
Nel 31 a.C., Ottaviano divenne arbitro e padrone dello Stato: inaugurò nel 27 a.C. la definitiva forma del suo principato e governò, con una formula di primus inter pares, pater patriae, princeps e, soprattutto, augustus, titolo onorifico conferitogli in quell'anno dal Senato, per indicare il carattere sacrale e propiziatorio della sua persona. Il regno di Augusto era stato caratterizzato dal rispetto formale delle istituzioni repubblicane; d’altra parte, il cumulo di poteri delle diverse cariche  portarono il princeps ad ottenere un potere tale, che nessun altro uomo prima di lui a Roma aveva mai ottenuto, aveva posto le basi per una nuova realtà politica: l’Impero.
L’impero con alterne vicende durò fino al 476, convenzionalmente considerato come data di passaggio tra evo antico e Medioevo.

La morte di Agrippina dagli Annali di Cornelio Tacito
Nessuno sapeva escogitare in che modo nascondere un delitto a mano armata, e in più Nerone temeva che colui che fosse stato scelto per un delitto così grande, si rifiutasse di eseguire gli ordini. Un piano geniale lo propose il liberto Aniceto, comandante della flotta presso Miseno, precettore dei figli di Nerone e con reciproci sentimenti d’odio verso Agrippina. Dunque spiegò che era possibile allestire una nave, una parte della quale, staccata ad arte in mare aperto, scaraventasse in acqua Agrippina senza che se ne accorgesse; argomentò che non c’è niente tanto capace di apportare disgrazie quanto il mare; e se fosse stata inghiottita da un naufragio, chi sarebbe stato tanto malevolo da attribuire ad un delitto ciò che i venti ed i flutti avevano causato? Il principe avrebbe poi innalzato un tempio in onore della defunta per fare bella mostra del suo affetto filiale.
L’idea geniale fu accolta, favorita anche dalle circostanze, dal momento che Nerone celebrava presso Baia le feste quinquatrie. Qui attese Agrippina, mentre andava ripetendo a tutti che si dovevano tollerare i malumori della madre, e che gli animi si dovevano riappacificare; da ciò sarebbe sorta la voce di una riconciliazione, ed Agrippina l’avrebbe accolta con la facile credulità delle donne per le cose che suscitano piacere. Nerone, poi, sulla spiaggia, mosse incontro a lei che veniva dalla sua villa di Anzio, ed avendola presa per mano l’abbracciò e la condusse a Bauli. Questo è il nome di una villa che è lambita dal mare, nell’arco del lido tra il promontorio Miseno e l’insenatura di Baia. Era là ancorata, fra le altre navi una più fastosa, come se anche ciò volesse rappresentare un segno d’onore alla madre; Agrippina, infatti, era solita viaggiare su una trireme con rematori della flotta militare. Fu allora invitata a cena, poiché era necessario attendere la notte per celare un misfatto.
È opinione diffusa che vi sia stato un traditore e che Agrippina, informata della trama, nell’incertezza se prestare fede all’avvertimento, sia ritornata a Baia in lettiga. Qui le manifestazioni d’affetto del figlio cancellarono in lei ogni paura; accolta affabilmente fu fatta collocare al posto d’onore. Coi più svariati discorsi, ora con tono di vivace famigliarità, ora con atteggiamento più grave, come se volesse metterla a parte di più serie faccende, Nerone trasse più a lungo possibile il banchetto; nell’atto poi di riaccompagnare alla partenza Agrippina, la strinse al petto, guardandola fisso negli occhi, o perché volesse rendere più verisimile la sua finzione o perché guardando per l’ultima volta il volto della madre che andava a morire sentisse vacillare l’animo suo, per quanto pieno di ferocia.
Quasi volessero rendere più evidente il delitto, gli dei prepararono una notte tranquilla piena di stelle ed un placido mare. La nave non aveva percorso ancora un lungo tratto; accompagnavano Agrippina appena due dei suoi famigliari, Crepereio Gallo che stava presso il timone e Acerronia, che ai piedi del letto ove Agrippina era distesa andava rievocando lietamente con lei il pentimento di Nerone, e il riacquistato favore della madre; quando all’improvviso ad un dato segnale, rovinò il soffitto gravato da una massa di piombo e schiacciò Crepereio che subito morì. Agrippina ed Acerronia furono invece salvate dalle alte spalliere del letto, per caso tanto resistenti da non cedere al peso.
Nel generale scompiglio non si effettuò neppure l’apertura della nave, anche perché i più, all’oscuro di tutto, erano di ostacolo alle manovre di coloro che invece erano al corrente della cosa. Ai rematori parve opportuno allora di inclinare la nave su di un fianco, in modo da affondarla; ma non essendo possibile ad essi un movimento simultaneo ed anche perché gli altri che non sapevano facevano sforzi in senso contrario, ne venne che le due donne caddero in mare più lentamente. Acerronia, pertanto, con atto imprudente, essendosi messa a gridare che lei era Agrippina e che venissero perciò a salvare la madre dell’imperatore, fu invece presa di mira con colpi di pali e di remi e con ogni genere di proiettile navale. Agrippina, in silenzio, e perciò non riconosciuta (aveva avuto una sola ferita alla spalla), da prima a nuoto, e poi con una barca da pesca in cui si era imbattuta, trasportata al lago di Lucrino, rientrò nella sua villa.
Qui ripensando alla lettera piena d’inganno colla quale era stata invitata, agli onori coi quali era stata accolta, alla nave che, vicino alla spiaggia e non trascinata da venti contro gli scogli, s’era abbattuta dall’alto come fosse stata una costruzione terrestre, considerando anche il massacro di Acerronia e guardando la sua propria ferita, comprese che il solo rimedio alle insidie era fingere di non aver capito. Mandò perciò, il liberto Agermo ad annunciare a suo figlio che per la benevolenza degli dei e per un caso fortunato , si era salvata dal grave incidente; lo pregava, tuttavia, che, per quanto emozionato per il grave pericolo corso dalla madre, non pensasse per ora di venirla a trovare, perché per il momento lei aveva bisogno di tranquillità. Frattanto, affettando piena sicurezza, si prese cura di medicare la ferita e di riconfortare il suo corpo; un solo atto non fu in lei ispirato a simulazione: l’ordine di recare il testamento di Acerronia e di porre i beni di lei sotto sequestro.
Nerone, intanto in attesa della notizia che il delitto era stato consumato, apprese che invece (Agrippina) aveva corso un pericolo così grande da non farla dubitare intorno all’autore dell’insidia. Allora Nerone, morto di paura, cominciò ad agitarsi gridando che da un momento all’altro Agrippina sarebbe corsa alla vendetta, sia armando gli schiavi, sia eccitando alla sollevazione i soldati, sia appellandosi al senato ed al popolo, denunciando il naufragio, la ferita e gli amici suoi uccisi. Quale aiuto contro di lei egli avrebbe avuto se non ricorrendo a Burro e Seneca? Perciò fece subito chiamare l’uno e l’altro che forse erano già prima al corrente della cosa. Stettero a lungo in silenzio per non pronunciare vane parole di dissuasione o forse perché pensavano che la cosa fosse giunta ad un punto tale che se non si fosse prima colpita Agrippina, Nerone avrebbe dovuto fatalmente perire. Solo Seneca si mostrò molto più deciso perché, guardando Burro, gli domandò se fosse mai possibile ordinare ai soldati l’assassinio.
Burro rispose che i pretoriani, troppo devoti alla casa dei Cesari e memori di Germanico non avrebbero osato compiere nessun atto nefando contro la prole di lui; toccava ad Aniceto di assolvere le promesse. Costui senza alcun indugio chiese per sé l’incarico di consumare il delitto. A questa dichiarazione Nerone si affrettò a proclamare che in quel giorno gli era conferito veramente l’impero e che il suo liberto era colui che gli offriva dono sì grande: corresse subito via e conducesse con sé i soldati, deliberati ad eseguire gli ordini. Egli, poi, saputo dell’arrivo di Agermo messaggero di Agrippina, si preparò ad architettare la scena di un delitto e nell’atto in cui Agermo gli comunicava il suo messaggio, gettò tra i piedi di lui una spada e, come se lo avesse colto in flagrante, comandò subito di gettarlo in carcere, per poter far credere che la madre avesse tramato l’assassinio del figlio e che, poi, si fosse data la morte per sottrarsi alla vergogna dell’attentato scoperto.
Frattanto essendosi sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, come se ciò fosse avvenuto per caso, man mano si diffondeva la notizia, tutti accorrevano sulla spiaggia. Gli uni salivano sulle imbarcazioni vicine, altri scendevano ancora in mare per quanto consentiva la profondità delle acque. Alcuni protendevano le braccia con lamenti e con voti; tutta la spiaggia era piene delle grida e delle voci di coloro che facevano domande e di quelli che rispondevano; un gran moltitudine si affollò sul lido coi lumi, e come si seppe che Agrippina era incolume, tutti le mossero in contro per rallegrarsi con le, quando all’improvviso ne furono ricacciati dalla vista di un drappello di soldati armati e minacciosi. Aniceto accerchiò la villa con le sentinelle ed abbattuta la porta e fatti trascinare via gli schiavi che gli venivano incontro, procedette fino alla soglia della camera da letto di Agrippina, a cui solo pochi servi facevano la guardia, perché tutti gli altri erano stati terrorizzati dall’irrompente violenza dei soldati.
Nella stanza vi erano un piccolo lume ed una sola ancella, mentre Agrippina se ne stava in stato di crescente allarme, perché nessuno arrivava da parte del figlio e neppure Agermo: ben altro sarebbe stato l’aspetto delle cose intorno se veramente la sua sorte fosse stata felice; non v’era che quel deserto rotto da urli improvvisi, indizi di suprema sciagura. Quando anche l’ancella si mosse per andarsene Agrippina, nell’atto di rivolgersi a lei per dirle: “anche tu m’abbandoni?”, scorse Aniceto in compagnia del triarca Erculeio e del centurione di marina Obarito. Rivoltasi allora a lui gli dichiarò che se era venuta per vederla annunziasse pure a Nerone che si era riavuta; se poi fosse lì per compiere un delitto, essa non poteva avere alcun sospetto sul figlio: non era possibile che egli avesse comandato il matricidio. I sicari circondarono il letto e primo il triarca la colpì con un bastone sul capo. Al centurione che brandiva il pugnale per finirla protendendo il grembo gridò: “Colpisci al ventre!” e cadde trafitta da molte ferite.
La tradizione su questi fatti è concorde. Che Nerone abbia guardato la madre morta e ne abbia lodato la bellezza, c’è chi lo afferma e chi lo esclude. Venne cremata la notte stessa su un letto da convito e con esequie modestissime e, finché Nerone fu al potere, non ebbe tumulo né pietra sepolcrale. Solo più tardi, a cura dei suoi domestici, poté avere un piccolo tumulo sulla via di Miseno, vicino alla villa di Cesare dittatore, che domina dall’alto i golfi sottostanti. Acceso il rogo, un suo liberto di nome Mnestere si trafisse col pugnale, non sappiamo se per amore verso la patrona o nel timore d’essere ucciso. Agrippina, molti anni avanti, aveva previsto questa sua fine, ma non se n’era data pena. Infatti a un suo consulto su Nerone, i Caldei risposero che avrebbe regnato e ucciso la madre. E lei: “Mi uccida, purché abbia il potere.”
Cesare comprese solo a delitto compiuto l’enormità del misfatto. Per il resto della notte, ora sprofondato in un silenzio di pietra, più spesso in preda a soprassalti di paura e fuori di sé, attendeva la luce del giorno, quasi che dovesse portare la sua rovina. Gli ridiede speranza il primo atto di adulazione, quello, suggerito da Burro, dei centurioni e dei tribuni, che gli prendevano le mani e si felicitavano con lui, per essere scampato all’imprevisto pericolo e all’attentato della madre. Gli amici poi corsero ai templi e, sul loro esempio, le città più vicine della Campania manifestavano, con l’offerta di vittime e l’invio di delegazioni, la loro gioia: ed egli, con rovesciata finzione, si presentava afflitto, quasi insofferente della propria salvezza e in pianto per la morte della madre.
Ma poiché non muta, come il volto degli uomini, l’aspetto dei luoghi, e poiché lo ossessionava la vista opprimente di quel mare e della spiaggia (e c’era chi credeva che si udisse, sulle alture circostanti, un suono di tromba e lamenti dal luogo in cui era sepolta la madre), si ritirò a Napoli e inviò un messaggio al senato, la cui sostanza era che avevano scoperto, con un’arma, il sicario Agermo, uno dei liberti più vicini ad Agrippina, e che lei, per rimorso, come se avesse preparato il delitto, aveva scontato quella colpa.

Tito vincitore tratta con gli ebrei dalla Guerra giudaica di Giuseppe Flavio
Tito diede ordine ai soldati di tenere a freno gli spiriti ardenti e le armi e, chiamato un interprete, cominciò a parlare per primo, il che significava che era lui il vincitore: “Siete dunque soddisfatti delle sventure della patria, voi che senza valutare la nostra forza e la vostra debolezza con furia sconsiderata e come dissennati avete provocato la rovina del popolo, della città e del tempio, e che giustamente state per fare la stessa fine, voi che fin da quando Pompeo vi assoggettò non avete mai smesso di ribellarvi e alla fine siete scesi in guerra aperta contro i romani? Confidavate nel vostro numero? Ma contro di voi è bastata una piccolissima parte dell’esercito dei romani! Contavate sulla fedeltà degli alleati? Ma quale dei popoli non racchiuso nel nostro impero avrebbe preferito i giudei ai romani? Facevate affidamento sulla vostra prestanza fisica? Eppure ben sapete che i Germani sono nostri schiavi! Sulla robustezza delle mura? Ma quale muro rappresenta una difesa più sicura dell’oceano, che pur cingendo tutt’intorno i Britanni non impedisce che costoro si prosternino dinanzi alle armi romane? Sul vostro morale incrollabile e sull’astuzia dei capi? Eppure sapevate che anche Cartagine noi l’abbiamo fatta cadere! E allora a spingervi contro i romani è stata evidentemente la mitezza di noi stessi romani, che in primo luogo vi concedemmo di abitare questa terra e di essere governati da re nazionali, e poi vi facemmo conservare le patrie leggi e vi lasciammo libertà di regolare come volevate non solo i vostri rapporti interni, ma anche quelli con gli stranieri. Ma soprattutto vi permettemmo di esigere tributi per il Dio e di raccogliere doni votivi senza dissuadere né ostacolare coloro che li offrivano, col risultato che, grazie a noi, diventaste più ricchi e, con i mezzi che dovevano esser nostri, faceste preparativi contro di noi! Alla fine, impinguati da tali vantaggi, sfogaste la vostra sazietà contro chi ve li concedeva, e a guisa di serpenti non addomesticati iniettaste il veleno in quelli che vi accarezzavano.
E’ chiaro che dall’indolenza di Nerone foste spinti a non darci importanza, e come fratture e strappi rimaneste malignamente latenti fino a che vi manifestaste quando il male si aggravò, e dirigeste le vostre smodate ambizioni verso sfrontate speranze. Nel vostro paese arrivò allora mio padre, e non per punirvi di ciò che avevate fatto a Cestio, ma per darvi un ammonimento. Se egli fosse venuto per sterminare la nazione, avrebbe dovuto attaccarvi direttamente alla radice e distruggere senza indugi questa città, mentre invece si trattenne a devastare la Galilea e il territorio circostante per darvi così il tempo di rinsavire. Ma a voi la mansuetudine parve debolezza,e dalla nostra clemenza traeste alimento per il vostro ardire. Quando poi scomparve Nerone, assumeste un atteggiamento quanto mai ostile prendendo animo dai nostri sconvolgimenti interni, e allorché io e mio padre dovemmo raggiungere l’Egitto voi approfittaste dell’occasione per i preparativi di guerra, e non aveste ritegno di disturbare dopo la loro acclamazione a imperatori coloro che già avevate sperimentato come duci pieni di umanità. E così quando l’impero trovò rifugio nelle nostre mani, mentre tutti i sudditi in esso compresi se ne stettero tranquilli, e anche i popoli esterni inviarono ambascerie di felicitazioni, ecco che i giudei ancora una volta ripresero le armi, e voi mandaste emissari ai vostri amici d’oltre Eufrate per incitarli alla rivolta, innalzaste di bel nuovo baluardi di mura, e vi abbandonaste alla ribellione e alle contese dei caporioni e alla guerra civile, le sole cose che si addicevano a individui così perfidi. Poi, contro questa città arrivai io con gli ordini severissimi che mio padre, suo malgrado, aveva dovuto darmi. Mi fece piacere di apprendere che il popolo nutriva intenzioni pacifiche. Quanto a voi, prima che si riprendesse la guerra vi invitai a deporre le armi, e nel corso delle ostilità vi usai a lungo clemenza: diedi garanzia ai disertori, mi comportai lealmente con i supplici, risparmiai molti prigionieri costringendo chi voleva torturarli a non farlo, a malincuore accostai le macchine alle vostre mura, tenni sempre a freno i soldati assetati del vostro sangue, dopo ogni vittoria vi esortai alla pace come se il perdente fossi io. Arrivato vicino al tempio, di nuovo volentieri mi dimenticai delle leggi di guerra e cercai di convincervi a risparmiare i vostri luoghi santi e a preservare il tempio per voi stessi, concedendovi libertà di uscire e garanzia d’incolumità, e insieme la possibilità di riprendere la battaglia in un altro luogo se aveste voluto; ma tutte queste proposte le respingeste sprezzantemente e con le vostre mani appiccaste il fuoco al tempio. E dopo tutto ciò, farabutti, venite ora a chiedermi di trattare? Che cosa potreste cercare di salvare che valga quanto avete distrutto? Quale salvezza credete di meritate dopo la distruzione del tempio? E poi, anche ora vi siete presentati con le armi in pugno, e neppure ridotti agli estremi vi decidete ad assumere atteggiamenti da supplici: individui miserabili, su che cosa contate? Non è distrutto il vostro popolo, incenerito il tempio, in mio possesso la città; non sono nelle mie mani le vostre vite? Credete che dia fama di eroismo il cercare la morte? Ad ogni modo io non mi metterò a competere con la vostra stoltezza; prometto salva la vita a chi getterà le armi e si arrenderà, e come fa nella sua casa un buon padrone, punirò gli schiavi incorreggibili e conserverò gli altri per il mio comodo”.
A queste parole essi risposero di non poter accettare condizioni di resa, poiché avevano giurato che mai l’avrebbero fatto; chiesero invece di poter attraversare la linea di circonvallazione assieme alle mogli e ai figli: si sarebbero ritirati nel deserto abbandonandogli la città.
Tito andò allora sulle furie al vedere che essi, pur trovandosi nella condizione di vinti, gli presentavano delle proposte come fossero vincitori e fece loro proclamare dal banditore di non disertare più, ormai, né di sperare grazia, perché non avrebbe risparmiato nessuno; combattessero invece con tutte le forze e cercassero scampo come meglio potevano, perché da quel momento egli avrebbe sempre applicato le leggi di guerra. Diede quindi licenza ai soldati di incendiare e mettere a sacco la città, ed essi per quel giorno non si mossero, ma il giorno dopo appiccarono il fuoco agli archivi, all’Acra, alla sala del Consiglio e al quartiere detto Ofel; il fuoco si estese fino alla reggia di Elena, che sorgeva nel mezzo dell’Acra, e le fiamme divamparono nelle strade e nelle case ricolme dei cadaveri delle vittime della fame.
Quello stesso giorno i figli e i fratelli del re Izate, accompagnati da un gran numero di cittadini ragguardevoli, si presentarono a Cesare supplicandolo di accettare la loro resa. Tito, sebbene fosse assai maldisposto contro tutti i superstiti, non riuscì a far tacere la sua naturale clemenza e li accolse.
Per il momento li rinchiuse tutti in prigione; i figli e i parenti del re li portò più tardi a Roma in catene come ostaggi.

2. L’alto Impero – È il periodo che va dalla morte di Augusto fino all’anarchia militare[2].
I primi imperatori, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, erano appartenenti alla dinastia Giulio-Claudia. In questo primo periodo fu continuato il processo di unificazione e di romanizzazione dell’Impero: si diffuse in Occidente il latino e si concesse con parsimonia la cittadinanza romana ai provinciali.
Questo contribuì alla fusione tra le due anime dell’impero, quella romana e quella ellenica. I confini stabiliti al tempo di Augusto furono rafforzati: Claudio conquistò la parte meridionale della Britannia nel 44, Tito conquistò Gerusalemme e la fece distruggere nel 70. Nel complesso in Oriente, mediante una serie di interventi, più o meno pacifici, i Romani riuscirono ad accordarsi con i Parti[3] e a stabilire una specie di dominazione romano-parta sull’Armenia, mentre altre annessioni, verificatesi nella stessa epoca, non furono altro che trasformazioni in province romane di Stati clienti, ossia già pra­ticamente assoggettati.
L’Impero intanto, a causa della sua espansione ormai eccessiva, si avvicinava a un periodo di crisi. Fino a quel momento, nonostante i successori di Au­gusto non si fossero fatti scrupolo di far uccidere i personaggi che potevano intralciare lo svolgimento della loro politica, la vita all’interno dell’Impero si era svolta in una certa calma.
L'Impero Romano arrivò all'apice della sua potenza nel II secolo, durante i principati di Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Alla morte di quest'ultimo, il potere passò al figlio Commodo, che portò il principato verso una forma più autocratica e teocratica.
Il potere delle istituzioni tradizionali si andò indebolendo e il fenomeno proseguì con i suoi successori, sempre più bisognosi dell'appoggio dell'esercito per governare. Il ruolo del Senato nei secoli successivi si ridusse progressivamente, fino a divenire del tutto formale. La dipendenza sempre più accentuata del potere imperiale dall'esercito condusse a un periodo di forte instabilità, definito come anarchia militare.
a) La dinastia Giulio-Claudia - Affinché la sua politica fosse continuata anche dopo la sua morte, Augusto aveva espresso il desiderio che la successione al principato fosse assicurata a suo genero Agrippa. Essendo questi morto prima di lui, Augusto propose per la successione il nipote, Marcello. Neppure il secondo designato gli sopravvisse di conseguenza, alla scomparsa di Augusto, il potere supremo passò a Tiberio, suo figlio adottivo e figlio naturale di sua moglie Livia e del primo marito Claudio Nerone.
Tiberio, dopo molte esitazioni, assunse, nel 14 d.C., la carica di princeps, che mantenne fino alla morte, nel 37. Egli era stato un valente e popolare generale, e ora, quasi obbligato dagli eventi, doveva ricoprire in un ruolo che non sentiva suo: aristocratico conservatore e, quindi, fautore dell’antica libertas senatoria. Ossequioso della tradizione, più che come mediatore tra l’ordine senatorio e quello equestre, secondo il programma augusteo, si presentò come sostenitore del senato e ritenne opportuno rinunciare a tutte quelle onorificenze che potessero essere giudicate culto della personalità. Tale atteggiamento filosenatorio mutò dopo alcuni anni, quando, per riaffermare un prestigio che andava scemando, instaurò un vero e proprio regime poliziesco. Sempre più schivo, nel 27, Tiberio si ritirò a Capri, lasciando, in modo decisamente avventato, tutto il potere nelle mani di Seiano, l’ambizioso prefetto del pretorio, che divenne il vero arbitro delle sorti dell’impero. Per aver osato cospirare contro lo stesso principe, Seiano fu condannato a morte. Un clima di sospetto e di paura, inasprito dal frequente ricorso a condanne per lesa maestà, caratterizzò l’ultima fase del principato di Tiberio, che, comunque sempre da Capri, prese a governare lo Stato con maggiore energia.
Alla sua morte gli successe il nipote Gaio, figlio di Germanico. Gaio Cesare, soprannominato Caligola (la madre da piccolo gli faceva spesso calzare le scarpe in dotazione ai soldati, le caligae), nei pochi anni del suo mandato (37–41 d.C.), si rivelò una personalità di fragile equilibrio psichico, facile ad impeti di follia, smaniosa di protagonismo. Questi aspetti furono in abbondanza sottolineati dalla storiografia antica, ostile ad un principe per niente incline ad una politica di  collaborazione con la nobilitas. Intenzione di Caligola era di avviare una dispotica concentrazione del potere nelle proprie mani, sempre più modellando lo Stato sul tipo delle monarchie ellenistiche. Gli storici successivi, probabilmente alterando in parte la verità, riportano una serie di suoi atti insensati che avrebbero avuto luogo dalla fine del 37. Il suo ordine di erigere nel tempio di Gerusalemme una statua che lo raffigurasse, sebbene fosse di normale amministrazione nelle province orientali (in cui il culto riservato al sovrano aveva funzione di collante istituzionale), scatenò l'opposizione degli Ebrei. Caligola dotò Roma di due acquedotti e di un circo.
I rappresentanti delle più cospicue famiglie (fortemente provati nei propri interessi per la politica di tassazione, a volte predatoria, a cui correntemente erano sottoposti), organizzata una congiura, a cui non restarono estranei i pretoriani, si liberarono con la violenza del principe: Caligola venne assassinato dal comandante dei pretoriani, Cassio Cherea, con la moglie e la figlia.  I pretoriani posero sul trono l'unico membro rimasto della famiglia imperiale, l’altro nipote di Tiberio: Claudio.
Claudio (41–54 d.C.), un uomo di cinquant’anni, vissuto sempre un po’ appartato dalla vita pubblica, piuttosto dedito a studi eruditi, venne acclamato imperatore dai pretoriani. Il nuovo principe tornò all’indirizzo di Augusto, ma solo esteriormente: in effetti condusse a termine un accentramento burocratico dei poteri. Riorganizzò l’amministrazione imperiale e la cancelleria e, poco fidandosi della classe dirigente tradizionale, ne diede la direzione a liberti (Pallante, Narciso, Polibio…), posti direttamente alle sue dipendenze. Avviò una politica di conquiste e aprì le porte del senato a nuovi elementi provenienti dalla Spagna e dalla Gallia, le province più romanizzate; fece approvare alcune leggi intese a impedire un’eccessiva penetrazione in Italia di motivi orientali. Claudio con i suoi provvedimenti diede prova di notevole senso pratico; meno capace fu nel disimpegnarsi nelle faccende private: fu nel complesso succubo delle donne della domus imperiale, prima Messalina e poi Agrippina minor. Proprio quest’ultima, donna spregiudicata e avida di potere, gl’impose di adottare un suo figlio di prime nozze, L. Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone.
Claudio, a lungo considerato un debole ed un pazzo dal resto della famiglia, fu invece capace di amministrare l’Impero con responsabile capacità:
·         riorganizzò la burocrazia
·         mise ordine nella cittadinanza e nei ruoli senatoriali
·         aggiunse all'Impero molte province orientali.
·         costruì un porto invernale ad Ostia, creando magazzini per accumulare granaglie e cereali provenienti da altre parti dell'Impero e da usare nella cattiva stagione
·         compì lavori di prosciugamento che permisero di valorizzare migliaia di ettari di terreno fino allora incolti;
·         Proseguì la conquista e colonizzazione della Britannia, conducendo di persona una spedizione e, con una campagna lampo, portò le legioni romane a una vittoria strepitosa e fondò la città di Londinium, l’odierna Londra creando nel 43 la nuova provincia. La pacificazione completa del Paese, però, si sarebbe dimostrata lunga e difficile poiché i druidi continuarono per molto tempo a nutrire un focolaio attivo di resistenza all’invasore.
La successione al trono fu piena da intrighi: Claudio aveva avuto un figlio legittimo, Britannico, dalla prima moglie Messalina che lo tradiva e quindi era stata messa a morte. In seconde nozze aveva sposato, sua nipote Agrippina che, con una serie di intrighi e di delitti, riuscì a fare adottare dall’imperatore suo figlio Nerone, nato da un precedente matrimonio. Per favorire il figlio, Agrippina fece uccidere Claudio e macchinò affinché il Senato esautorasse Britannico.
Alla morte di Claudio nel 54 Agrippina affrettò l’elezione al trono del figlio di soli 17 anni.
Questi seguì per alcuni anni (il cosiddetto quinquennio felice) una politica filosenatoria, lasciandosi guidare dal suo maestro, il filosofo Seneca,  rappresentante della nobilitas, e dal prefetto del pretorio Afranio Burro, che tutelava gli interessi della classe equestre. Ma poi Nerone, si svincolò dalla tutela dei due e dalle pesanti interferenze politiche della madre Agrippina, che nel 59 fece uccidere, riprese la politica di concentramento monarchico del potere, che già era stata di Caligola. Prese a sostegno del suo principato la classe popolare, il cui tenore di vita cercò di elevare con provvedimenti vari, tra cui un’importante riforma monetaria che colpiva i ceti abbienti: sempre più si definiva il profilo di una monarchia ellenistica. La nobilitas fu colpita con condanne e confische di beni, con le quali il principe tentò di toglierle le importanti leve economiche di potere di cui ancora disponeva. Seneca, visto fallire il suo disegno di educatore (fare di Nerone un principe illuminato), preso anche da un moto di disgusto per la torbida atmosfera di corte, si allontanò dalla domus. La reazione del ceto di governo contro questa politica antisenatoria si fece sempre più forte. Nel 64 gran parte di Roma fu distrutta da un incendio, di cui furono accusati i cristiani[4]. Corse però voce che Nerone stesso avesse provocato l’incendio, per fare spazio al suo grande palazzo, la Domus Aurea. Nell’ultimo periodo di regno si coagulò intorno alla figura del nobile Calpurnio Pisone una poderosa congiura la congiura dei Pisoni che ed eliminò molti oppositori aristocratici ed intellettuali come Lucano, Petronio e lo stesso Seneca che si uccisero. Malvisto dalla classe militare per l’uccisione del generale Corbulone, per le sue folli spese che provocarono una crisi finanziaria, aggravata da una crisi politica, di una tale vastità che Nerone per la sua incapacità di gestire le ribellioni e per la sua sostanziale incompetenza divennero rapidamente evidenti cosicché perfino la guardia Imperiale lo abbandonò e fu costretto a suicidarsi in seguito alla rivolta delle truppe di stanza in Lusitania che proclamarono imperatore il loro comandante Galba nel 68.
Nonostante la personalità dei successori di Augusto, il regime da questi fondato si conservò saldo:
·         il Senato accrebbe le proprie prerogative;
·         numerosi sudditi provinciali furono gratificati del diritto di cittadi­nanza, tanto che nella sola capitale
·         il numero dei cittadini aumentò di circa un milione;
·         furono costruite molte opere pubbliche.
b) Il 69: l’anno dei quattro imperatori Con la morte di Nerone terminava la dinastia Giulio-Claudia, ma quella duplicità di  orientamento politico, che aveva visto il succedersi di prìncipi inclini o ad un regime dispotico ellenizzante (cesarismo) o ad una linea politica rispettosa delle prerogative del senato (diarchia augustea), segnerà anche gli anni successivi.
L'anno dei quattro imperatori indica un periodo che segue il regno di Nerone, che va dal giugno 68 al dicembre 69, che vede succedersi sul trono dell'impero romano tre imperatori, Galba, Otone, Vitellio, fino a che il potere non giunge a Vespasiano. Si tratta della prima guerra civile dopo il regno di Augusto.
Fu un anno di guerre civili, intervallati dal regno di tre effimeri im­peratori, generali innalzati al potere dai propri soldati e ben presto detronizzati: Galba fu deposto dai pretoriani e sostituito da Otone, questi, a sua volta, fu rovesciato da Vitellio, sostenuto dalle truppe stanziate al Reno. Alla fine trionfò il capo dell’arma­ta inviata in Oriente per combattere la rivolta degli Ebrei proclamò imperatore il proprio comandante Flavio Vespasiano, che fu accolto co­me un salvatore.
Vespasiano, impegnato fin dal 66, in Palestina, nella repressione della rivolta giudaica, fu acclamato da tutte le legioni orientali, e, sconfitto e trucidato Vitellio, ottenne dal senato i pieni poteri (69). 
c) La dinastia flavia – Vespasiano, con cui iniziò la dinastia Flavia, fu un autocrate, accentuò le tendenze monarchiche con la sua insistenza che gli succedessero i figli Tito e Domiziano: il potere imperiale non era visto allora come ereditario e Vespasiano, designando successori i figli Tito e Domiziano, affermò il principio della trasmissione ereditaria del potere ed ebbe molto meno appoggio dal Senato dei suoi predecessori Giulio-Claudii.
Vespasiano, proveniente da modesta famiglia della Sabina, ma dotato di acume politico, subito capì che, per regnare in sicurezza doveva risolvere i due problemi più importanti legati al governo: legittimare il suo potere nei confronti del senato, su di una concreta base giuridica, e risolvere la crisi militare, per non dipendere dalla volubilità delle truppe.
Suo primo atto fu la promulgazione della Lex de imperio Vespasiani, con la quale si delimitavano reciprocamente (de iure e non solo de facto) i poteri del senato e quelli del principe. Quanto all’esercito, congedò le legioni italiche, troppo inclini ad interferire nelle faccende politiche, e provvide ad arruolare nuove truppe nelle province da più tempo legate a Roma: all’atto dell’arruolamento garantiva, a chi non l’avesse, la cittadinanza romana.
La sua politica si orientò al modello augusteo e, nel corso dei dieci anni (69–79) del suo regno, diede frutti di rilievo:
·         il principe rinsaldò i confini occidentali dell’impero;
·         immise nel senato numerosi elementi della classe equestre e del nuovo ceto medio italico e provinciale (sicché, dopo pochi anni del suo governo, l’assemblea risultava profondamente mutata);
·         risollevò lo Stato dalla pesante crisi economica (il dissesto economico iniziato con gli sperperi di Nerone, si era aggravato a seguito delle recenti guerre civili);
·         superò l’ormai antiquata distinzione fra italici e provinciali;
·         promosse opere pubbliche e migliorò le vie di comunicazione tra le varie parti dell’impero, aumentando le tasse in modo drammatico (talvolta più che raddoppiate);
·         Commissionò il Colosseo e costruì un Foro il cui centro era il Tempio della Pace;
·         I suoi generali soffocarono ribellioni in Siria e Germania;
·         rinsaldò le frontiere, aumentando il numero delle legioni stanziate in Siria e in Giudea.
Nel 70, durante il suo impero, terminò la lunga guerra contro gli Ebrei, con l’opera di repressione della ri­volta dei Giudei, in Palestina, la distruzione di Gerusalemme da parte delle truppe di suo figlio Tito, secondo le direttive di Vespasia­no: gli abitanti della città furo­no in parte massacrati e in parte venduti come schiavi. A Roma si celebrò questa vittoria con un inte­ro anno di festeggiamenti e con la costruzione di un arco in onore di Tito; i Giudei, sopravvis­suti alla strage, si dispersero per tutto l’Oriente. Tornato a Roma nel 71, Tito fu associato al potere dal padre.
Dopo la morte di Vespasiano, con i suoi due figli, Tito e Domiziano, succedutisi l’uno dopo l’altro sul trono.
Gli successe il figlio Tito, che regnò poco tempo (79–81). Al di là di certi atteggiamenti orientaleggianti, continuò la politica paterna di pacifica coesistenza con il senato, al punto da ottenere buona e duratura propaganda, basti pensare che Svetonio lo definisce amor et deliciae generis umani. Tito si mostrò nel complesso più munifico del padre nelle spese per i giochi del circo e nelle elargizioni al popolo. Sotto di lui venne, tra l’altro, ultimato il Colosseo, che era stato iniziato per volontà di Vespasiano. Tito tenne la cerimonia inaugurale nell'edificio non ancora terminato durante gli anni 80, con un grandioso spettacolo in cui si esibirono 100 gladiatori e che durò 100 giorni. Il suo regno non potette certo dirsi fortunato: Roma bruciò ancora una volta  un’eruzione del Vesuvio provocò la distruzione di Ercolano e Pompei, catastrofe in cui trovò la morte Plinio il Vecchio, capo della squadra navale dell’Occidente e dotto compilatore di trattati scientifici, la peste decimò gli abitanti di Roma e costò la vita allo stesso Tito. Tito fu pianto perché aveva cercato di fare il bene del suo popolo: la sua generosità nella ricostruzione dopo le tragedie, lo rese molto popolare.
Una svolta si ebbe con suo fratello Domiziano (81–96) che gli successe nell’81. Domiziano incominciò bene il suo regno fece erigere monumenti e istituì i Ludi Capitolini; purtroppo di fronte a una rivolta scoppiata nell’esercito ordinò repressioni estremamente rigorose, dando inizio a un regime di terrore che lo rese inviso al senato per l’accentuazione da lui data agli aspetti assolutistici del Principato. Il nuovo principe perseguì senza incertezze un indirizzo politico che conduceva alla monarchia assoluta. Guadagnandosi il favore del popolo, con ampie elargizioni, e delle milizie, con l’aumento delle retribuzioni militari (soldo), diede inizio ad una lotta a fondo contro la classe senatoria. Assunse il titolo di dominus et deus, per affermare in modo indiscusso il suo primato, e volle la censura a vita, per colpire i senatori con condanne e confische di beni. Ancora, poi, aprì le porte del senato ad elementi nuovi, tra cui anche degli orientali, al fine di alterare la composizione di quell’assemblea e di comprometterne il carattere di oligarchia repubblicana: a questo punto il senato non risultava più il centro di un potere politico ed economico omogeneo, quindi capace di contrapporsi con efficacia alle iniziative assolutistiche del principe. La lotta iniziata da Domiziano contro la nobilitas assunse forme persecutorie e suscitò una vasta opposizione, che portò ad alcune congiure e alla rivolta di Lucio Saturnino nell’89, legato della Germania Inferiore. Il tentativo sovversivo venne prontamente represso, ma la diffidenza del principe nei confronti di coloro che lo circondavano aumentò: il risultato fu un ulteriore inasprimento delle misure di sicurezza. Negli ultimi anni del suo governo (i cosiddetti tempora saevitiae) s’instaurò un vero e proprio clima di terrore, simile a quello di Tiberio e Nerone, che fu deleterio non solo sotto l’aspetto politico, per l’inevitabile contrazione, e addirittura paralisi, delle iniziative di governo, ma anche perché di fatto il principe finì per alienarsi il favore di tutti. La parte finale del suo regno fu macchiata dalla condanna dei filosofi e, nel 95, dalla persecuzione contro i Cristiani. Nel 96 Domiziano fu vittima di una congiura, ordita da sua moglie Domizia Longina e dai prefetti del pretorio. Con Domiziano i rapporti già tesi tra la dinastia flavia ed il senato si andarono sempre più logorando. Le cause di questo difficile sodalizio furono dapprima la divinizzazione del culto personale dell'imperatore secondo modalità tipicamente ellenistiche ed in seguito il divorzio dalla moglie Domizia, di estrazione senatoria.
In quest’età non mancano iniziative poetiche di rilievo. Valerio Flacco, Silio Italico e Papinio Stazio si riallacciano all’epica di Virgilio, pur in modo del tutto nuovo. Quintiliano, teorico dell’oratoria, cerca di recuperare la lezione di Cicerone. L’opera di Marziale si inserisce nella tradizione degli epigrammi e mira a restituire il gusto dell’uomo e della vita, pur nei limiti di una vena spesso caricaturale. Plinio il Vecchio dà un alto esempio di dottrina.
d) Il brillante periodo degli ‘adottivi’ - Dopo l’uccisione di Domiziano, i congiurati proclamarono imperatore il vecchio e saggio senatore Cocceio Nerva (96–98), molto stimato come anziano senatore e noto come persona mite e accorta. Nerva acconsentì e fu acclamato imperatore in Senato da tutte le classi concordi sul suo nome.
Esponente della nobilitas, Nerva procedette subito a una reazione contro l’indirizzo dell’imperatore precedente: egli diminuì, infatti, alcune imposte, concesse al senato una giurisdizione speciale, ridusse entro limiti più ristretti la lex maiestatis, annullò gli atti di governo di Domiziano, diede congrui donativi alle truppe e al popolo.
Durante il suo regno, breve ma efficace, Nerva apportò un grande cambiamento: il principato adottivo. Questa riforma prevedeva che l'imperatore in carica in quel momento dovesse decidere, prima della sua morte, il suo successore all'interno del senato fece sì che i senatori fossero responsabilizzati. Egli scelse, mentre era ancora in vita, il proprio successore affiancandoselo nel governo. Questo si­stema di trasmissione del potere per associazione anticipata sostituì quello dell’affilia­zione, fino allora approvato dal Senato, e per un secolo consentì all’Imperatore in carica di de­signare il proprio successore.
Il suo tentativo di restaurare il potere senatorio era però destinato a fallire: ormai la nobilitas non era più il ceto dominante dell’impero, costituito ora dalla nuova borghesia e dalla classe militare. Dell’ostilità dell’elemento militare Nerva si rese ben conto. Dovette, infatti, scendere a patti con i Pretoriani, che pretesero prima la condanna degli uccisori di Domiziano e poi che accettasse di adottare e di associare alla dignità imperiale un ufficiale di origine spagnola, Traiano, molto popolare tra le legioni occidentali. Per evitare motivi per un nuovo conflitto civile, con molto senza pratico Nerva accettò le condizioni imposte.
Alla morte di Nerva, che fu divinizzato nel 98, la successione di Traiano fu riconosciuta immediatamente. La prassi dell’adozione (adoptio), ovvero della scelta del migliore, con cui si escludeva la successione dinastica, iniziata con Traiano restò in vigore per circa un secolo. 
Marco Ulpio Traiano (98–117), nativo di Italica (Siviglia), fu il primo principe non italico. Durante il suo ventennale principato egli curò sempre che i rapporti con la nobilitas si mantenessero buoni. Si mostrò così rispettoso del senato da saggiarne sempre gli umori prima di prendere qualsiasi decisione: a questo scopo si servì, come intermediari, di alcuni senatori suoi amici, personaggi di grande prestigio, tra i quali Plinio il Giovane. Anche il senato, dal canto suo, non fece mai mancare al principe la sua premura e la sua deferenza. Pur accogliendo molti provinciali nel senato e negli alti gradi dell’amministrazione, il principe, con abile mossa, volle mantenere la superiorità dell’elemento italico su quello provinciale, com’era nella tradizione romana e nei desideri del conservatorismo senatorio. In breve tempo si conquistò fama di liberalità. Anch’egli, particolarmente attento ai problemi sociali, diede un grande impulso all’istituzione per l’assistenza degli alimenta, creata dal suo predecessore, che aveva il compito di allevare ed educare i giovani delle città italiane, col contributo dello Stato (in scuole controllate dal governo), per assicurare in futuro un sufficiente numero di funzionari e soldati italici. In realtà, però, i provvedimenti finanziari furono dal principe sempre rivolti a favore  dell’elemento militare, della classe popolare e del nuovo ceto medio, col risultato che la classe senatoria divenne sempre meno necessaria come gruppo dirigente. In effetti, Traiano con il suo prudente conservatorismo di facciata, senza contrasti ed aperti dissidi, riuscì ad imporre senza alcun limite la propria volontà e a garantire quella concordia interna che consentì al regime imperiale di ricompattarsi su nuove basi. Al di là della sua azione politica Traiano non dimenticò mai di essere soprattutto un generale e, pertanto, volle ampliare i possedimenti dell’Impero con la conquista della Dacia (l’attuale Romania), una regione ricca di miniere d’oro e di salgemma. A seguito di una spregiudicata e aggressiva campagna militare, la Dacia, con la sconfitta del suo re Decebalo, fu ridotta a provincia. In tal modo il principe assicurò all’impero lo sfruttamento di ricchezze ingenti e anche l’usufrutto immediato di un enorme bottino di guerra, quale non si era più visto dai tempi della vittoria sull’Egitto. Traiano mise rapidamente in circolazione tutto questo denaro, spendendolo in una serie di grandi opere pubbliche (strade e acquedotti, bonifica di zone paludose) feste e donativi per il popolo e l’esercito. In seguito, tra il 106 e il 117, strappò al regno dei Parti vari territori, ricchi e strategicamente importanti. I Parti erano rimasti tranquilli per circa cinquant’anni, perché preoccupati dalla pressione dei Mongoli alle loro frontiere, ma ora, sotto la guida del re Pacoro, avevano ripreso una politica espansionistica verso Occidente, esercitando una pericolosa pressione al confine dell’Eufrate. Le armi romane conquistarono in breve l’Armenia, la Mesopotamia e l’Assira, che furono subito organizzate a province. Traiano morì nel 117, dopo aver rafforzato il prestigio dell’Impero e lasciando ai suoi successori un chiaro esempio di pragmatismo politico.
Traiano dotò le province di un’amministrazione e d’un complesso di funzionari pari a quelli della capitale. Durante il suo regno, l’Impero raggiunse la sua massima estensione
Colpito da una grave malattia, Traiano morì, mentre era in viaggio verso Roma.
Il successore di Traiano fu il nipote adottivo Adriano (117- 138). Cosciente dei rischi connessi a un’eccessiva espansione dell'Impero, Adriano si decise a consolidare le conquiste del predecessore. All'interno dell'Impero favorì la colonizzazione delle terre incolte e creò un efficiente corpo di funzionari. Compì numerosi viaggi di ispezione, cultura e piacere nelle diverse province dell'Impero. Tra il 132 e il 135 fece reprimere l'insurrezione ebraica di Simone Bar Kocheba, Cosciente dei rischi connessi a un’eccessiva espansione dell’Impero, Adriano si decise a consolidare le conquiste del predecessore: egli restituì ai Parti la Mesopotamia e rese all’Armenia l’indipendenza, pur conservando il diritto a mantenere guarnigioni nei punti nevralgici. La pace sembrava così assicurata quan­do i Giudei, già insorti una prima volta al tempo della spedizione di Traiano contro i Parti, si ribellarono nuovamente tenendo impegnate per tre anni le forze imperiali. Domati gli Ebrei, Adriano proseguì nella sua opera di consolidamento delle frontiere, facendo costruire in Bretagna il muro che porterà il suo nome, vallum Adriani, grande sbarramento difensivo tra l’Inghilterra e la Scozia. Migliorie furono pure apportate al vallo che sorgeva tra il Reno e il Danubio, tanto che i territori del Baden e della Svevia si trasformarono in un vero bastione difensivo contro i Germani. Per tutto il periodo del suo regno lottò contro la diserzione della popolazione dalle campagne, abbandono che provocava la concentrazione nella città di una plebe esigente e irrequieta che andava ad accrescere la massa dei disoccupati. Uomo di grande cultura e di una profonda rettitudine cultore di filosofia, poesia e arte, in cui espresse la completa fusione della cultura greca con quella romana, fu tollerante nei confronti dei cristiani e promosse la costruzione di molte grandi opere architettoniche.
Ad Adriano succedesse un altro provinciale, di origine gallica, nel 138, Antonino Pio.
Attento amministratore, concesse sgravi fiscali, diede impulso al sistema stradale e all'edilizia. Praticò con convinzione la religione tradizionale (da cui il soprannome “il Pio”). All'estero rafforzò i confini facendo costruire in Britannia il “Vallo di Antonino”. Dopo di lui furono nominati imperatori i fratelli Marco Aurelio (161-180) e Lucio Vero nel 161.
Dal 165 i Parti invasero la Siria, mentre i confini furono violati dalle tribù germaniche dei Quadi e dei Marcomanni che furono respinti, tra il 167 e il 168, dai due imperatori. Nel 167, poi, le tribù germaniche dei Paesi danubiani invasero la pianura del Po e Marco Aurelio per allontanare l’incombente pericolo dovette rassegnarsi ad arruolare anche i briganti e i gladiatori e a utilizzare fino all’ultimo le risorse del tesoro imperiale. Nel 169 Lucio Vero morì e Marco Aurelio restò unico imperatore. Nel 175 dovette reprimere in Oriente la rivolta di Avidio Cassio che si era fatto proclamare imperatore.
Tornato a Roma, celebrò il trionfo sui Germani e si associò al potere il figlio Commodo. In politica interna Marco Aurelio cercò l'appoggio del senato e, con un'accorta politica finanziaria, riuscì a sostenere le forti spese militari. Fu avverso ai cristiani e li perseguitò. Uomo di cultura, seguace della filosofia stoica, scrisse un'importante opera in dodici libri A se stesso un’opera nella quale sono enunciati principi che oggi diremmo di carità, umiltà e fratellanza umana. Morì di peste nel 180 lungo la frontiera danubiana, dove era accorso per fronteggiare di nuovo i Germani.
Commodo (180 – 192) salì diciannovenne al trono. Diversamente dal padre instaurò una violenta repressione antisenatoria. Inviso alla classe militare per aver patteggiato la pace con i Quadi e i Marcomanni, fu vittima di una congiura ordita dal prefetto del pretorio Leto nel 192. Commodo incrinò l'equilibrio istituzionale raggiunto e con il suo atteggiamento dispotico favorì il malcontento delle province e dell'aristocrazia. Il suo assassinio diede il via a un periodo di guerre civili. Dopo un breve periodo di anarchia militare in cui si avvicendarono per breve tempo, eletto dal senato, il generale Elvio Pertinace, ma tre mesi dopo Dido Giuliano riesce a farlo eliminare dai pretoriani in cambio di forti donazioni. Intanto dalle periferie arrivano Albino, Nigro e Settimio, tre militari che aspirano a prendere il posto di Giuliano.
e) La dinastia dei Severi – L’esercito stanziato sul Danubio proclamò imperatore il comandante Settimio Severo (193-211), fondatore di una nuova dinastia. Entrato a Roma, dopo l'eliminazione del rivale Didio Giuliano, Settimio Severo fece ratificare la sua nomina dal Senato e si assicurò la fedeltà del corpo pretoriano, immettendovi un gran numero di soldati tratti dalle sue legioni e cancellandone così la fisionomia italica.
Si fece simbolicamente riconoscere come figlio adottivo di Marco Aurelio e, imponendo nuovamente il principio dinastico, si associò nell'impero i figli Caracalla e Geta. Convinto che, soltanto accentuandone il carattere dispotico, l'istituto imperiale sarebbe potuto sopravvivere, Settimio Severo si preoccupò di avere in pugno quelli che erano ormai i veri piedistalli dello Stato, la burocrazia e l'esercito, che potenziò e rese più efficienti. Contemporaneamente ridusse le prerogative del Senato nel quale fece entrare numerosi elementi orientali e africani, mentre valorizzò gli esponenti del ceto equestre affidando loro i posti di maggiore responsabilità dell'amministrazione statale: in questo modo il prestigio di cui godevano ancora l'Italia e, in essa, gli esponenti dell'antica nobiltà senatoria, era definitivamente compromesso. Anche nella legislazione l'azione di Settimio Severo incise profondamente con l'avvio di provvedimenti improntati all'umanitarismo sociale proprio dei grandi giuristi del tempo, Ulpiano, Paolo, Papiniano. In campo religioso non pare che Settimio Severo abbia perseguitato i cristiani la cui religiosità però non poté non contrariarlo. L'efficientismo di Settimio Severo si rivelò anche in politica estera: nel 198, infliggendo ai Parti una grave umiliazione, occupò la loro capitale Ctesifonte e consolidò il dominio romano in quella zona. Passò quattro anni in Oriente, dove visitò l'Egitto, la Giudea e l'Arabia. Ispezionò poi i confini danubiani accrescendone la sicurezza con opere di fortificazione; nel 203-204 visitò l'Africa settentrionale, territorio allora tra i più prosperi dell'impero; nel 208 infine, quando le forze gli stavano già venendo meno, partì per la Britannia per rendersi conto di persona della non chiara situazione locale, ma morì a Eburacum (l'odierna York).
Alla sua morte furono nominati imperatori i due figli Antonino, detto Caracalla e Geta: essi, in un primo momento, regnarono insieme, ma presto Caracalla uccise il fratello e restò solo sul trono, governando in modo arbitrario e dispotico; nel 202, tuttavia, prese una saggia decisione: un importante Editto, la Constitutio Antoniniana, accordò il diritto di cittadinanza a tutti gli uomini liberi dell’Impero. Caracalla tentò di conquistare consenso con una politica espansionistica ottenendo buoni risultati contro gli Alamanni nel 213 e facendosi oggetto di esaltazione religiosa. Nel 217, Caracalla morì in seguito a una congiura, ordita dal prefetto del pretorio Macrino, che gli succedette.
Deposto Macrino da una congiura militare, il potere tornò ai Severi con il quattordicenne Eliogabalo (218-222). Sacerdote in Siria del dio solare El Gabal, dedicò ogni energia a promuovere la propria religione. Nipote acquisito di Settimio Severo, Eliogabalo nel 218 fu acclamato imperatore, appena quattordicenne, dai legionari di Efeso. Dopo aver vinto l'imperatore regnante Macrino, che aveva marciato subito contro di lui, nel 219 raggiunse Roma, dove introdusse il culto del dio Elagabalo, chiamandolo Sol Invictus[5], un culto che comportava anche riti licenziosi. Il suo breve regno fu un seguito di stramberie e dissolutezze. Circondatosi di elementi orientali, a capo dei pretoriani mise un ex attore, ai rifornimenti della città prepose un parrucchiere. Quando nel 222 cercò di opporsi ad Alessandro Severo, che aveva già adottato per la successione, i pretoriani lo uccisero.
Ad Eliogabalo succedette il cugino Alessandro Severo il quale cercò di conciliarsi il senato, ma, per il suo atteggiamento pacifista, fu avversato dai militari, che lo uccisero nel 235.
La decadenza dell’Impero era ormai vicina.

Il discorso della montagna dal Vangelo secondo Matteo
Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi. Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.
Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!
Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. Se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno.
Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

La resurrezione di Gesù dal Vangelo di Luca
Il primo giorno della settimana, al mattino presto esse si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante. Le donne, impaurite, tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: «Bisogna che il Figlio dell'uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno»». Ed esse si ricordarono delle sue parole e, tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con loro, raccontavano queste cose agli apostoli. Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse. Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l'accaduto.
Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l'un l'altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

3. L’alba del Cristianesimo – Le origini del Cristianesimo si perdono nel Giudaismo: i primi cristiani erano e volevano rimanere ebrei e Gesù stesso non pensò mai, probabilmente, di fondare una nuova religione.
Solo con la predicazione ai pagani si pose il problema di distinguere tra cristiani, che avevano accolto la predicazione di Cristo, ed ebrei che non l’avevano accolta. Fu infatti ad Antiochia – una comunità di convertiti dal paganesimo – che la stessa parola cristiano fece la sua comparsa.
a) L’ambiente del Nuovo Testamento - Ai tempi di Gesù, il Giudaismo era assai più variegato di quanto non si presenti ai nostri giorni: esistevano, infatti, vari gruppi – diversi per costumi, credenze e interessi politici – spesso in aperto contrasto tra loro.
Se il centro religioso del giudaismo era il ricostruito Tempio di Gerusalemme, a esso si affianca l'istituzione delle sinagoghe, legata alla realtà della diaspora del popolo ebreo. Con la conquista, la distruzione e la deportazione degli abitanti prima del regno del Nord fra il 722 e il 721 a. C., poi di Gerusalemme nel 587, una parte della popolazione d'Israele e di Giuda fu condotta in terra straniera; un altro gruppo si era stabilito a Elefantina, nell'alto Egitto, alla fine del sec. V a. C. Sono le tracce più antiche che abbiamo di quella che si trasformò in un'importante catena di comunità giudaiche fuori della Palestina, per diventare poi, dopo la distruzione finale di Gerusalemme nel 135, la maggior parte del popolo ebraico.
Tale realtà diede luogo anche alla missione giudaica nel mondo pagano, cosicché a un giudaismo palestinese si aggiunge un giudaismo ellenistico con caratteristiche sue.
L'interpretazione e l'osservanza della Tôrāh, la Legge, ovvero i primi cinque libri della Bibbia, diventarono la preoccupazione fondamentale del giudaismo palestinese e ciò diede luogo, da un lato, alla costituzione di una classe d'interpreti della Legge, gli Scribi, alla produzione di complessi commentari della Scrittura e alla formazione di diverse correnti interpretative di cui le principali furono quelle dei Farisei e dei Sadducei; d'altro lato, l'osservanza della Legge produsse un rigoroso legalismo, che contraddistinse in maniera peculiare la religiosità giudaica. Un'ulteriore caratteristica di questa religiosità era data dalla sua dimensione escatologica, che si espresse tanto in un'attesa di tipo nazionalistico-messianico – portata a conseguenze rivoluzionarie, durante il periodo della dominazione romana, dal partito degli Zeloti – quanto nella speranza di una catastrofe cosmica, che trovava la propria espressione nella letteratura apocalittica.
Il giudaismo ellenistico era caratterizzato, oltre che dal suo esclusivismo etnico ed etico nei confronti del mondo circostante, dalla fusione che d'altra parte realizzò con la cultura filosofico-religiosa dell'ellenismo, donde si sviluppò un tipo di pensiero ebraico nuovo rispetto a quello espresso nella più antica tradizione biblica e nello stesso giudaismo palestinese.
Si osservino ora i gruppi che costituivano la magmatica composizione del giudaismo
·         sadducei erano i membri di un partito politico religioso attivo in Giudea dal sec. II a. C. fino alla distruzione di Gerusalemme nel 70 d. C.; questo partito, composto largamente dagli elementi più ricchi della popolazione, sacerdoti, mercanti e aristocratici, ebbe una notevole influenza sulla vita economica e politica al tempo degli ultimi re giudei, i Maccabei, e ancora più intensamente durante la dominazione romana del Paese. I Sadducei ripudiavano la tradizione orale, rifiutandosi di accettare un precetto che non fosse direttamente basato sulla Torah; non ammettevano la resurrezione dei morti e l'esistenza degli angeli e forse la stessa immortalità dell'anima e di conseguenza l'al di là. Furono più rigidi dei Farisei nell'applicazione della Legge e nella punizione dei crimini soggetti alla pena capitale. I Sadducei si opposero a qualsiasi innovazione anche nel culto sacrificale del Tempio di cui si considerarono i più rigidi e degni conservatori. Anche dal punto di vista teologico c’era differenza tra le due parti: i Sadducei cercavano di avvicinare Dio agli uomini in modo quasi antropomorfico, mentre i Farisei cercavano di elevare l'uomo verso un Dio più spirituale e trascendentale.
·         farisei erano i membri di un partito politico religioso attivo in Giudea tra il II secolo a. C. fino alla distruzione di Gerusalemme nel 70. Non numerosi, i Farisei diressero la loro azione verso le masse, alle quali cercarono d'infondere con spirito di santità gli insegnamenti religiosi tradizionali. I Farisei sostenevano, infatti, il principio d'evoluzione nelle decisioni legali e si dimostravano indulgenti e comprensivi a differenza dei Sadducei, rigidi e attaccati alla lettera del testo scritto. La loro dottrina fu protesa ad abbracciare l'intera vita della comunità, toccandone anche i fondamenti teologici. Il fariseismo, dando vigore alla moralità della legge e mostrando duttilità nel modo di osservare le norme, pose l'ebraismo in condizione di sopportare le vicissitudini e le innumerevoli tribolazioni dei secoli successivi e di riuscire a sopravvivere. La critica moderna ha corretto il giudizio che dei Farisei danno i Vangeli, rivendicando loro un vero spirito religioso. Dal punto di vista dottrinale, credevano in una vita ultraterrena e nella resurrezione dei morti.
·         Gli zeloti erano membri di una corrente politico-religiosa sorta e operante nel I secolo. Praticavano una severa osservanza della Legge, simile a quella dei sadducei e, conseguentemente, un acceso nazionalismo di orientamento messianico politico, che si tradusse nell'opposizione armata contro la dominazione romana della Palestina. Forse inizialmente organizzati da Giuda Galileo che capeggiò un'insurrezione di oltranzisti ebrei contro i Romani in occasione del censimento di Quirinio del 6. Il tentativo di Giuda, come il precedente di Teda, fallì ed egli fu ucciso. Gli zeloti assunsero l'iniziativa dell'insurrezione antiromana che si concluse con la distruzione di Gerusalemme del 70. Una seconda rivolta dal 132 al 135, sotto l'impero di Adriano, si risolse in un insuccesso. Praticavano una tenace resistenza armata contro i romani che occupavano la Palestina.
·         Una nota a parte meritano gli esseni, membri di un altro gruppo settario di tipo messianico, mai nominati nel Nuovo Testamento e diffuso, tra il sec. II a. C. e il I d. C. Il gruppo fu fondato da un sacerdote che, lasciata Gerusalemme, si era recato nel deserto, nei pressi del Mar Morto. Gli esseni vivevano raccolti in comunità di tipo monastico, cui si accedeva a pieno titolo dopo tre anni di noviziato: la vita comunitaria era retta da regole quali la rinuncia alla proprietà privata e, per lo meno nella maggior parte dei casi, al matrimonio. Nelle comunità era ammesso il lavoro agricolo e artigianale, ma si respingeva il commercio, e l'astensione dalla vita pubblica si concretava altresì nel rifiuto di esercitare il mestiere militare o di prestare giuramento. Le dottrine degli esseni, prevalentemente segrete, recano la traccia evidente d'influenze del pensiero orientale e di connessioni con il sincretismo religioso caratteristico dell'epoca, mentre il legame con il giudaismo palestinese si manifesta nella loro rigorosa osservanza della legge ebraica e del sabato, e nei loro contatti con il Tempio; grandissima importanza rivestivano inoltre le pratiche purificatorie e i pasti in comune, ai quali era attribuito un carattere sacramentale. Nuove prospettive sono state aperte allo studio sugli esseni che scomparvero dalla scena storica dopo il 70 d. C.
·         samaritani (abitanti della Samaria) che riconoscevano la sola Torah che interpretavano letteralmente e non esercitavano il culto del Tempio di Gerusalemme e anche se non consideravano i Profeti e gli Agiografi come testi sacri, credevano nel messia e nella resurrezione dei morti dopo il Giudizio Universale. Buona parte delle discordanze fra la versione samaritana del Pentateuco e quella giudaica mira peraltro a stabilire sul monte Garizim, anziché sul Monte del Tempio di Gerusalemme, il vero luogo del culto di Yahweh.
·         I terapeuti, numericamente meno rilevanti, erano i membri di una comunità giudaica di tipo monastico. La sede della comunità – composta da uomini e donne dediti a realizzare un ideale di vita ascetico e versati particolarmente nell'interpretazione allegorica dell'Antico Testamento – era in Egitto, presso Alessandria. I terapeuti erano affini in qualche misura agli Esseni.
b) Gesù e la sua predicazione La predicazione di Gesù[6], durata circa tre anni, intorno al 30 fu di portata rivoluzionaria. Il Vangelo, dal greco lieto annuncio, sovvertiva drasticamente l’impostazione rigida della morale del tempo. Alla sua attività di annunciatore del regno di Dio, Gesù associò un'intensa attività di guaritore e di esorcista: egli, infatti, con la sola forza di una sua parola o con un gesto delle mani, guarì le più diverse malattie e liberò gli indemoniati dal potere di Satana. Queste guarigioni di ammalati e liberazioni di indemoniati accrebbero enormemente la popolarità di Gesù, ma al tempo stesso suscitarono gelosia e preoccupazione nei capi religiosi e politici del popolo d'Israele, in pratica, nelle classi sacerdotali e dell'aristocrazia, appartenenti al partito dei sadducei, strenui avversari dei farisei, ma loro alleati nella lotta contro Gesù.
Non sappiamo con precisione quanto sia durata la vita pubblica di Gesù. Secondo lo schema adottato dai Sinottici, l'attività di Gesù – predicazione in Galilea, viaggio a Gerusalemme, attività in questa città conclusa con la crocifissione – sarebbe durata da sei mesi a un anno. Lo schema dei Sinottici è tuttavia chiaramente artificiale. Perciò è più attendibile storicamente il Vangelo di Giovanni, secondo il quale Gesù sarebbe stato a Gerusalemme per tre Pasque successive: ciò significa che la sua vita pubblica è durata da due anni a due anni e mezzo.
In questo modo, Gesù si trovò di fronte una doppia serie di avversari: da una parte, i sacerdoti e gli anziani del popolo, di tendenza sadducea e dall'altra, i dottori della Legge (gli scribi), di tendenza farisaica. Il contrasto non fu dovuto soltanto alla gelosia per il successo di Gesù presso il popolo; molto più profondamente fu dovuto al fatto che, col suo insegnamento, Gesù sovvertì da cima a fondo la religione tradizionale, quale si era venuta costituendo per opera dei sacerdoti e degli scribi d'Israele e le cui istituzioni principali erano la Torah e il Tempio. Di fatto, lo scontro di Gesù con gli scribi-farisei avvenne sulla Torah, mentre lo scontro con i sacerdoti-sadducei avviene sul Tempio. Questo doppio scontro si finì con la morte di Gesù sulla croce.
Lo scontro sulla Torah avvenne, anzitutto, a proposito del riposo sabbatico che, per gli scribi-farisei era assoluto, mentre per Gesù riguardò le necessità dell'uomo, perché il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato: perciò Gesù guariva anche di sabato e permetteva ai suoi discepoli, che avevano fame, di raccogliere le spighe in quel giorno e mangiarle. Lo scontro avvenne, poi, sulla purità rituale. Gesù rigettava ogni formalismo nella ricerca e nella tutela della purità rituale, dicendo ai farisei: «Voi farisei purificate l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di iniquità». Questo formalismo legalista era per lui ipocrisia. Quello che valeva per Gesù era l'impegno per la purità interiore, del cuore, per una religiosità non formalistica ma autentica e per un rapporto di giustizia e di carità verso il prossimo.
Lo scontro sul Tempio avvenne poiché questo, invece di essere un luogo di preghiera, era diventato un luogo di mercato e una spelonca di ladri: di qui il gesto audace e provocatorio della cacciata dei mercanti dal Tempio, che decise la sorte di Gesù.
La predicazione di Gesù – che dunque minava le basi della religione ebraica, come era vissuta dai sacerdoti-sudducei e dagli scribi-farisei, e che perciò poneva Gesù fuori di essa – non poteva che concludersi tragicamente.
Per questo motivo fu osteggiato e infine condannato a morte e crocifisso. Gesù si proclamò come il Messia atteso dagli ebrei e annunciato dai profeti nelle Scritture, predicò una morale fondata sulla totale libertà dell’uomo, piuttosto che sulla rigida osservanza di regole e precetti.
c) La predicazione degli ApostoliDopo la morte di Gesù, i primi discepoli cominciarono a organizzarsi e a diffondere il kerygma ossia l’annuncio.
Questo gruppo di persone, di origine eterogenea, decise di stabilirsi a Gerusalemme nella probabile persuasione che da lì a poco sarebbe giunta la fine dei tempi. Il gruppo, ebrei e proseliti, era considerato una delle tante sette giudaiche che allora componevano il variegato mondo religioso ebraico ed era disomogeneo anche nelle convinzioni: è possibile, infatti, riconoscere almeno tre sottogruppi con visioni abbastanza differenti su come intendere il nuovo Vangelo, che peraltro allora non esisteva ancora in forma scritta.
·         Gli Ellenisti, gruppo legato alla figura di Stefano, avevano un atteggiamento piuttosto sovversivo nei confronti delle istituzioni ebraiche, in particolare del tempio e ciò portò a uno scontro con il sinedrio, con la morte di Stefano e l'allontanamento della comunità da Gerusalemme. Essi si trasferirono quindi ad Antiochia e lì cominciarono a predicare anche a proseliti dell'ebraismo di origine non ebraica, costituendo le prime comunità cristiane composte da membri non nati nell'ebraismo.
·         I giudeo-cristiani, gruppo maggioritario, legato prima a Pietro e poi a Giacomo, fratello di Gesù, avevano un ruolo di primo piano nella Chiesa di Gerusalemme: questo ruolo fu affidato a Giacomo da Gesù che divenne il capo della Chiesa di Gerusalemme, dopo la morte di Gesù. I giudeo-cristiani praticavano integralmente la legge ebraica e pregavano regolarmente nel tempio di Gerusalemme; Pietro, però si dovette allontanare ben presto dalla città, dopo che era stato imprigionato da Erode Agrippa I, e Giacomo morì nel 62 per lapidazione su comando del sommo sacerdote Anania.
·         Un terzo gruppo, legato a Giovanni, elaborò una teologia originale su Gesù e sulla sua relazione con Dio, in seguito divenne predominante in tutta la Chiesa, insieme al pensiero di Paolo.
Anche secondo Paolo, la Chiesa di Gerusalemme era basata su tre colonne: Giacomo, Pietro e Giovanni.
Inizialmente, i primi seguaci di Gesù si consideravano parte della Religione ebraica. Certo, avevano alcune pratiche peculiari e nuove come il Battesimo e la celebrazione della Eucaristia e vivevano in una comunità coesa e a sé stante, ma tutti erano certi della propria ebraicità: si comportavano come Ebrei, partecipavano ai culti del popolo ebraico, praticavano le forme tradizionali della religiosità ebraica e osservavano strettamente l'antica Legge ebraica, discesa da Mosè.
Questo primo Cristianesimo si sviluppò dalla Giudea romana e si sparse per tutto l'Impero Romano e oltre cioè nell'Africa orientale e Asia meridionale, fino a raggiungere l'India e, dapprincipio, questo sviluppo fu strettamente collegato ai centri di fede ebraica già esistenti, in Terra Santa e nella Diaspora ebraica.
I primi seguaci del Cristianesimo erano ebrei, noti come timorati di Dio o anche ebrei cristiani: essi erano i membri del movimento ebraico di riforma che più tardi divenne il Cristianesimo vero e proprio. Nella fase più precoce, la Comunità era composta da tutti i giudei che avevano accettato Gesù di Nazareth come una persona venerabile o addirittura il Messia, quindi equivalenti a tutti i gruppi cristiani successivi, che continuavano a osservare le prescrizioni della Legge mosaica dopo la loro conversione al Cristianesimo. Quando il Cristianesimo cominciò ad evolversi e diffondersi, i giudeo-cristiani divennero solo un filone minoritario della comunità cristiana.
Si ipotizza che le Sedi Apostoliche siano state fondate da uno o più apostoli di Gesù, che si pensa siano partiti da Gerusalemme qualche tempo dopo la sua Crocifissione, verso il 26–36, probabilmente dopo il Grande Mandato, la missione divina degli apostoli. I primi cristiani si riunivano in modeste case private, note come chiese domestiche, ma la comunità intera di una città era anch'essa chiamata chiesa – dal greco εκκλησια o Ecclesia che letteralmente significa assemblea, riunione, o congregazione.
Molti di questi primi cristiani erano mercanti, mentre altri avevano motivi pratici per voler andare in Africa settentrionale, Asia minore, Arabia, Grecia e altri luoghi. Oltre 40 di queste comunità furono istituite entro l'anno 100, nelle città intorno al Mediterraneo, comprese due in Nord Africa, ad Alessandria e Cirene, e svariate in Italia molte in Asia Minore. Per la fine del I secolo, il Cristianesimo era già arrivato a Roma, in India e nelle maggiori città dell'Armenia, Grecia e Siria, servendo da base per la diffusione espansiva del Cristianesimo in tutto il mondo.
La storia di come questa piccola comunità di credenti si sparse per molte città dell'Impero Romano in meno di un secolo è una parte considerevole della storia dell'umanità.
Si trattava, però, anche di una comunità in crescita che, inevitabilmente, in almeno due occasioni, aveva ammesso al suo interno persone che non condividevano il background ebraico. Il primo caso era avvenuto in relazione un importante funzionario responsabile del Tesoro della regina di Etiopia. Il secondo convertito era stato il centurione romano Cornelio, che era stato ricevuto nella Chiesa direttamente da Pietro. Ovviamente, questi due episodi dovevano essere solo due esempi di un movimento certamente più ampio ed era logico che tali inglobamenti di esseri impuri, così come l'insistenza dei proto-Cristiani nel predicare la divinità di Gesù, ben presto portassero ad un conflitto aperto con le autorità della Religione ebraica, in particolare i Farisei.
Non a caso per due volte ai seguaci di Gesù fu ordinato di desistere dal loro modo di vivere e, al loro rifiuto, essi furono condannati a morte: la prima persecuzione, a metà degli anni 30, portò alla lapidazione di Stefano, la seconda all'esecuzione dell'Apostolo Giacomo il Maggiore intorno all'anno 44. In seguito a questa importante  persecuzione di Cristiani in Palestina molti Cristiani fuggirono ad Antiochia, importante metropoli, capitale della provincia romana d'Oriente e fondamentale centro della cultura greca.
Fu proprio ad Antiochia che il nome di Cristiani fu dato per la prima volta ai credenti in Cristo e che un numero notevole di persone provenienti da altre religioni, in particolare Greci, ma anche Ciprioti e Romani, accolse l'insegnamento evangelico. Insomma, per la prima volta, verso il 42-45 d.C., la Chiesa cominciò ad apparire come qualcosa di più di una delle numerose sette ebraiche: stava diventando cattolica, ossia universale.
Questo, però, poneva un problema: la grande maggioranza dei Cristiani erano ancora Ebrei e, ad Antiochia come a Gerusalemme, si consideravano tenuti alla circoncisione, a seguire le antiche leggi alimentari e a mantenere la norma che vietava loro di mangiare con i pagani e, poiché l'Eucaristia era celebrata in occasione di un pasto, gli Ebrei ritenevano impossibile concelebrarla insieme con i loro nuovi fratelli Gentili.
Per l'Apostolo Pietro, ebreo osservante, il dilemma era di decidere se un Ebreo doveva rifiutarsi di condividere la Comunione con gli ex – pagani, a meno che essi non si fossero sottomessi completamente, all'atto del Battesimo, ai rituali e alle leggi ebraiche, o se tali leggi dovessero essere sorpassate in virtù del comando di Gesù di diffondere la sua Buona Novella a tutte le nazioni.
Se Pietro era da subito apparso propenso per la seconda soluzione, per molti osservanti Ebrei il Battesimo di non circoncisi era un atto di tradimento verso il Giudaismo e che l'Apostolo alloggiasse e mangiasse con pagani era una cosa sconcertante e contraria alla Legge.
La questione doveva essere risolta, soprattutto perché Ebrei e Gentili convertiti erano sottoposti a forti pressioni anche da parte degli estremisti nazionalisti antiromani, che vedevano nella loro comunanza una sorta di tradimento degli ideali liberazione nazionale.
d) San Paolo – Nell’ambito della predicazione apostolica, merita una menzione a parte la figura dell’Apostolo Paolo[7] che riuscì ad organizzare e dirigere un grande numero di comunità, da Roma all’Asia minore, dando origine al Cristianesimo.
Paolo operò una revisione del messianismo tradizionale degli ebrei e lo trasformò in una teologia destinata a staccarsi dalla matrice giudaica o, addirittura, a porsi in conflitto con essa per i secoli successivi. Comunità di convertiti dal paganesimo nacquero così ad Antiochia, a Corinto, a Roma e in altri grandi centri del tempo.
Paolo di Tarso, giudeo e cittadino romano, dopo aver perseguitato per anni i primi cristiani si convertì al Cristianesimo a 35 anni. Nonostante non avesse mai conosciuto Gesù, in virtù della sua cultura e della sua retorica, Paolo, riuscì a far prevalere la propria personale visione del Cristianesimo e la propria dottrina, impregnata di cultura ebraica e di culti pagani, su quella delle prime comunità cristiane che si stavano a fatica organizzando. Paolo iniziò la predicazione senza prepararsi in alcun modo e senza mai consultare le comunità cristiane guidate dagli Apostoli che incontrò solo tre volte: la prima volta quando andò a Gerusalemme per la presentazione a Pietro, per la quale fu necessario l'intervento di Barnaba, poiché Paolo non godeva di buona fama; la seconda volta per il Concilio causato dalla sua anomala predicazione e l'ultima volta, ad Antiochia, dove avvenne lo scontro tra Paolo e Pietro in merito alle usanze imposte dalla Legge riguardo la possibilità di prendere cibo con i pagani ed arrivò anche ad accusare lo stesso Pietro di ipocrisia.
Paolo non si lasciò mai correggere, al contrario, parlava di rivelazioni proprie e si oppose in modo minaccioso alle rivelazioni dello Spirito delle prime comunità che potevano mettere in discussione i suoi insegnamenti. Ponendosi al di sopra degli Apostoli e delle Comunità del Cristianesimo originario e facendo concentrare l’attenzione sulla propria persona e sulla propria dottrina, Paolo pose di fatto le basi per cui il Cristianesimo diventasse in seguito una Religione di Stato. Da questo momento la legge dei Dieci Comandamenti e il discorso della Montagna, fulcro del messaggio evangelico, passarono in secondo piano.
Paolo edificò la chiesa del culto, cosa a cui Gesù non aveva mai accennato, con vescovi e sacerdoti, riportando in vita riti antichi, cerimonie sacerdotali e altari che facevano parte delle vecchie religioni seguite fino a quel momento, autorizzando i suoi seguaci, Tito e Timoteo, a nominare un vescovo da porre a fianco degli anziani.
La presenza della teologia paolina in tutto il Nuovo Testamento e talvolta anche tra gli apocrifi, di testi che tentano di modificare la chiara interpretazione documentale degli scritti autografi di Paolo e di dimostrare che Pietro e Paolo operavano all'unisono, o anche, tutto l'operato antieretico promosso dalla patristica, illuminano inconfondibilmente la storia delle prime comunità cristiane: quella dello scisma tra  le posizioni dei giudeo-cristiani basate sulla predicazione dei 12 apostoli guidati da Pietro, Giacomo e Giovanni e il Cristianesimo paolino, unico sopravissuto all'interno delle correnti del Cattolicesimo primitivo.
Certamente esiste una certa continuità tra vita e messaggio di Gesù e pensiero di Paolo, ma il vero centro del messaggio paolino è rappresentato dalla risurrezione di Gesù, aspetto che non poteva essere esplicitamente presente nella predicazione itinerante palestinese di Gesù di Nazareth. Attorno a Gesù risorto si collocano le principali intuizioni teologiche di Paolo che vedeva nella nuova religione la possibilità di salvezza del mondo intero, possibilità che in qualche modo era aspettata da molti altri. La sua predicazione ruppe con le tradizioni del popolo ebraico e abbracciò le aspirazioni universali della koinè culturale ellenistica. Paolo, cercando l'integrazione e la diffusione nel resto del mondo greco-romano, ampliò la base sociale e numerica della nascente chiesa. Gesù aveva predicato di guardare dentro di sé e di non abituarsi alla regole antiquate della società. Paolo promise a tutti la salvezza e il paradiso eterno, chiedendo in cambio solo di credere. Più che a provocare una difficile rivolta interna all'animo umano oppure un'inutile rivolta alle istituzioni – rivolte che avevano portato il messia ad essere crocifisso – Paolo puntò a infondere pace e sicurezza all'intera popolazione, straziata da centinaia d'anni di guerre e violenze. Fu Paolo ad affermare la preminenza della fede rispetto alle opere, la preminenza dello spirito sulla materia. Convertendosi e semplicemente credendo, ogni persona avrebbe partecipato alla venuta del Regno di Dio, che, secondo le visioni di allora, non era affatto lontana. Paolo credeva che Gesù fosse christos, cioè il sacro messia, il salvatore aspettato dagli ebrei, ma lo identificò anche come figlio di Dio, espressione che, in un mondo totalmente politeista, identificava in pratica un dio a sua volta, ne promosse il culto della personalità e iniziò a parlare dei cristiani come separati dagli ebrei.
I successivi due secoli, però, sarebbero stati caratterizzati dallo scontro sempre più forte fra il monoteismo (culto di un solo dio) e il politeismo (culto di molti dei). Il culto verso la persona di Gesù, appaiandosi al culto verso il Dio Padre e poi verso la Madre di Dio, avrebbe comportato numerosi problemi dottrinali alla futura Chiesa, tendenzialmente monoteista.
Il Cristianesimo faceva breccia nella popolazione impoverita, ma anche in strati sociali più abbienti. I suoi valori offrivano delle vie di fuga all'angoscia e alla disperazione causate da continue guerre e dal malessere dilagante, si rivolgeva anche al mondo femminile, un mondo escluso quasi totalmente dalla vita pubblica di allora. La nuova religione si diffuse rapidamente, anche grazie alla predicazione di profeti itineranti che ripetevano l'esperienza messianica, e rapidamente incorse in vari tentativi di repressione, che a volte raggiunsero livelli maniacali. A Roma si parlava con orrore dei culti giudaici, nacquero leggende metropolitane e i cristiani furono utilizzati, allo stesso modo degli ebrei, come capri espiatori per qualsiasi colpa o disastro impressionante.
e) Il Concilio di Gerusalemme Un avvenimento particolarmente importante fu il Concilio di Gerusalemme o Concilio Apostolico. La data precisa di questo summit è incerta, ma certamente si può restringere il campo al periodo tra il 48 ed il 52.
Tutti gli Apostoli più importanti erano presenti: Pietro, Giovanni, Giacomo il Minore, Vescovo della città, Paolo, il grande evangelizzatore dei Gentili. Con loro vi erano tutti i loro più stretti collaboratori e compagni: Barnaba, Silvano, Tito e molti altri ancora.
La prima questione dottrinale che dovette affrontare la cristianità e che determinò poi tutto il suo sviluppo successivo era se il Cristianesimo fosse solo una filiazione, quindi un ramo del Giudaismo, oppure se fosse qualcosa di diverso, di discontinuo con la tradizione giudaica, quindi qualcosa di nuovo. Di conseguenza, ci si chiedeva se il Cristianesimo fosse riservato a chi era divenuto un seguace del Giudaismo, oppure se era possibile essere seguaci di Cristo senza osservare i rituali e le tradizioni della fede giudaica. In altri termini per essere cristiani bisognava prima essere ebrei, oppure potevano diventare cristiani anche i non ebrei?
Intorno a questo problema si sviluppò il primo concilio della chiesa cristiana. Il concilio vide coinvolti nella disputa Paolo, da una parte, e i giudei capeggiati da Pietro e Giacomo, dall'altra.
Dopo un’accesa discussione tra le diverse fazioni, l'una che avrebbe voluto imporre la legge mosaica ai pagani convertiti e l'altra che considerava questa un giogo iniquo, si decide che il Cristianesimo fosse qualcosa di nuovo rispetto al Giudaismo e che i cristiani non devono avere col Giudaismo alcun legame.
Tuttavia, il fatto che sia stato deciso dal concilio, non elimina il problema che diversi predicatori andassero per conto loro. Paolo fa proprio riferimento a tali predicatori che impongono la legge giudaica ai cristiani non Ebrei, in netto contrasto con quanto deciso dal Concilio di Gerusalemme. Un'altra delle deliberazioni alla quale era giunto il Concilio di Gerusalemme  fu l'accordo ufficiale sulla ripartizione delle missioni: Giacomo e Pietro per i giudeo-cristiani circoncisi e Paolo per i gentili provenienti dal Paganesimo.
Questo Concilio terminò con la scelta di inviare alcuni rappresentanti ad Antiochia per comunicare la decisione presa che è così sintetizzata in una lettera: «Gli apostoli e gli anziani ai fratelli di Antiochia, di Siria e di Cilicia che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni da parte nostra, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con i loro discorsi sconvolgendo i vostri animi. Abbiamo perciò deciso tutti d'accordo di eleggere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Barnaba e Paolo, uomini che hanno votato la loro vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo mandato dunque Giuda e Sila, che vi riferiranno anch'essi queste stesse cose a voce. Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dall’impudicizia. Farete cosa buona perciò a guardarvi da queste cose. State bene».
In tal modo la Chiesa cristiana si svincolò ufficialmente dalla sua matrice giudaica: la Chiesa madre di Gerusalemme continuò ad esercitare la sua influenza, ma sotto la direzione di Giacomo. Paolo dominò nella diaspora e nei suoi viaggi missionari presso i gentili. Fino a questo momento Gerusalemme era stato il punto focale del Cristianesimo: le città o regioni della Palestina o Siria che erano evangelizzate erano incorporate nella madre Chiesa dai suoi inviati. Dopo di che la Parola, fatta libera e matura, proseguì la sua marcia fino all’estremità della terra.
Le decisioni relative alla dottrina cristiana diventarono un problema da subito e il Cristianesimo non nacque a tavolino, ma iniziò da una vicenda e, da quella vicenda, poi si allargò a tutto l'Impero romano e alla Storia. Rimane comunque il problema storico e di fede, se la vicenda centrale del Cristianesimo, nucleo e base di tutta questa religione, sia realmente accaduta oppure no, cioè la morte e la resurrezione di Gesù. Per ora non esistono documenti storici originali e indipendenti che lo attestano e che lo testimoniano.
f) I primi cristiani - Negli Atti degli Apostoli si legge: «Intanto quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione scoppiata al tempo di Stefano, erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia e non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei. Ma alcuni fra loro, cittadini di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, predicando la buona novella del Signore Gesù. E la mano del Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore. La notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, la quale mandò Barnaba ad Antiochia. Quando questi giunse e vide la grazia del Signore, si rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla considerevole fu condotta al Signore. Barnaba poi partì alla volta di Tarso per cercare Saulo [Paolo] e trovatolo lo condusse ad Antiochia. Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani». (Atti degli Apostoli, XI, 19-26).
Queste poche righe fotografano in modo impressionante il momento in cui gli Apostoli cominciarono ad aprirsi anche ai non ebrei, ai pagani.
g) Le prime persecuzioni – Il Cristianesimo cominciò presto a diffondersi in tutto il territorio dell’Impero Romano; i cristiani furono presto conosciuti e identificati dai romani come una delle molte ramificazioni del mondo giudaico del tempo.
I primi anni furono di tolleranza: le prime persecuzioni furono condotte da ebrei ostili alla parola dei discepoli dell'oscuro Nazareno, (si pensi al martirio di S. Stefano o all'incarcerazione di S. Pietro).
I romani volevano in un primo momento sostenere i cristiani piuttosto che gli altri ebrei: era questo il periodo delle più cruente rivolte antiromane (le ultime delle quali furono soffocate nel sangue) e i cristiani, che predicavano la fedeltà ai poteri costituiti, secondo il detto del rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio, erano evidentemente considerati meno pericolosi.
Questa situazione di relativa calma subì però una svolta decisiva tra la fine del 62 e l’inizio del 63, ad opera dell’imperatore Nerone, responsabile della prima persecuzione anticristiana del 64: i cristiani considerati una setta ebraica, furono accusati di essere i diretti responsabili dell’incendio di Roma.
Intorno al 60 senz'altro a Roma operano Pietro (morto martire a Roma nel 67) e Paolo (imprigionato a Roma nel 60 e morto martire nel 62). D'altra parte nella città trovano il martirio tanti cristiani in seguito all'accusa di avere incendiato Roma nel 64. Più o meno negli stessi anni muoiono martiri anche l'apostolo Bartolomeo in India e Giacomo il Giusto, Vescovo di Gerusalemme. Inizia in questi anni (e durerà fino al 125 circa) il  periodo durante il quale sono scritti i 4 Vangeli, Atti, Rivelazione, e qualche epistola (la gran parte erano state scritte prima da Paolo).
Dal 64 al 313 ci fu un susseguirsi di periodi di persecuzione e periodi di tolleranza.
È importante però distinguere due distinte tipologie di persecuzione:
·         persecuzioni sistematiche ordinate dall'autorità imperiale;
·         persecuzioni da parte del popolo.
Le ragioni delle persecuzioni erano varie:
·         la preoccupazione delle autorità politiche per la forza persuasiva delle comunità cristiane che, con la loro organizzazione gerarchica, apparivano come uno Stato nello Stato;
·         il rifiuto dei cristiani di riconoscere la divinità dell'imperatore;
·         l'inquietudine dell'opinione pubblica che vedeva nella crisi dell'Impero una vendetta degli dei.
Spesso lo Stato si trovò costretto a fare da braccio secolare al fanatismo del popolo che spiegano i molti processi ed esecuzioni subiti dai cristiani anche in tempi di tolleranza.
La persecuzione dei cristiani che investì tutto l'impero e che durò quasi 300 anni. Questa persecuzione, oltre ai drammi umani, causò la discesa del Cristianesimo nelle catacombe[8] e una impossibilità di comunicare, di far circolare le idee. Si ebbe quindi la nascita di mille rivoli dottrinali, le cosiddette eresie, che trovarono una loro parziale composizione e risoluzione solo nel Concilio di Nicea, che avvenne quasi 300 anni dopo il primo concilio di Gerusalemme.
A questo si deve anche la difficoltà di trovare testi risalenti a quel periodo. Già la scrittura era riservata a pochi eletti. In più il Cristianesimo poteva essere vissuto solo in clandestinità. Non si potevano quindi divulgare libri e documenti se non a rischio della vita.
Esistono editti, rescritti e provvedimenti di vario genere, più o meno intolleranti, ma non leggi vere e proprie. Alcuni testi, come l'editto di Adriano, sembrano quasi scritti allo scopo di evitare le persecuzioni. Ma l’assenza di una legislazione anticristiana a Roma offrì il fianco alle argomentazioni della prima letteratura apologetica greca e latina (si pensi particolarmente a Tertulliano che, da buon giurista, rilevò dettagliatamente questa incongruenza legale).
Le persecuzioni furono un autentico battesimo di fuoco: a causa di esse il Cristianesimo nascente si fortificò, si strutturò, si disciplinò in modo perfetto, riuscendo non solo a sopravvivere, ma anche ad imporsi. Da ciò il detto di Tertulliano, secondo cui il sangue dei cristiani è seme.
h) I padri apostolici – Sono i primi Padri della Chiesa in rapporto, diretto o indiretto, con alcuni degli apostoli. È il caso di Clemente di Roma, di Ignazio di Antiochia, di Policarpo di Smirne, i cui scritti hanno per oggetto soprattutto tematiche ecclesiali e morali. Affrontano problematiche connesse all'evoluzione del Cristianesimo e al controverso distacco della Chiesa dall'originario ambiente giudaico, per aprirsi a una dimensione universale che comprenda il mondo greco-romano.

È la filosofia che favorisce le credenze eretiche da Contro gli eretici di Tertulliano
Sono queste le dottrine di uomini e di demoni sorte da quel che sia lo spirito della pretesa sapienza mondana, per le orecchie che non sanno trovar pace e tranquillità. Il Signore, l'ha chiamata follia tale saggezza, e la stoltezza del mondo ha scelto appunto, per confonder quella che sia l'umana filosofia. È la filosofia stessa, invero, che dà materia a quella che si chiama mondana saggezza, dal momento che, con molta libertà e pretesa arroganza, interpreta la natura divina, i suoi disegni e i suoi procedimenti. Diciamolo francamente: le eresie stesse sono quelle che attingono forza e consistenza da tali principi filosofici. È dalla filosofia infatti, che Valentino prende la concezione degli Eoni e di una quantità di forme, di cui non saprei dire neppure il numero: infinite esse sono; e il concetto di una Trinità umana: o non era costui stato discepolo di Platone? E non è da quella stessa fonte, che scaturisce il dio di Marcione, preferibile agli altri? almeno ha un carattere di tranquillità; e anche la sua dottrina deriva dagli Stoici. Sono stati gli Epicurei quelli che hanno sostenuto il principio che l'anima è soggetta alla morte, e se tu vuoi negare il principio della resurrezione della carne, tu potrai attingere per questo punto dai dettami di tutti quanti gli antichi filosofi: dove trovi che la materia è uguagliata con la natura di Dio, quivi potrai riconoscere la dottrina di Zenone; ed ecco invece che ti vien fuori Eraclito, quando si parli di una divinità che abbia in sé natura ignea; è la stessa materia, in fondo, che viene trattata, agitata, e da eretici e da filosofi: donde il male e perché? donde l'uomo e come egli è sorto? Ed ecco il problema che ultimamente Valentino s'è posto: donde Iddio? Deriva dall'Entimesi o dall'Ectroma? O Aristotele, mal facesti, tu, che hai loro insegnato la dialettica, arte abile ugualmente e a costruire e a distruggere, diversa e sfuggevole nelle sue asserzioni, immoderata, sforzata nelle sue congetture; aspra, difficile nelle sue argomentazioni, che crea con facilità contrasti; laboriosa e molesta talvolta a se stessa, che tutto pone in discussione sottile, perché appunto nulla sfugga all'attento e minuzioso esame di lei! Di qui proprio derivano quei racconti favolosi, quelle genealogie interminabili, quelle questioni lunghe ed oziose, quelle discussioni sottili, che s'insinuano negli animi come qualcosa di malefico che ti consuma e ti uccide.
L'Apostolo, quando vuole preservarci da quello che è male, ci avverte appunto di star bene in guardia contro l'opera della filosofia: egli la ricorda chiaramente, espressamente: scrive ai Colossesi: Guardatevi, perché non vi sia qualcuno che non v'inganni colla filosofia, che, con vane apparenze di verità, non vi tragga fuori dalla retta strada, secondo l'umana tradizione e contrariamente alla provvidenza dello Spirito Santo. Paolo era stato in Atene, e questa specie di umana sapienza l'aveva ben conosciuta con le relazioni che aveva avuto coi filosofi: pretende essa alla verità, ma non fa che impedire il raggiungimento di questa, e, divisa com'è in una quantità di sette contrastanti intimamente fra loro, da luogo a credenze varie e contraddittorie. Può esservi forse qualcosa di comune fra Atene e Gerusalemme? quale relazione potrà stabilirsi fra la Chiesa e l'accademia? fra gli eretici e i Cristiani? È dal portico di Salomone che la nostra dottrina trae l'origine sua; fu lui stesso che ci ha insegnato che Iddio si deve cercare nella semplicità e nella bontà del nostro cuore. Se la vedano un po' coloro che hanno messo fuori un Cristianesimo stoico, platonico, dialettico. Che bisogno abbiamo noi di ricerche, dopo Gesù Cristo? che cosa dobbiamo richiedere noi, dopo che abbiamo avuto il Vangelo? Noi fermamente crediamo, e non sentiamo più desiderio di credere oltre: perché questo soprattutto è il canone fondamentale della dottrina nostra: il non esservi altra cosa da credere, al di là di ciò che già noi sinceramente crediamo.

4. Il II secolo del Cristianesimo – Il II secolo vede la Chiesa già strutturata e in grado di confrontarsi e di scontrarsi con la cultura pagana. Molti scrittori cristiani si pongono così a difesa della loro fede. Ma non solo. Nei primi due secoli dell’era volgare, c’erano molte comunità cristiane e ognuna di esse si rifaceva a tradizioni differenti non esisteva omologia su diversi aspetti dottrinali pertanto questo periodo vide anche un moltiplicarsi di varie eresie[9].
Rispetto a una religione, come a un’ideologia politica o a una corrente culturale, l’eresia indica l’allontanamento dall’ortodossia, cioè dalla dottrina prevalente che, dai sostenitori, è considerata come verità. Ma chi può stabilire se una dottrina è eretica? Per le istituzioni autoritarie non ci sono difficoltà; non così per le istituzioni democratiche. Finché il Cristianesimo fu una cultura minoritaria, nel mondo romano il concetto di eresia fu relativo, giacché ogni gruppo riteneva eretico l’altro.
Alcune dottrine, condannate come eretiche, tentavano di mettere a fuoco importanti questioni, com’è accaduto ad esempio nei primi secoli del Cristianesimo, quando si cercava di chiarire il difficile problema del Cristo e della sua duplice natura (divina e umana).
Nel Nuovo Testamento si trovano anche altre prese di posizione contro tendenze eretiche. Paolo denuncia influssi di tipo giudaizzante presenti in Galazia; altri cenni contro deviazioni si colgono nelle Lettere di Giovanni e nelle Lettere pastorali. Quale deve essere l’atteggiamento da tenere di fronte a casi del genere? Nel vangelo di Matteo si dice che il fratello, invano ripreso, sarà condotto dinanzi alla comunità e "se rifiuta di ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano". Ossia, chi non è d’accordo con la comunità ne è escluso, anche perché in realtà si esclude da sé. Si tratta di un procedimento pienamente legittimo, che sarà per lungo tempo adottato dalla chiesa delle origini. Solo in seguito, quando la degenerazione autoritaria si diffuse, l’eretico fu processato, subì torture, fu condannato a morte.
Per queste ragioni prenderà vita la prima letteratura eresiologica cristiana.
a) La formazione della struttura ecclesiale Tra la fine del I e l’inizio del II secolo, la concezione della Chiesa ha già forma compiuta, come ci testimoniano le lettere di S. Ignazio d’Antiochia.
Come appare dalle sette lettere di Sant’Ignazio, la gerarchia ecclesiastica si era strutturata secondo tre gradi precisi:
·         il vescovo, capo della Chiesa locale ed eletto dai fedeli;
·         presbiteri o sacerdoti, che assistono il vescovo nelle celebrazioni e in alcune altre mansioni;
·         diaconi, assistenti diretti del vescovo, che svolgono un’importante funzione nelle celebrazioni e nell’assistenza ai poveri.
In questo periodo non esiste ancora alcun primato diverso da quello del vescovo locale.
b) Il confronto con la cultura paganaIl II secolo fu quello dell’incontro e, conseguentemente, dello scontro tra Cristianesimo nascente e cultura pagana. Fu quindi soprattutto il secolo degli Apologisti: i padri apologisti furono impegnati soprattutto in uno sforzo apologetico, cioè di difesa delle verità fondamentali della fede cristiana dalle critiche dei pagani e del giudaismo, utilizzando anche concetti filosofici. Per esempio, Giustino rinvenne una profonda analogia fra le dottrine cristiane dell'esistenza di Dio, della creazione del mondo e dell'immortalità dell'anima e la filosofia platonica. In tutt'altra prospettiva si pone invece Tertulliano (155-200), il più famoso apologista latino: egli sostiene la superiorità della fede rispetto a ogni tipo di prova o argomentazione razionale, che non la possono in alcun modo giustificare, e per definire questa dimensione a-razionale della fede conia l'espressione latina credo quia absurdum credo poiché è assurdo.
I loro scritti segnarono così un momento di incontro e di scontro tra Cristianesimo nascente e cultura pagana. quegli scrittori cristiani che tentarono in ogni modo di difendere la fede cristiana dagli attacchi della cultura del tempo.
Lo scontro con il Paganesimo si attuò nel II secolo soprattutto sul versante culturale.
Mancano in questo periodo le grandi persecuzioni che caratterizzarono al contrario il I e il III secolo, ma ciò non significa che si trattasse di un tempo di piena tolleranza: lo dimostrano, tra gli altri, il martirio di S. Ignazio nel 110 e quello di S. Giustino nel 165.
c) Le prime eresie Le eresie conosciute dal Cristianesimo nel I secolo furono soprattutto quelle dette giudaizzanti (ad esempio gli ebioniti), ma già dal I secolo cominciavano a diffondersi le forme più primitive dello Gnosticismo[10], Doceti Nicolaiti. Alcune grandi eresie si manifestarono, in una situazione culturale molto ricca e composita, com’era quella del bacino del Mediterraneo. Si trattava di eresie importanti, perché all’epoca trovarono spesso largo spazio nelle comunità; ma anche perché talune di esse riaffiorano, magari in forme diverse, nei secoli successivi e perfino ai giorni nostri.
Il II secolo segnò la vera esplosione delle varie sette gnostiche dai marcioniti, ai valentiniani.
Marcione era un vescovo e teologo, fondatore della dottrina cristiana che prende il nome di Marcionismo, considerata eretica dalla chiesa primitiva.
I suoi insegnamenti furono rilevanti nel Cristianesimo del II secolo, continuando poi ad essere influenti nei secoli successivi, e furono percepiti come una notevole minaccia dai Padri della Chiesa, in particolare dalla Chiesa di Roma, che poi emerse vittoriosa dalla lotta contro le altre correnti dei primi secoli per essere confermata nel concilio di Nicea del 325.
Sebbene spesso incluso nella corrente gnostica, Marcione accolse la dottrina di Paolo di Tarso, che sottolineava come la salvezza non fosse ottenibile solo attraverso la Legge, e la portò alle sue estreme conseguenze: secondo Marcione esistevano due divinità, il Dio degli Ebrei, autore della Legge e dell'Antico Testamento, e il Dio Padre di Gesù Cristo, che aveva mandato il proprio figlio per salvare gli uomini; solo il secondo era il vero dio da adorare e che portava la salvezza.
Per sostenere le proprie dottrine, Marcione raccolse il primo canone cristiano di cui si ha notizia, che comprendeva dieci lettere di Paolo e un vangelo, probabilmente il Vangelo secondo Luca epurato di alcune parti, detto Vangelo di Marcione; allo stesso tempo rigettava completamente la Bibbia ebraica, considerandola ispirata da un dio inferiore.
Ci fu anche la nascita dei primi movimenti carismatici, come il montanismo.
Tutto ciò portò presto alla prima produzione eresiologica cristiana: l’opera Contro le eresie di S. Ireneo di Lione è degli ultimi anni di questo secolo.
d) La formazione del canone – Per la formazione del canone neotestamentario, i primissimi cristiani consideravano i dodici il canone, cioè il metro di riferimento, il modello per mezzo del quale si poteva stabilire, finché essi vissero, l'autenticità del messaggio cristiano. Questa constatazione sembra avvalorare l’ipotesi di una definizione del canone molto vicina all’epoca apostolica: in caso contrario, più tempo sarebbe passato, e maggiori difficoltà ci sarebbero state ad arginare gli scritti eretici, specialmente quelli gnostici.
Il kerygma fu il principale criterio selettivo, ma non fu l’unico. Ad esso si affiancò anche l’armonia che gli Scritti dovevano manifestare nei confronti di una lettura cristologica dell’Antico Testamento: la Chiesa primitiva avviò quel processo esegetico e interpretativo che vide nelle Scritture Ebraiche l’annuncio del vangelo; quindi non si potevano accogliere nelle comunità cristiane delle lettere o degli scritti in conflitto con una simile lettura. Nessun libro che, ad esempio, distinguesse il Dio degli Ebrei dal Dio dei cristiani avrebbe potuto essere incluso nel canone.
In sintesi i criteri usati dalla chiesa per stabilire la canonicità delle scritture, furono:
1.      L’origine apostolica: furono considerati canonici gli scritti degli apostoli, dei loro collaboratori più vicini, oppure approvati dagli stessi.
2.      La conformità e fedeltà alla predicazione di Gesù e degli apostoli.
3.      La cattolicità (nel senso di universalità), quando gli scritti erano accettati da tutte, o quasi, le chiese.
Bisogna tuttavia tener presente che il Nuovo Testamento non è perfetto o esente da errori. È affidabile, ma sicuramente non perfetto.
Il Nuovo Testamento si è formato durante tempi molto turbolenti e vi sono prove evidenti e inconfutabili di manipolazioni di scribi durante la sua formazione.  Ci sono state sicuramente modifiche ai testi, cambiamenti che di tanto in tanto hanno avuto un impatto con la dottrina.
La maggior parte di queste differenze sono minime e non influiscono sulle verità che si trovano negli scritti, tuttavia, altre invece sono notevoli e qualche volta influiscono o possono influenzare la verità. 
I manoscritti disponibili del Nuovo Testamento sono realizzati da copie fatte a mano di copie di copie di copie di copie: in altri termini, i manoscritti utilizzabili sono molto lontani dagli originali, scritti da chi effettivamente li ha compilati.  Tenuto conto di tutte le possibilità di errore durante la copia e il fatto che queste copie sono state spesso fatte da scribi prevenuti, è certo che quello che abbiamo oggi non è una trasmissione perfetta di ciò che si trova negli originali. Ci sono migliaia di varianti testuali presenti in un documento che è considerato da molti come la parola perfetta di Dio.
Molti apologeti cristiani utilizzano l'esistenza di migliaia di manoscritti come prova di autenticità del Nuovo Testamento, ma nascondono che quei manoscritti differiscono in alcuni passaggi importanti e praticamente nessuno dei manoscritti è completamente d'accordo con un altro. Quindi la loro difesa della infallibilità del Nuovo Testamento crolla. Osservando una buona versione della Bibbia che presenta riferimenti in colonna centrale o in qualche altra forma di riferimenti, si nota che ci sono numerose traduzioni alternative o anche dubbi circa l'autenticità di alcuni passaggi.
La stessa identità degli autori dei libri del Nuovo Testamento è solo ipotetica.
Molti dei padri della chiesa hanno respinto interi libri del Nuovo Testamento. Gli studi sulla canonizzazione del Nuovo Testamento confermano che vi sia stato effettivamente un disaccordo diffuso su cosa includere nel Nuovo Testamento che fu in gran parte completato da Atanasio, vescovo di Alessandria e capo della fazione trinitaria, famoso per essere tra i sostenitori più forti del suo tempo della divinità di Gesù.
Atanasio fu un rovente oppositore dell'Arianesimo, una dottrina cristologica elaborata dal monaco e teologo cristiano Ario (256- 336), condannata al primo concilio di Nicea nel 325. Sosteneva che la natura divina di Gesù fosse sostanzialmente inferiore a quella di Dio e che, pertanto, vi fu un tempo in cui il Verbo di Dio non esisteva e dunque che fosse stato creato in seguito. In tal senso contraddiceva l'idea della Trinità maturata attorno agli scritti di Giustino di Nablus (100  162/168). Atanasio fu l’uomo forte tra i Trinitari del suo tempo, così egli fece una forte pressione verso l'adozione di eventuali passaggi discutibili o scritti che hanno sostenuto la sua opinione contro tutto ciò che era nei primi secoli l'opposizione dominante alla trinità.
Fino al momento del concilio di Nicea, la posizione Trinitaria non era stata necessariamente l'opinione di maggioranza. Così, ciò che il vescovo Atanasio definì come "Scrittura" nell'anno 367 divenne il Nuovo Testamento della Bibbia.  Lui, sopra tutti gli altri, è la fonte ultima del nostro "Nuovo Testamento" canonico, e fu il principale fautore del suo tempo per l'adozione, in realtà forzata, della teologia trinitaria.

Una conversazione fra amici dall’Ottavio di Minucio Felice
Mentre riflettevo e rievocavo nel mio animo il ricordo di Ottavio, caro e fedelissimo amico, mi restò addosso tanta dolcezza e affetto per lui che mi parve di ritornare al passato, più che semplicemente rievocare con la memoria cose ormai compiute e passate: a tal punto la sua immagine, quanto più era sottratta alla vista, era avviluppata al mio cuore e ai miei sensi più profondi. Giustamente quell’uomo illustre e pio andandosene ci ha lasciato immensa nostalgia di lui, perché aveva verso di me tale affetto che nelle cose sia gravi sia leggere si trovava sempre in accordo con me, voleva e non voleva le stesse cose: si sarebbe potuto credere che eravamo un’anima sola divisa in due. Era il solo a conoscenza delle mie passioni, e il solo compagno anche dei miei errori, e quando, dissipata la caligine, emersi dall’abisso delle tenebre alla luce della sapienza e della verità, non respinse il compagno, ma, cosa più onorevole ancora, lo anticipò. Mentre dunque ripassavo col pensiero tutto il tempo della nostra comunanza e familiarità, fermai particolarmente la mia attenzione su quella conversazione in cui egli convertì alla vera religione con serissimi argomenti Cecilio, che era ancora attaccato alle vanità della superstizione.
Era venuto a Roma per affari e per vedermi, lasciando la casa, la moglie, i figli che – cosa che li rende più amabili – erano negli anni dell’innocenza e ancora balbettavano parole a metà, con un accento reso più dolce dall’impaccio della lingua. Non posso esprimere a parole quanta esultanza ho provato al suo arrivo, perché la mia letizia era aumentata dalla sorpresa della presenza del mio amico. Dopo uno o due giorni in cui l’assiduità della nostra compagnia aveva saziato l’avidità del nostro desiderio, e ci eravamo reciprocamente raccontati quello che a motivo della lontananza ignoravamo l’uno dell’altro, decidemmo di andare a Ostia, bellissima città, perché la cura delle acque era a me gradita e appropriata per asciugare gli umori del mio corpo, e anche perché le ferie per la vendemmia avevano allentato le attività del Foro. Infatti la stagione estiva stava declinando verso il clima temperato dell’autunno. Una mattina mentre camminavamo verso il mare perché la brezza ristorasse dolcemente le nostre membra e la sabbia cedesse mollemente, con nostro grandissimo piacere, sotto i nostri passi, Cecilio vide una statua di Serapide e, come usa fare il volgo superstizioso, la toccò e la baciò.
Ottavio allora disse: “Non è da uomo onesto, fratello Marco, lasciare un uomo che a casa e fuori ti sta sempre accanto in una tale cieca ignoranza da permettere che in pieno giorno vada a sbattere in pietre, per quanto effigiate, profumate e coronate: sai bene che la vergogna del suo errore ricade su di te non meno che su di lui”. Durante queste sue parole avevamo già attraversato il centro della città e ci trovavamo sulla spiaggia aperta. Là le onde lievi si infrangevano all’estremità della sabbia come spianandola per il passeggio, e poiché il mare è sempre in movimento anche quando non c’è vento, sebbene non invadesse la terra con le onde bianche e spumeggianti, ci divertimmo moltissimo a guardare le increspature e le sinuosità, mettendo i piedi proprio sul limite, mentre le acque volta a volta fluivano verso di noi e si ritiravano assorbendo nel loro seno le nostre impronte.
Così camminando lentamente e tranquillamente costeggiavamo le dolci curve della riva, ingannando il cammino con la conversazione, che riguardava soprattutto il racconto che Ottavio faceva del suo viaggio per mare. Ma dopo aver percorso un tratto di strada discorrendo, tornammo indietro sui nostri passi per la medesima via, e quando arrivammo al punto dove stavano a riposo delle barche tirate a secco e posate su tronchi d’albero al riparo dall’umidità del terreno, vedemmo dei ragazzi che con grandi grida giocavano a gettare in mare dei ciottoli.
Questo gioco consiste nel raccogliere sulla spiaggia un sasso tondo e levigato dalle acque; poi, tenendolo tra le dita dalla parte del palmo, ci si piega il più possibile verso terra e lo si fa rotolare in mare in modo che il proiettile rasenti il pelo delle acque o galleggi scivolando con un movimento leggero, o balzi riemergendo sulla cresta dell’onde con continui rimbalzi. Vincitore della gara fra i ragazzi era quello che mandava il suo ciottolo più lontano e con il maggior numero di rimbalzi.
Mentre noi ci divertivamo a quello spettacolo, Cecilio non ci badava e la gara non gli dava piacere, ma taceva stando da parte angosciato: il suo volto dimostrava che stava soffrendo. Io gli dissi allora: “Che succede? Come mai, Cecilio, non ritrovo la tua vivacità e l’allegria che hai negli occhi anche nei momenti difficili?”. Egli rispose: “Mi tocca e mi rimorde il discorso fatto poco fa dal nostro Ottavio, che ti ha rimproverato di negligenza per accusare senza parere me di una cosa più grave, l’ignoranza. Mi spingerò ancora più in là: devo trattare di nuovo interamente la questione con Ottavio. Se è d’accordo, discuterò con lui come adepto di quella setta, in modo che capirà subito che è più facile discorrere tra amici che confrontare le teorie. Sediamoci dunque su questi argini di pietra che si protendono in mare a protezione dei bagnanti, in modo da riposarci dalla passeggiata e discutere con più attenzione”. Ci sedemmo come lui aveva proposto: io stavo in mezzo avendo ciascuno di loro al mio fianco non in segno di omaggio, di onore o di distinzione sociale, perché l’amicizia rende sempre gli uomini uguali se già non li trova uguali, ma perché in qualità di arbitro potessi ascoltare i due contendenti tenendoli separati.

5. Il Cristianesimo del terzo secolo – Il III secolo fu un periodo tra i più movimentati della storia cristiana: esso vide infatti l’accrescersi della nuova fede e la sua capillare diffusione in tutto l’impero, ma anche il propagarsi di eresie e, soprattutto, vide persecuzioni da parte dello Stato e, con esse, l’insorgere di nuovi gravi problemi disciplinari.
a) La persecuzione di Decio – Decio che aveva conquistato nel 248 il trono imperiale, seguì una politica di restaurazione religiosa, inaugurata con il sacrificio annuale sul Campidoglio nel Gennaio del 250, con l’ordine che il sacrificio fosse ripetuto nei Campidogli di tutte le città dell’impero.
Quello che fino ad allora era stato un atto formale divenne così una sorta di censimento religioso, con la persecuzione di quanti non si fossero presentati per fare sacrifici e tra questi c’erano, ovviamente, i cristiani.
Furono immediatamente arrestati e uccisi i vescovi delle più importanti città imperiali: Fabiano a Roma, Babila ad Antiochia, Alessandro a Gerusalemme e molti altri con loro.
La persecuzione del 250 fu un duro colpo per la Chiesa, anche a causa delle defezioni di molti cristiani.
b) I ‘lapsi’ e il Concilio di Cartagine – Gli apostati, coloro che avevano preferito rinnegare la propria fede per aver salva la vita, furono generalmente definiti lapsi o caduti.
Quello dei lapsi divenne presto un serio problema nella Chiesa antica, soprattutto dopo la persecuzione di Decio: molti di loro chiedevano, infatti, a persecuzione finita, di essere riammessi nella Chiesa. Questo procurò molte preoccupazioni pastorali.
Si imposero così trattamenti diversi: ad esempio, lo scismatico Novato aveva un atteggiamento di grande tolleranza nei loro confronti, a differenza di Novaziano che era invece particolarmente rigido.
Al Concilio di Cartagine, nel 251, si decise, con un certo equilibrio, che i lapsi fossero riammessi alla piena comunione con la Chiesa soltanto in punto di morte.
c) La persecuzione di Valeriano – Una nuova persecuzione scoppiò nel 257 ad opera dell’imperatore Valeriano. Questi si limitò, in un primo momento, a confiscare i beni ecclesiastici e a destituire i cristiani che ricoprissero cariche pubbliche o comunque importanti.
In seguito cercò soprattutto di colpire le gerarchie della Chiesa. Trovarono così la morte in questa persecuzione, tra gli altri, S. Cipriano e il vescovo di Roma Stefano.

Inno a Roma da Il Ritorno di Rutilio Namaziano
Ascolta, o regina, tu la più bella
del mondo su cui signoreggi, o Roma,
o madre di dei, per i tuoi templi
noi non siamo lontani dal cielo:
te noi cantiamo e canteremo sempre,
sino a che lo concederanno i fati.
Nessun uomo, sino a quando ha vita,
può dimenticarsi di te.
Un colpevole oblio annienti il sole
prima che svanisca dal mio cuore
la venerazione che ho per te.
Tu estendi infatti i tuoi benefici,
simili a raggi di sole,
per le terre che sono circondate
dal fluttuante Oceano.
Lo stesso Febo, che il mondo intero
riveste e rischiara di sua luce,
compie il suo corso in tuo onore:
dalle tue terre esso risorge,
nelle tue terre tramonta.
La Libia dalle infuocate arene
non ostacolò il tuo cammino,
né ti respinge l’Orsa,
sebbene armata dal suo intenso gelo:
quanto le plaghe abitate si estendono
verso i gelidi poli, tanta terra
è al tuo valore aperta.
Tu hai fatto per genti diverse
un’unica patria: fu gran fortuna
per genti barbare di essere annesse
al tuo dominio. Mentre tu offri ai vinti
di essere partecipi del tuo diritto,
hai fatto città
quello che prima era il mondo.

Gli Unni dalle Storie di Ammiano Marcellino
Il popolo degli Unni, poco noto agli antichi storici, abita al di là delle paludi Meotiche [zona della Sarmazia corrispondente alla regione dell’attuale Mare di Azov], lungo l’oceano glaciale, e supera ogni limite di barbarie. Siccome hanno l’abitudine di solcare profondamente con un coltello le gote ai bambini appena nati, affinché il vigore della barba, quando spunta al momento debito, si indebolisca a causa delle rughe delle cicatrici, invecchiano imberbi, senz’alcuna bellezza e simili ad eunuchi.
Hanno membra robuste e salde, grosso collo e sono stranamente brutti e curvi, tanto che si potrebbero ritenere animali bipedi o simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti che si trovano sui parapetti dei ponti. Per quanto abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenore di vita da non aver bisogno né di fuoco, né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo tra le loro cosce ed il dorso dei cavalli. 
Non sono mai protetti da alcun edificio, ma li evitano come tombe separate dalla vita d’ogni giorno. Neppure un tugurio con il tetto di paglia si può trovare presso di loro, ma vagano attraverso montagne e selve, abituati sin dalla nascita a sopportare geli, fame e sete. Quando sono lontani dalle loro sedi, non entrano nelle case a meno che non siano costretti da estrema necessita, né ritengono di essere al sicuro trovandosi sotto un tetto. Adoperano vesti di lino oppure fatte di pelli di topi selvatici, né dispongono di una veste per casa e di un’altra per fuori. Ma una volta che abbiano fermato al collo una tunica di colore sbiadito, non la depongono né la mutano finché, logorata dal lungo uso, non sia ridotta a brandelli. Usano berretti ricurvi e coprono le gambe irsute con pelli caprine e le loro scarpe, poiché non sono state precedentemente modellate, impediscono di camminare liberamente. Per questa ragione sono poco adatti a combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, su cavalli forti, anche se deformi, e sedendo su di loro alle volte come le donne, attendono alle consuete occupazioni. 
Stando a cavallo notte e giorno ognuno in mezzo a questa gente acquista e vende, mangia e beve e, appoggiato sul corto collo del cavallo, si addormenta così profondamente da vedere ogni varietà di sogni. E nelle assemblee in cui deliberano su argomenti importanti tutti in questo medesimo atteggiamento discutono degli interessi comuni.
Non sono retti secondo un severo principio monarchico, ma, contenti della guida di un capo qualsiasi, travolgono tutto ciò che si oppone a loro. Combattono alle volte se sono provocati ed ingaggiano battaglia in schiere a forma di cuneo con urla confuse e feroci. E come sono armati alla leggera ed assaltano all’improvviso per essere veloci, così, disperdendosi a bella posta in modo repentino, attaccano e corrono qua e là in disordine e provocano gravi stragi. Senza che nessuno li veda, grazie all’eccessiva rapidità, attaccano il vallo e saccheggiano l’accampamento nemico. 
Potrebbero poi essere considerati senz’alcuna difficoltà i più terribili fra tutti i guerrieri poiché combattono a distanza con giavellotti forniti, invece che d’una punta di ferro, di ossa aguzze che sono attaccate con arte meravigliosa, e, dopo aver percorso rapidamente la distanza che li separa dagli avversari, lottano a corpo a corpo con la spada senz’alcun riguardo per la propria vita. Mentre i nemici fanno attenzione ai colpi di spada, quelli scagliano su di loro lacci in modo che legate le membra degli avversari, tolgono loro la possibilità di cavalcare o di camminare. Nessuno fra loro ara né tocca mai la stiva di un aratro. Infatti tutti vagano senza aver sedi fisse, senza una casa o una legge o uno stabile tenore di vita.
Assomigliano a gente in continua fuga sui carri che fungono loro da abitazione. Quivi le mogli tessono loro le orribili vesti, qui si accoppiano ai mariti, qui partoriscono ed allevano i figli sino alla pubertà. Se s’interrogano sulla loro origine, nessuno può dare una risposta, dato che è nato in luogo ben lontano da quello in cui è stato concepito ed in una località diversa è stato allevato. Sono infidi ed incostanti nelle tregue, mobilissimi ad ogni soffio di una nuova speranza e sacrificano ogni sentimento ad un violentissimo furore.
Ignorano profondamente, come animali privi di ragione, il bene ed il male, sono ambigui ed oscuri quando parlano, né mai sono legati dal rispetto per una religione o superstizione, ma ardono di un’immensa avidità di oro. A tal punto sono mutevoli di temperamento e facili all’ira, che spesso in un sol giorno, senza alcuna provocazione, più volte tradiscono gli amici e nello stesso modo, senza bisogno che alcuno li plachi, si rappacificano.

6. Il basso impero – Dopo 42 anni di regno della dinastia dei Severi, con l’assassinio nel 235 di Alessandro Severo da parte della soldatesca ammutinata, la situazione politica del Basso Impero precipitò. I militari elessero imperatore il centurione Massimino (primo imperatore di umili origini). Dopo di lui, ucciso da una cospirazione del senato, per trentacinque anni tra il 238 e il 284, in uno stato di anarchia militare, il potere passò tra le mani di 21 imperatori di cui 19 perirono assassinati.
Lo Stato era vicino al tracollo: gruppi di Germani, tra cui i Goti varcavano i confini, a Oriente premeva la dinastia dei Sassanidi, discendenti dei Persiani.
Durante il regno di Gallieno (253-268), alcune regioni, organizzatesi autonomamente pur rimanendo fedeli all’Impero, riuscirono a contenere l’avanzata nemica. Le frontiere furono ristabilite al Reno e al Danubio.
L’anarchia militare di questo periodo fu arrestata dai cosiddetti imperatori illirici, tutti nativi della Dalmazia, i quali furono tutti valenti soldati, fautori della più rigida disciplina e fedeli all’ideale di Roma. I principali fra essi furono Claudio II, soprannominato il Gotico (268-270) per le sue vittorie sui Goti e gli Alamanni. Aureliano (270-275) che continuando l’operato del suo predecessore cinse Roma di una poderosa cerchia di Mura, le Mura Aureliane. Probo (276-282) e Caro (282-283) che continuarono a difendere l’Impero contro le sempre più frequenti irruzioni dei barbari.
Ma l’Impero romano era travagliato da una crisi difficilmente sanabile.
La pressione dei barbari alle frontiere, insieme con l’anarchia militare che dilagava all’interno, sarebbe stata una delle cause della decadenza e, in seguito, dello smembramento dell’Impero.
Alla preoccupante situa­zione politica si era aggiunta anche una gravissima crisi socio-economica:
·         La borghesia, sulla quale l’Im­pero aveva trovato appoggio nei suoi giorni migliori, si era ormai paurosamente impoverita a causa delle continue rapine e violenze delle soldatesche scatenate;
·         le campagne erano state ab­bandonate dai coltivatori.
·         la sproporzione fra le masse sempre più povere e la minoranza sempre più aggressiva dei privilegiati.
Questa situazione pro­vocò anche una crisi demografica proprio nel momento in cui la pressione barbarica sui confini germanici, danubiani e orientali richiedeva maggiori forze per essere contenuta. Imperversava una grave crisi monetaria che, in breve tempo, portò ad una altissima inflazione; i prezzi salirono così alle stelle, aggravando la miseria dei ceti popolari.
a) Diocleziano - Diocleziano dovette affrontare la disastrosa situazione quando nel 284 assunse il potere imperiale. Divise il potere con il commilitone Massimiano a cui affidò il compito di governare l’Occidente. Sedi degli Augusti erano Nicomedia e Milano, capitale d’Occidente fino al 404.
Domata una ribellione in Egitto, Diocleziano si dedicò alla riorganizzazione dell’Impero. Ripartì il territorio in 12 diocesi che comprendevano più province. Tentò di consolidare le finanze stabilendo un tetto a salari e prezzi ed imponendo un regime di doppia tassazione, sulla proprietà fondiaria e sulla persona.
Nel 293 creò la tetrarchia un sistema di governo nel quale l’autorità sovrana si era divisa in quattro parti, tanto che, nei decreti ufficiali, comparve per la prima volta il plurale maiestatis.
Divise l’Impero in due parti, una orientale e una occidentale, ciascuna delle quali avrebbe dovuto essere governata da un imperatore, un Augusto, assistito da un Cesare, che sarebbe diventato, automaticamente, il suo successore. I due Augusti scelsero rispettivamente come capi­tali Milano e Nicomedia, mentre Roma conservò solo una preminenza morale in base alla quale il potere fu ripartito tra due Augusti, lui e Massimiano.
In questo modo veniva inaugurata l’epoca del dominato (da dominus, signore).
L’Impero conobbe di nuovo una certa prosperità, ma la libertà individuale subì molte restrizioni:
·         fu vietato abbandonare il proprio mestiere,
·         i coloni furono vin­colati alla terra,
·         la qualifica di cittadino scomparve sostituita da quella di suddito.
Nel 303, di fronte all’opposizione suscitata dal rilancio del carattere divino del l’imperatore, emanò una serie di editti di persecuzione contro i cristiani.
Nel 305, malato, depose il potere con Massimiano a favore dei Cesari.
Con l’istituzione della tetrarchia, le spinte eccentriche furono in qualche modo frenate. Nonostante il carattere autoritario, la tetrar­chia non si rivelò una formula di governo stabile, poiché subito dopo i primi tetrarchi essa fu corrosa dalle inevitabili contese dei loro successori. Inoltre si verificò in questi anni una progressiva marginalizzazione delle aree più antiche dell'impero a vantaggio di un oriente assai più prospero quanto a politica, amministrazione e cultura.
b) CostantinoDopo l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano sembrò funzionare il meccanismo della tetrarchia: i due Cesari divennero Augusti e nominarono altri due Cesari.
Alla morte di Costanzo Cloro si scatenò la lotta alla successione. Tra tutti i pretendenti prevalsero:
·         in Occidente il figlio di Costanzo Cloro, Costantino (che sconfisse il rivale Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio nel corso della quale Costantino avrebbe avuto la visione della croce e del cri­sma cristiano e avrebbe udito queste parole: «In questo segno vincerai» a Roma nel 312)
·         in Oriente Licinio (nominato da Diocleziano, intervenuto per calmare i contrasti).
Nel 313 i due imperatori, incontratisi a Milano, emanarono un Editto, con il quale concedevano libertà di culto ai cristiani e promulgavano leggi in loro favore sebbene un editto di tolleranza fosse già stato emesso, in favore dei Cristiani, da Galerio, nel 311.
Nel 324, quando Licinio cominciò a perseguitare di nuovo i cristiani, Costantino gli mosse guerra e, sconfittolo, divenne unico imperatore sia per l’Occiden­te sia per l’Oriente, con suo figlio Costanzo come Cesare, ristabilendo così oltre che la riunificazione di tutti i domini romani anche l’eredita­rietà del potere imperiale.
Il regno di Costanti­no fu contraddistinto da due fatti d’importanza capitale per l’evoluzione dell’Impero: il ricono­scimento ufficiale del Cristianesimo e la fondazione di Costantinopoli.
Rese quindi più efficiente l’esercito e ampliò l’apparato burocratico, inoltre la figura dell’imperatore fu definitivamente assimilata a quella del sovrano assoluto di stampo orientale, circondato da un’aura sacrale.
Sotto il regno di Costantino la religione cristiana assunse se non ancora ufficialmente, la posizione di religione privilegiata, per quanto Costantino non avesse ripudiato nettamente il culto solare di Mitra e solo in punto di morte si fosse convertito al Cristianesimo. Nei confronti del Cristianesimo egli adottò una politica sempre più favorevole, arrivando a esortare i sudditi orientali ad abbracciare questa religione e affidando ai cristiani incarichi nell’esercito e nella pubblica amministrazione. Politicamente, Costantino seguì molto da vicino le vicende della Chiesa, allora in fase di organizzazione, nella quale le dispute teologiche si succedevano numerose e accese.
Nel 325, quando una di esse, sorta a proposito di un dog­ma sostenuto da Ario, sembrò minacciare l’ordine interno, l’Imperatore convocò un concilio a Nicea[11], un concilio di prelati che condannò formalmente l’eresia ariana.
Nel 332, dopo aver sconfitto i Goti, Costantino morì nel 337, mentre si preparava ad affrontare i Persiani.
c) Da Giuliano a Teodosio - Alla morte di Costantino gli succedettero i tre figli Costante, Costanzo e Costantino II. Costanzo, prevalso sui fratelli, scelse come successore Giuliano, il generale che aveva sconfitto gli Alamanni nel 357.
Questi, circondatosi di intellettuali e filosofi pagani cercò di escludere i cristiani dalle cariche dirigenziali e tentò di restaurare il Paganesimo (i cristiani lo soprannominarono l’Apostata, cioè il Rinnegatore, poiché aveva abbandonato la religione cristiana). Per acquistare prestigio presso il popolo progettò di eliminare totalmente l’Impero persiano, ma morì in battaglia. Verso la fine del IV secolo i Goti, spinti dagli Unni, arrivarono al confine danubiano e chiesero di essere ammessi nell’Impero.
Valente, imperatore d’Oriente, accettò, sperando di utilizzarli nell’esercito, ma i continui saccheggi nelle regioni imperiali portarono alla guerra. Nel 378 a Adrianopoli, in Tracia, l’esercito romano fu duramente sconfitto. I Goti dilagarono allora in Tracia, saccheggiando e distruggendo. Graziano, già imperatore d’Occidente, rimase sul trono, mentre in Oriente fu eletto imperatore un generale spagnolo, Teodosio nel 379.
Invece di continuare a combattere, Teodosio contrattò la pace, i Goti divennero alleati dell’Impero, sposarono donne romane ed ebbero incarichi dirigenziali. Graziano e Teodosio, nel 380, promulgarono l’Editto di Tessalonica, con il quale il Cristianesimo diventava l’unica religione dell’Impero e veniva cancellata ogni usanza pagana (sacrifici, giochi olimpici, templi).
d) Il crollo dell’Impero d’Occidente – Morto Teodosio, unico imperatore dalla morte di Graziano, gli succedettero i figli Arcadio a Oriente e Onorio ad Occidente che, ancora giovani, furono affidati al generale di origine vandala Stilicone.
I Goti, controllati tramite concessioni di terre e denaro, divennero sempre più esigenti e decisero di penetrare in Italia guidati da Alarìco. Stilicone, nonostante li avesse sconfitti, patteggiò la pace. Altri barbari premevano in Gallia e Spagna: Svevi, Alamanni e Vandali. La classe dirigente, trasferita la capitale a Ravenna e fatto uccidere Stilicone, cercò di affrontare gli invasori.
Alarìco, nel 410, saccheggiò Roma; il suo successore, Ataulfo, fondò nelle Gallie il primo Regno barbarico e sposò la sorella di Onorio. Nel frattempo, i Vandali di Genserico conquistarono Cartagine, impadronendosi della provincia d’Africa nel 429.
Nel 430, l’Impero d’Occidente era costituito solo dall’Italia, da parti della Gallia e da poche terre nei Balcani.
All’inizio del V secolo fecero irruzione in Europa, saccheggiando molte città orientali, gli Unni, popolazione asiatica guidata dal feroce Attila. Il generale romano Ezio, alleatosi con i Visigoti, li affrontò e sconfisse ai Campi Catalaunici, nella Francia del nord nel 451. Quando Attila tornò in Italia, l’anno seguente, devastando il Veneto, gli fu mandato incontro il papa Leone I, per contrattare la pace. Colpiti dalla peste, gli Unni si ritirarono e Attila morì nel 453 in Pannonia.
Cessato il pericolo degli Unni, l’Impero era ormai stremato. Capo effettivo, nonostante l’imperatore fosse Valentiniano III, discendente di Teodosio, era il generale Ezio.
Morto Valentiniano III nel 455 i Vandali devastarono Roma, spogliandola di tutte le sue ricchezze. Dopo un periodo in cui regnarono vari imperatori controllati dal barbaro Ricimero, il patrizio Oreste fece proclamare imperatore il figlio Romolo Augustolo.
Dopo pochi mesi, costui fu deposto da Odoacre, capo dell’esercito barbaro al servizio dell’Impero, che accettò da Zenone, imperatore d’Oriente, di governare l’Italia. Di fatto era la fine dell’Impero d’Occidente nel 476.
d) La cultura e l’arte – Nei primi secoli il Cristianesimo si espanse rapidamente, sebbene la vita delle comunità cristiane si svolgesse in gran parte nella clandestinità per sfuggire alle persecuzioni.
Nell'imporsi come nuova religione, il Cristianesimo influenzò profondamente anche la cultura, introducendo concetti originali e nuovi impulsi per giungere a una definizione, anche razionale, delle principali verità di fede. I primi scrittori cristiani che si cimentano in quest'opera sono chiamati Padri della Chiesa. A loro, con il passare del tempo, fu riconosciuta un'autorità dottrinale e normativa a un livello appena inferiore a quello della stessa Bibbia.
Nella predicazione di Cristo emergono soprattutto l'annuncio della venuta del Regno di Dio, l'amore di Dio verso tutti gli uomini, compresi i peccatori e un forte richiamo etico-spirituale a uno stile di vita improntato all'amore, all'umiltà, alla fratellanza universale.
La religione cristiana esercitò un impatto notevole sulla cultura e sulla filosofia tardo ellenistica, introducendo (o perlomeno rimodellando completamente) nuovi concetti, in parte mutuati dalla tradizione giudaica, come:
1. l'affermazione del monoteismo, del tutto sconosciuto al mondo greco;
2. la creazione del mondo dal nulla, tesi ritenuta impossibile dalla filosofia classica;
3. la centralità dell'uomo, depositario di un principio divino ­ la sua somiglianza con Dio e non semplicemente razionale, che lo rende superiore a tutti gli esseri.
Dei quattro Vangeli, sicuramente quello di Giovanni è il più ricco di spunti filosofici: egli parla di Cristo in termini di Logos, concetto centrale nella speculazione greco - ellenistica, ma al contrario di questa gli conferisce un aspetto umano e storico e non un carattere atemporale e simbolico. Giovanni sottolinea l'identità fra la persona storica di Gesù, che è Logos capace di provocare risposte e miracoli, e il Logos che è la parola stessa di Dio, creatrice e auto rivelatrice.
Nella successiva speculazione dei Padri della Chiesa fu proprio il concetto di Logos che permise di compenetrare più profondamente la filosofia greca con il messaggio cristiano.
L'elaborazione teorica della dottrina cristiana fu molto complessa per una duplice serie di problemi:
1.      la determinazione esatta del canone dei testi sacri: inizialmente il contenuto della predicazione di Cristo fu affidato alle dirette testimonianze degli apostoli; quando questa predicazione fu raccolta in testi scritti, si presentò il problema di vagliarli e di stabilire i testi ispirati, espungendo gli scritti apocrifi, cioè quei testi a cui non è attribuita autorità di rivelazione divina;
2.      l'edificazione di una visione unitaria e coerente della fede cristiana per definire e approfondire i contenuti della verità di fede, così da poterli comunicare al mondo greco-romano, la cui cultura era profondamente diversa da quella ebraica, e difenderli dagli attacchi di studiosi e filosofi pagani e dalle eresie.
Un gruppo di scrittori cristiani dei primi secoli, in seguito denominati i Padri della Chiesa, concentrò i propri sforzi in quest'opera di chiarificazione e definizione del contenuto dottrinale del Cristianesimo, in particolare sulla natura umana e divina di Gesù Cristo. Già a partire dalla fine del II secolo i cristiani sentirono il bisogno di distinguere dalla propria generazione i maestri autorevoli di un'età precedente, reputata qualitativamente superiore. Ai Padri fu riconosciuta un'autorità dottrinale e normativa a un livello appena inferiore a quello della stessa Bibbia. Nel corso dei secoli la citazione dei Padri si consolida come prova teologica assai probante.
Tradizionalmente la storia dei Padri della Chiesa viene distinta in tre fasi principali: quella dei padri apostolici, quella dei padri apologisti – delle quali si è già trattato – e quella patristica.
La patristica (secc. III-VIII) sistemò e razionalizzò le verità di fede, utilizzando soprattutto l'apparato concettuale del platonismo. Trovò il suo primo centro propulsore nella scuola di Alessandria, luogo di incontro di culture differenti, in cui spiccano le personalità di Clemente (secoli II e III) e di Origene (185-253).
Clemente sosteneva la superiorità della sapienza cristiana rispetto a ogni altra forma di sapienza e considera il Cristianesimo come il naturale coronamento e sbocco della filosofia greca.
Origene riprese l'interpretazione di tipo allegorico delle Scritture, inaugurata dall'ebreo Filone di Alessandria, e condusse un'esegesi biblica analitica, negando validità al senso puramente letterale. A livello Origene teologico tese a interpretare la Trinità come una gerarchia discendente, di chiara impronta neoplatonica, in cui il Padre è superiore al Figlio e questi allo Spirito Santo.
Successivamente, nei secoli IV e V, i Padri della Chiesa e i primi concili ecumenici furono sempre più impegnati nella definizione delle verità di fede ortodosse in riferimento alla diffusione di eresie che negavano la duplice natura, umana e divina, di Cristo, sostenendo o il prevalere della natura umana sulla divina l’arianesimo o l'assorbimento dell'umana in quella divina il monofisimo o la divisione completa delle due nature il nestorianesimo.
In quest'opera di definizione della fede cristiana si distinguono i padri della Cappadocia, Gregorio di Nissa (335-394) e Gregorio di Nazianzo (330-390).
Gregorio di Nissa mutuò da Platone le categorie concettuali con cui indagare gli argomenti di fede. Riconosceva allo Spirito Santo la natura divina e la stessa sostanza del Padre, da cui procede per la mediazione del Figlio, nel quale sono nettamente distinte la natura umana e quella divina, pur ribadendo pienamente l'unità di persona.
Gregorio di Nazianzo, per dimostrare l'unità di sostanza delle tre persone della Trinità, avvia lo studio delle loro relazioni: i termini Padre e Figlio indicano un rapporto preciso, anche se per l'uomo inconoscibile, tra due ipostasi della stessa sostanza.
Nel quadro decadente dell’epoca campeggia solitaria, nel IV secolo, la figura di Ammiano Marcellino, l’ultimo grande storico di Roma, al quale si affiancano, fino alla tarda latinità, uno stuolo di prosatori che si occupano di storiografia, studi di grammatica, filologia, giurisprudenza. Molti sono declamatori e conferenzieri (conferiscono dignità di genere letterario al panegirico, in precedenza semplice esercitazione retorica), dotati di buona cultura, anche di profonda erudizione, ma di scarsa originalità, così come nel complesso risultano i poeti, che, tra gli eccessi del loro virtuosismo stilistico e metrico, manifestano un respiro poetico piuttosto arido.
Ammiano Marcellino nacque ad Antiochia in Siria intorno al 330 da una benestante famiglia pagana di lingua e di cultura greca. Intraprese la carriera militare sotto l'imperatore Costanzo e partecipò come ufficiale agli ordini del magister equitum Ursicino, alle campagne in Germania, nelle Gallie e in Oriente. Nel 359 si salvò a fatica quando la città di Amida fu conquistata dai parti, contro i quali combatté nel 363 al seguito dell'imperatore Giuliano. Fallita la spedizione, si ritirò a vita privata nella città natale. Dopo i viaggi in Egitto, dove studiò i geroglifici, e in Grecia, nel 378 si stabilì definitivamente a Roma, dove approfondì la conoscenza della lingua latina, che aveva imparato nell'esercito. Nell'ultimo quindicennio della vita si dedicò alla stesura della sua opera storica Rerum gestarum libri XXXI. Morì probabilmente a Roma nel 400 circa.
La sua opera storica in 31 libri, Rerum gestarum libri, proseguiva le Storie di Tacito e narrava gli avvenimenti dell'impero romano da Nerva nel 96 alla morte di Valente nel 378. I primi 13 libri sono andati perduti; i 18 pervenutici trattano il periodo 353-378: l'uccisione di Gallo e la persecuzione dei suoi seguaci, le azioni militari di Ursicino in Oriente e il suo richiamo, i principati di Giuliano e le sue campagne di Gallia, di Gioviano, di Valentiniano I e di Valente, fino alla sua morte nella battaglia di Adrianopoli contro i Goti. Il fatto che nei primi 13 libri siano esposte le vicende di più di 250 anni e nei rimanenti 18 gli avvenimenti di solo 25 anni, indica chiaramente che Ammiano Marcellino volle narrare approfonditamente soprattutto i fatti contemporanei, dei quali era stato testimone se non partecipe.
Ammiano Marcellino è l'ultimo grande storico della letteratura latina, l'unico che si possa in qualche modo associare ai grandi narratori romani. Egli si riallaccia a Tacito, non solo cronologicamente, ma ancheper metodologia. "La storia ­ dice ­ è solita correre sulle alte vette degli avvenimenti e non a indagare le minuzie delle umili cose": su questa premessa egli tratta sia le vicende politiche e la vita interna dello stato sia gli intrighi di corte sia le guerre esterne. Lo legano al grande predecessore, inoltre, la narrazione di tipo annalistico, l'introduzione di discorsi, le riflessioni filosofico-morali, il senso fatalistico della storia e il cupo pessimismo sull'età contemporanea, che riserva solo amarezze e delusioni. Come lo storico greco Polibio, Ammiano inserisce nella narrazione acuti profili di popoli, descrizioni geografiche, tecniche e scientifiche; molto efficaci sono le descrizioni delle battaglie e della vita militare. Lo storico mostra libertà e imparzialità di giudizio: "Non ho mai osato corrompere sia col silenzio sia con la falsificazione la mia opera che fa professione di verità". Egli è infatti un interprete obiettivo del suo tempo, lontano da ogni eccesso e da ogni intolleranza. Acceso assertore della grandezza di Roma, "che sarà vittoriosa finché avrà uomini", ne denunzia senza remore la decadenza; è ammiratore, da fedele soldato, dell'imperatore Giuliano, cui dedica i libri dal 21 al 25, ma ne rileva puntualmente i difetti, disapprova il suo editto con cui si allontanavano dall'insegnamento i retori e grammatici cristiani e stigmatizza la sua avversione nei confronti del cristianesimo. La tolleranza religiosa è per Ammiano Marcellino indice di umanità, come per gli intellettuali antichi.
La poesie trovò la sua massima espressione in Claudio Rutilio Namaziano, pagano di origine gallica, figlio di un alto funzionario, a Roma praefectus Urbis nel 414. Nel 417 ritornò in patria per mettere ordine nelle sue proprietà dopo le devastazioni dei Goti. Poeta garbato, descrisse il viaggio nel poemetto De reditu suo (Il ritorno), che ci è pervenuto interrotto al verso 68 del secondo libro. Nell'opera hanno particolare risalto il sentimento di venerazione per l'alta maestà di Roma e l'avversione per il Cristianesimo, responsabile, secondo Rutilio, della rovina e della desolazione dell'impero. Il momento di ispirazione più genuina è rappresentato dal saluto rivolto dal poeta a Roma, al momento della partenza, in cui la città è celebrata come regina del mondo, conquistatrice e unificatrice delle genti.
Per quanto riguarda l’arte, essa non manifestò una precisa fisionomia cristiana fino all'editto di Costantino del 313 e soprattutto con l'editto di Teodosio del 380, che proclamò il Cristianesimo religione dell'Impero.
Fiorirono allora l'architettura e la pittura cristiane, mentre la scultura fu rappresentata soprattutto da una rilevante produzione di sarcofagi e da rare sculture a tutto tondo, tra cui la nota statua del Buon Pastore del Museo Lateranense a Roma.
È indispensabile parlare dell’uso cristiano del simbolo. Se i romani esprimevano il loro concetto di forza e supremazia con forme solide e grosse dimensioni, l’arte cristiana aveva un problema quando doveva rappresentare la trascendenza del divino, doveva cioè rendere visibile l’invisibile e conosciuto ciò che all’uomo non era possibile vedere se non tramite l’atto di fede. Già i greci avevano dovuto affrontare questa situazione ed erano giunti a raffigurare le divinità con forme umane idealizzate, ma la religione cristiana ha radici sia nel mondo ellenistico-romano, sia in quello ebraico, dove la rappresentazione di Dio è vietata per non incappare nell’idolatria.
La soluzione si ottenne dando agli oggetti significato simbolico, che oltre a conferire valore ideologico diede alle rappresentazioni un valore didattico (tra i primi espedienti simbolici troviamo la luce, da sempre simbolo del bene, e la bidimensionalità, che toglieva corporeità agli oggetti e alle persone, che così sarebbero stati puro spirito). 
Fino all'editto di Costantino furono usati come luoghi di culto le case private o anche le domus ecclesiae, piccole costruzioni la cui tipologia si rifaceva forse alla casa romana con atrio. Nello stesso periodo, per via dell’esigenza cristiana di sotterrare i morti, invece di cremarli come facevano abitualmente i romani, nascono i cimiteri sotterranei, le catacombe, nel tempo caddero in disuso e se ne persero le tracce, tranne di quelle ubicate sotto le basiliche (San Sebastiano sulla via Appia).
A partire dal IV secolo compare l'edificio tipico della religione cristiana, ripreso dall'architettura civile romana: la basilica, sorta per soddisfare nuove esigenze liturgiche di accogliere in un ambiente adeguato i fedeli durante la celebrazione dei riti. La primitiva forma di basilica a semplice sala rettangolare allungata, con struttura muraria continua e volta a concrezione, si arricchì in seguito di colonnati paralleli all'interno (3 o 5 navate) e di absidi nelle parti terminali. La presenza del transetto, a tre quarti della lunghezza dell'edificio, porta a una pianta a croce di chiaro significato simbolico. Tra le basiliche romane dei secoli IV e V si ricordano S. Maria Maggiore, S. Sabina, S. Giovanni in Laterano, S. Pietro, S. Lorenzo, a Roma; e inoltre S. Apollinare in Classe e S. Apollinare Nuovo a Ravenna, la basilica di Aquileia e quella di S. Tecla a Milano.
Accanto alle basiliche a sviluppo longitudinale furono costruiti edifici a pianta centrale (S. Stefano a Roma e S. Lorenzo a Milano), adibiti a battistero, a mausoleo, a martyrium (per il culto dei martiri di cui si venerava il sepolcro), con struttura interna ripresa dallo schema di architetture imperiali, come il mausoleo di S. Costanza a Roma.
Costantino e sua madre, sant'Elena, e i successori promossero numerose costruzioni anche a Costantinopoli come la primitiva S. Sofia, in Siria e in Palestina (chiesa della Natività a Betlemme).
Le più importanti testimonianze della pittura sono rintracciabili soprattutto negli affreschi delle catacombe romane: i più antichi esempi (catacombe di Domitilla, Callimaco, Pretestato, Priscilla, degli inizi del sec. III) mostrano una precisa derivazione dai moduli stilistici della pittura romana, nell'evidente tendenza alla schematizzazione delle forme, ma caratteri propri nella forte simbologia delle raffigurazioni (rappresentazione del pavone che simboleggia la Resurrezione nella catacomba di Priscilla).
In seguito all'editto di Costantino, pur continuando l'uso di affrescare le catacombe, comparvero i primi cicli di decorazione a mosaico come a Roma nella volta dell'ambulacro di S. Costanza e in S. Prudenziana.

7. Medioevo – Secondo la suddivisione più condivisa della Storia d'Europa che prevede tre ere, classica, medioevale e moderna, il Medioevo è il periodo intermedio, il cui inizio è collocato, per l'intera Europa, nel 476, cioè con la deposizione dell'ultimo imperatore romano Romolo Augustolo e di conseguenza con la fine dell'Impero Romano d'Occidente.
Diversamente, la conclusione del Medioevo è collocata in ciascun paese in date diverse, che coincidono con la nascita delle rispettive monarchie nazionali ed il periodo rinascimentale.
Alcune date comunemente utilizzate sono:
·         il 1453, con la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi e la fine della Guerra dei Cent'Anni tra Inghilterra e Francia,
·         il 1492, con la fine del periodo islamico in Spagna e la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo,
·         il 1517, con la Riforma protestante.
Il termine Medioevo, inteso come età di mezzo, fase di transizione tra due stadi, implica già una visione negativa, che si radica già nel giudizio degli umanisti che descrive avvilente e pericolosa la quotidianità nell'età storica appena trascorsa, influenzati dalle recenti carestie e dall'arresto demografico dovuto alle epidemie. In realtà è storicamente accertato come non mancarono importanti innovazioni e conquiste. La visione negativa del Medioevo culminò nell'Illuminismo, quando prevaleva la visione del Medioevo come epoca della prigionia dello spirito, come fanatismo religioso che relegava l'uso della ragione e dell'arbitrio. I caratteri di rozzezza e oscurità davano però una visione deformata e semplificata. I mille anni di Medioevo, così ricchi di eventi e trasformazioni, hanno continuato ad essere riproposti come tenebra, barbarie, violenza, perdita d'identità, sterilità e carestia.
Per quanto numerosi possano essere i lati negativi attribuibili al Medioevo, non si può accettare che tali aspetti negativi siano assunti a linee guida per la descrizione della realtà plurisecolare dell'Europa medievale e dei gruppi umani limitrofi.
Lo studio del Medioevo ebbe una rivalutazione molto forte durante il Romanticismo, anche se non fu certo una rivalutazione filologica, ma piuttosto una distorsione in chiave contemporanea di un'idea di Medioevo. In particolare interessavano aspetti legati alla fede, alla purezza, all'etica cavalleresca e soprattutto legate alla nascita delle nazioni e delle indipendenze comunali, che erano usate come fondamento delle rivendicazioni indipendentiste dei movimenti rivoluzionari.
Anche oggi, per il Medioevo gli studi storici sono condizionati dalle deformazioni del proprio modo di pensare e delle influenze della società contemporanea.
Una suddivisione comunemente utilizzata del Medioevo è tra:
·         L’Alto Medioevo, che per convenzione va dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente, avvenuta nel 476, all'anno 1000. La carica imperiale rimase vacante dopo la deposizione di Romolo Augusto nel 476. L'impero bizantino mantenne la sovranità nominale sui territori appartenuti all'impero d'Occidente e molte delle popolazioni germaniche che vi si erano stanziate riconobbero formalmente l'autorità del sovrano di Costantinopoli. La restaurazione bizantina in Italia mirò al controllo del papato, nell'ottica del tradizionale cesaropapismo orientale, suscitando la viva opposizione dei pontefici. Alla fine dell'VIII secolo, dopo le invasioni barbariche e la breve riconquista operata da Giustiniano, si erano consolidati il regno dei franchi a Occidente; il regno dei Longobardi nell'Italia settentrionale; l'Impero Bizantino nel sud dell'Italia e nei Balcani. La Chiesa si riorganizzò e grazie al prestigio politico e morale e all'accentramento esercitò un fermo controllo sulla popolazione. L'unità dell'impero carolingio fu ben presto minata dalle lotte fra i successori e dalle spinte disgregatrici delle aristocrazie.
·         Basso Medioevo che intende il periodo della storia europea compreso tra il 1000 e la scoperta dell'America nel 1492.

8. L’Alto Medioevo - Il periodo compreso tra il V e l’XI secolo è uno dei momenti più bui della storia d’Europa.
Il significato storico dei secoli di imbarbarimento che costituiscono l’Alto Medioevo è però ambivalente: mentre da una parte essi rappresentano la frattura con la civiltà classica i cui valori sembrano andare perduti per sempre, dall’altra, invece, grazie all’assimilazione di vari elementi, si attua la laboriosa gestazione di una nuova civiltà, del tutto originale, la civiltà europea che, progredendo e sviluppandosi, imporrà poi la sua egemonia sul mondo.
La morte dell’Imperatore Teodosio nel 395 segnò la definitiva sepa­razione delle province occidentali, di lingua e cultura latina, da quelle orientali, ed il conseguente rapido declino dell’Impero roma­no d’Occidente, meno abitato, me­no urbanizzato, meno civile, me­no ricco di risorse rispetto a quel­lo d’Oriente o bizantino. I sintomi dell’imminente dissoluzione dell’Impero già si delineavano:
·         nel 406 le difese della frontiera renana cedettero;
·         nel 410 Roma fu saccheggiata una prima volta da parte dei Visigoti di Alarico, i quali però, già cristianizzati, rispettarono gli edifi­ci religiosi;
·         nel 455 fu saccheggiata di nuovo da parte dei Vandali di Genserico che le infersero i colpi più gravi;
·         nel 476, deposto l’ultimo Imperatore romano da Odoacre, re degli Eruli, l’Impero d’Occidente cadde definitivamente e nuclei di popola­zioni germaniche (Goti, Vandali, Franchi) si insediano sul territo­rio imperiale, dando vita ai cosiddetti regni romano-barbarici[12].

Le condizioni dell’Italia nel VI secolo dalla Storia dei Longobardi di Paolo Diacono
In quei tempi scoppiò una pestilenza gravissima che colpì soprattutto la provincia di Liguria […].
Dappertutto era lutto, dappertutto lacrime. Poichè si era sparsa la voce che fuggendo si poteva scampare al flagello, le case venivano abbandonate dagli abitanti e solo i cani vi restavano a fare la guardia. Le greggi rimanevano da sole nei pascoli, senza più pastore. Le tenute e i castelli prima pieni di folle di uomini, il giorno dopo, fuggiti tutti, apparivano immersi in un silenzio totale. Fuggivano i figli, lasciando insepolti i cadaveri dei genitori; i genitori, dimenticati l’amore e la pietà, abbandonavano i figli in preda alla febbre […]. Non c’era traccia di uomini per le strade, non si vedeva nessuno che colpisse, eppure i cadaveri dei morti giacevano a perdita d’occhio. I pascoli si erano trasformati in luoghi di sepoltura per gli uomini e le case degli uomini in rifugi per le bestie. Questi mali colpirono solo i Romani e l’Italia, fino ai confini con le genti alamanne e bavare.
Alboino, in procinto di partire per l’Italia, chiese aiuto ai suoi vecchi amici Sassoni, per avere un maggior numero di uomini con cui invadere e occupare il vasto territorio italiano. Più di ventimila Sassoni, con donne e bambini, accorsero al suo appello, per andare con lui in Italia. Quando lo seppero, Clotario e Sigeperto, re dei Franchi, fecero trasferire gli Svevi ed altre genti nelle terre da cui erano usciti i Sassoni.
Allora Alboino assegnò le sue sedi, cioè la Pannonia, ai suoi amici Unni, con il patto che, se in qualsiasi momento i Longobardi si fossero trovati nella necessità di tornare, avrebbero riavuto indietro le loro terre. I Longobardi dunque, lasciata la Pannonia, si mossero con le mogli, i figli e tutti i loro beni, per impossessarsi dell’Italia. In Pannonia erano rimasti quarantadue anni. Ne uscirono nel mese di aprile, nella prima indizione, il giorno dopo la santa Pasqua, la cui festa, secondo il computo, cadde quell’anno il primo di aprile, trascorsi già cinquecentosessantotto anni dall’incarnazione del Signore.

9. Le grandi trasformazioni sociali e politiche dell’Alto Medioevo: le monarchie romano-barbariche.
a) Decadenza della città – Roma, imponendo il suo dominio politico sull’Europa occidenta­le, vi introdusse quella civiltà urbana, lì sconosciuta, che aveva invece caratterizzato tanto la Grecia quanto i grandi imperi dell’antichità.
Per civiltà urbana si intende che la città era il luogo delle decisioni politiche e amministrative, degli scambi commerciali e culturali, la residenza usuale dei detentori del potere, mentre alla campagna era assegnata una posizione subalterna in tutti questi campi, an­che se essa rappresentava la principale e quasi unica produttrice di ricchezza.
Il mo­dello di vita cittadina, portato dai legionari romani, si diffuse rapidamente nei paesi europei conquistati. Fu un processo che toccò il suo apice nel II secolo d.C., per av­viarsi poi alla progressiva decadenza.
Fra le cause di questa decadenza ai possono individuare molteplici fattori, ma la ragione principale sta nell’effettiva inconsistenza dell’economia legata alla civiltà urbana. Nell’Occidente, a differenza dell’Oriente, la città fu un organismo esclusivamente parassitario: essa[24] non era produttrice di ricchezza e tanto meno di ricchezza per un vasto mercato. Di qui la debolezza della civiltà urbana romana, debolezza che condizionò negati­vamente anche la potenza militare dell’Impero d’Occidente, gli impedì di resistere alla pressione dei barbari e, assieme ad altre cause, ne determinò la fine.
Le invasioni dei Germani, le scorrerie degli Unni e degli Ungari, accelerarono il processo di decadenza della città fino a portare, in molti casi, alla sua scomparsa materiale e comunque alla fine della sua posizione di predominio come centro politico, culturale ed eco­nomico.
b) La società rurale - È stato detto che l’Impero Romano d’Occidente non morì di mor­te naturale, ma fu assassinato dai barbari. L’affermazione è vera nel senso che essa efficacemente sottolinea la violenta frattura verificatasi con la civiltà precedente: senza le invasioni germaniche e le devastanti incursioni di altre popolazioni barbariche che distrussero la struttura materiale su cui si fondava la civiltà latina in Occidente, non si spiegherebbe la totale scomparsa di quella civiltà urbana che l’aveva caratterizzata dal­la Spagna al Reno, dalla Britannia alle sponde settentrionali dell’Africa; questa società lasciò il posto ad una società che ebbe i suoi centri politico-amministrativi, commer­ciali e culturali fuori delle città, nelle villae, le estese tenute dei grandi proprietari fon­diari, nei monasteri, nelle abbazie e nei castelli, residenza dell’aristocrazia guerriera che deteneva il potere sui paesi conquistati. Le villae nella tarda antichità divennero le grandi proprietà rurali incentrate su una corte (la riserva) e altre terre dipendenti dalla medesima azienda chiamate mansi (o massarici). In alcune regioni, e sempre più a partire dall’VIII secolo, il termine acquistò il senso territoriale di villaggio o di distretto politico.
Intorno a questi centri si addensa­va la popolazione rurale: era una società che, per la forte regressione della produzione e degli scambi e la ridotta circolazione monetaria, si basava esclusivamente, con poche eccezioni, su un’agricoltura che operava in condizioni di estrema povertà e vedeva ridursi progressivamente le sue potenzialità in terre coltivate e in braccia lavora­tive.
La popolazione, decimata, più che dalle guerre, dalle epidemie e dalle carestie che le accompagnavano, toccò livelli bassissimi: nell’VIII secolo la popolazione dell’Italia non doveva superare i 4 milioni, mentre nel V secolo era di quasi 8 milioni.
Le terre coltivate erano divorate dalle selve che assediavano sempre più da vicino gli insediamenti umani rarefacendo i loro reciproci rapporti e dalle paludi, costituitesi per il dilagare e il ristagnare delle acque non più regolate. L’incolto e la foresta dominavano il paesaggio di questi secoli.
In queste condizioni l’agricoltura, utilizzando tecniche e strumenti primitivi, riusciva a stento, pur integrata dalla caccia, dalla pesca e dall’allevamento brado, a soddisfare i bisogni di sussistenza: il misero mantenimento dei contadini, dopo che erano state soddi­sfatte le esigenze della classe dominante, cioè i guerrieri e gli ecclesiastici.

I Germani dalla Germania di Tacito
Personalmente inclino verso l'opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania non siano contaminati da incroci con gente di altra stirpe e che si siano mantenuti una razza a sé, indipendente, con caratteri propri. Per questo anche il tipo fisico, benché così numerosa sia la popolazione, è eguale in tutti: occhi azzurri d'intensa fierezza, chiome rossicce, corporature gigantesche, adatte solo all'assalto. Non altrettanta è la resistenza alla fatica e al lavoro; incapaci di sopportare la sete e il caldo, ma abituati al freddo e alla fame dal clima e dalla povertà del suolo.
[…]
Neppure il ferro abbonda, a giudicare dal tipo di armi. Pochi usano spade e lance d'una certa lunghezza: portano delle aste o, per dirla col loro nome, delle framee, dal ferro stretto e corto ma tanto aguzze e maneggevoli che possono impiegare la stessa arma, secondo occorrenza, in combattimenti da vicino e da lontano. Anche i cavalieri si limitano ad avere scudo e framea; i fanti lanciano anche proiettili, molti ciascuno, e li scagliano a grande distanza, a corpo nudo o coperti d'un mantello leggero. Non ostentano ornamenti militari; soltanto gli scudi li tingono di colori vistosi. Pochi indossano corazze, pochissimi poi un elmo di cuoio o di metallo. I cavalli non spiccano né per bellezza né per velocità. Neppure li addestrano a fare volteggi, come da noi: portano i cavalli in linea retta o fanno eseguire loro una conversione a destra con un allineamento così compatto che nessuno resta indietro. Ad una valutazione globale, è più forte la fanteria; e per questo combattono mescolati, perché si uniforma armonicamente alla battaglia equestre la velocità dei fanti, scelti fra tutti i giovani e disposti in prima fila. Anche il loro numero è prestabilito: cento per ogni distretto, e appunto questo è il nome che li indica fra loro, sicché quello che dapprima era un numero diventa un titolo d'onore. La schiera si dispone a cunei. L'indietreggiare, purché si contrattacchi, lo considerano saggia tattica piuttosto che segno di paura. Anche nelle battaglie d'esito incerto, portano indietro i corpi dei caduti. L'onta peggiore è abbandonare lo scudo e a chi così si sia disonorato non si concede più di presenziare ai riti o di intervenire alle assemblee, tanto che molti scampati alla guerra posero fine al loro disonore con un laccio al collo.
[…]
Scelgono i re per nobiltà di sangue, i comandanti in base al valore. I re non hanno potere illimitato o arbitrario e i comandanti contano per l'esempio che danno, non perché comandano, facendosi ammirare, se sono coraggiosi, se si fanno vedere innanzi a tutti, se si battono in prima fila. D'altronde, mettere a morte, imprigionare, sferzare è concesso solo ai sacerdoti e ciò non per punizione o per ordine del comandante, ma come per imposizione del dio che credono presente fra i combattenti. Portano in battaglia immagini di belve e simboli divini tratti dai boschi sacri, e - cosa che più d'ogni altra sprona al coraggio - la formazione di uno squadrone di cavalleria o di un cuneo avviene non per casuale raggruppamento, ma in base alle famiglie e ai clan; i loro cari stanno nei pressi, da dove possono udire le urla delle donne e i vagiti dei bambini. Questi i testimoni più sacri; da loro la lode più ambita: presentano le ferite alle madri, alle mogli, che hanno l'animo di contarle e di esaminarle; ed esse recano ai combattenti cibi ed esortazioni.
[…]
Si ha ricordo di eserciti, ormai sul punto di ripiegare e di cedere, rinsaldati dalle insistenti preghiere delle donne che mostravano il petto e che indicavano loro lo spettro dell'imminente schiavitù; schiavitù che temono per le loro donne assai più che per sé, tanto che si sentono più saldamente vincolate quelle popolazioni dalle quali si pretendono, come ostaggi, anche nobili fanciulle. Attribuiscono anzi alle donne un che di sacro e di profetico e non ne sottovalutano i consigli o ne disattendono i responsi.
[…]
Sulle questioni di minore importanza decidono i capi, su quelle più importanti, tutti; comunque, anche quelle di cui è arbitro il popolo subiscono un preventivo esame da parte dei capi. Si radunano, tranne casi di improvvisa emergenza, in giorni particolari, nel novilunio o nel plenilunio, perché credono che siano i periodi più favorevoli per prendere iniziative. Non contano il tempo, come noi, per giorni, ma per notti; con tale criterio fissano date, così si accordano: per loro è la notte che guida il giorno. Dal loro spirito di libertà deriva questo inconveniente, che non si presentano alle riunioni contemporaneamente, come dietro comando, ma perdono due o tre giorni per l'attesa dei partecipanti. Quando la massa dei convenuti lo ritiene opportuno, siedono in assemblea, armati. Il silenzio viene imposto dai sacerdoti che, in quelle occasioni, hanno anche il potere di reprimere. Quindi prendono la parola i re o i capi, secondo l'età, la nobiltà, la gloria militare e l'abilità oratoria e li stanno ad ascoltare più per l'autorevolezza che hanno nel persuadere che per l'autorità. Se le idee espresse non piacciono, manifestano disapprovazione con mormorii; se invece piacciono, battono insieme le framee: il plauso espresso con le armi è il più onorevole.
[…]
In battaglia poi è disonorevole per un capo lasciarsi superare in valore ed è disonorevole per il seguito non eguagliare il valore del capo. Inoltre costituisce un'infamia e una vergogna, che dura per tutta la vita, tornare dal campo di battaglia, sopravvivendo al proprio capo: difenderlo, proteggerlo, attribuire a sua gloria anche i propri atti di valore è l'impegno più sacro: i capi combattono per la vittoria, il seguito per il capo. Se la tribù in cui sono nati intorpidisce nell'ozio di una lunga pace, molti giovani nobili raggiungono volontariamente le tribù che al momento sono impegnate in qualche guerra, sia perché la gente germanica non ama la pace, sia perché più facilmente si acquista fama in mezzo ai pericoli, e si può mantenere un grande seguito solo con la forza e la guerra. Dalla generosità del capo pretendono quel cavallo adatto alla guerra o quella cruenta framea vittoriosa; infatti cibo e imbandigioni, non raffinati ma abbondanti, valgono come paga. I mezzi per largheggiare in doni derivano dalle guerre e dai saccheggi. È ben più difficile indurli ad arare la terra e ad aspettare il raccolto dell'anno che a provocare il nemico e a guadagnarsi ferite; pare anzi loro pigrizia e viltà acquistare col sudore quanto possono avere col sangue.
[…]
Il vestito, per tutti, è un corto mantello allacciato da una fibbia o, in mancanza, da una spina; il resto del corpo è nudo e passano intere giornate accanto al focolare acceso. I più ricchi si distinguono per una sottoveste, non ampia, come hanno Sarmati e Parti, ma attillata, e che mette in rilievo le forme. Indossano anche pelli di fiere: senza voler apparire eleganti quelli vicini ai fiumi, come segno di raffinatezza invece quelli dell'interno, dove il commercio non porta alcun lusso. Questi ultimi scelgono gli animali adatti, li scuoiano e poi ne screziano le pellicce con pezzi di pelle di altri animali, che l'Oceano più lontano o il mare sconosciuto danno alla luce. Analogo a quello degli uomini è l'abbigliamento delle donne, salvo che queste si coprono spesso con mantelli di lino ricamati di porpora e non allungano la parte superiore della tunica a formare delle maniche; hanno braccia e avambracci scoperti e rimane scoperta anche la parte superiore del petto.
[…]
Per altro i rapporti coniugali sono severi e, nei loro costumi, nulla v'è che meriti altrettanta lode. Infatti, quasi soli fra i barbari, sono paghi di una sola moglie, salvo pochissimi, e non per sete di piacere, ma perché, a causa della loro nobiltà, sono oggetto di molte offerte di matrimonio. La dote non la porta la moglie al marito, ma il marito alla moglie. Intervengono i genitori e i parenti e valutano i doni, scelti non per soddisfare i piaceri femminili o perché se ne adorni la nuova sposa, ma consistenti in buoi, in un cavallo bardato, in uno scudo con framea e spada. Come corrispettivo di tali doni si riceve la moglie, che, a sua volta, porta qualche arma al marito: questo è il vincolo più solido, questo l'arcano rito, queste le divinità nuziali. E perché la donna non si creda estranea ai pensieri di gloria militare o esente dai rischi della guerra, nel momento in cui prende avvio il matrimonio, le si ricorda che viene come compagna nelle fatiche e nei pericoli, per subire e affrontare la stessa sorte, in pace come in guerra: questo significano i buoi aggiogati, questo il cavallo bardato, questo il dono delle armi. Così deve vivere, così morire: sappia di ricevere armi che dovrà consegnare inviolate e degne ai figli, che le nuore riceveranno a loro volta, per trasmetterle ai nipoti.
Vivono dunque in riservata pudicizia, non corrotte da seduzioni di spettacoli o da eccitamenti conviviali. Uomini e donne ignorano egualmente i segreti delle lettere. Rarissimi, tra gente così numerosa, gli adulteri, la cui punizione è immediata e affidata al marito: questi le taglia i capelli, la denuda e, alla presenza dei parenti, la caccia di casa e la incalza a frustate per tutto il villaggio. Non esiste perdono per la donna disonorata: non le varranno bellezza, giovinezza, ricchezza, per trovare un marito. Perché là i vizi non fanno sorridere e il corrompere e l'essere corrotti non si chiama moda. Ancora più austere sono le tribù in cui solo le vergini si sposano e la speranza e l'attesa del matrimonio si appagano una volta sola. Un solo marito ricevono così come hanno un solo corpo e una sola vita, perché il loro pensiero non vada oltre e non si prolunghi il desiderio e perché amino non tanto il marito, bensì il matrimonio. Limitare il numero dei figli o ucciderne qualcuno dopo il primogenito è considerata colpa infamante e lì hanno più valore i buoni costumi che non altrove le buone 
In ogni casa crescono nudi e sporchi, per poi svilupparsi in quelle membra e in quei corpi che tanto ammiriamo. Ogni madre allatta al seno i propri figli e non li affida ad ancelle o nutrici. Impossibile distinguere il padrone o il servo da cure particolari nell'educazione. Vivono tra il medesimo bestiame e sullo stesso terreno, finché l'età separa i giovani nati liberi e il valore li fa conoscere tali. I rapporti sessuali non sono precoci e quindi la loro virilità è inesauribile. Non c'è fretta di far sposare le giovani; identico ai maschi è il vigore giovanile, simile la statura: si maritano quando hanno prestanza e robustezza pari al loro compagno e i figli rinnovano la forza dei genitori. Lo zio materno tiene nella stessa considerazione di un padre i figli delle sorelle. Certe tribù privilegiano questo legame di sangue e, quando ricevono ostaggi, lo preferiscono, perché, secondo loro, i nipoti impegnano più in profondo gli affetti e in modo più esteso la famiglia. Gli eredi dei beni e i successori sono però i figli che ciascuno ha e non si fanno testamenti. In mancanza di figli, subentrano, in ordine di successione, i fratelli, gli zii paterni e gli zii materni. Più numerosi sono i parenti di sangue e acquisiti, più onorata è la vecchiaia; e a non aver eredi non c'è vantaggio alcuno.
[…]
Gli schiavi per altro non li impiegano, come noi, assegnando loro compiti precisi: ciascuno di essi è libero di regolare a suo piacere la propria abitazione e la propria famiglia. Il padrone pretende una certa quantità di frumento, di bestiame o di tessuto, come da un colono, e lo schiavo, entro questi limiti, deve obbedire; al resto delle incombenze domestiche provvedono la moglie e i figli del padrone. Raro è il caso di uno schiavo picchiato, messo in prigione o spedito ai lavori forzati. Capita che lo uccidano, non in nome della disciplina o per severità, ma in un impeto d'ira, come un nemico personale, e con la differenza che il gesto resta impunito. I liberti sono in condizione non migliore degli schiavi e raramente hanno qualche influenza nelle faccende private, mai nella vita pubblica, salvo per quelle popolazioni che hanno un re. Là salgono più in alto dei liberi e dei nobili: presso tutte le altre popolazioni l'inferiorità dei liberti è prova che esiste la libertà.

L’inizio dell’iconoclastia dalla Cronografia di Teofane
In quell’anno[723], un giudeo proveniente da Laodicea, sulla costa fenicia, un ciarlatano imbroglione, si recò da Izìd e gli assicurò che, se avesse eliminato le sacre immagini venerate nelle chiese cristiane di tutto il territorio a lui soggetto, avrebbe dominato sugli arabi per quarant’anni. Lo sciocco Izìd gli prestò fede ed emanò un decreto universale contro le sante immagini: ma per grazia di nostro Signore Gesù Cristo e per le intercessioni della Sua immacolata Madre di tutti i Santi, Izìd morì in quello stesso anno e così il suo demoniaco editto non giunse neppure alle orecchie della gente.
Gli subentrò tuttavia in questa ripugnante, scellerata eresia, l’imperatore Leone, la causa di molti nostri mali. E in questa ottusa ignoranza Leone ebbe al fianco un tale di nome Bezér. Si trattava di un cristiano che, fatto prigioniero dagli Arabi in Siria, aveva abiurato alla propria fede per aderire alle credenze dei suoi nuovi padroni: poi liberato dalla schiavitù poco tempo addietro, aveva assunto la cittadinanza bizantina, e si era guadagnato la stima di Leone per la sua forza fisica e la sua convinta adesione all’eresia, tanto da divenire il braccio destro dell’imperatore in questa così vasta e malvagia impresa.
In tali insani propositi si riconosceva anche un uomo traboccante di ogni dissolutezza e nutrito della stessa rozza stupidità: il vescovo di Nacoleia.
In quell’anno l’empio imperatore Leone cominciò a parlare della distruzione delle sacre e venerande immagini. Quando il papa di Roma, Gregorio, lo apprese, bloccò i tributi italiani e romani a Costantinopoli, e scrisse a Leone una lettera di contenuto dogmatico: in essa si affermava che l’imperatore non doveva affrontare discorsi in materia di fede e introdurre mutamenti negli antichi dogmi della chiesa tramandati dai santi Padri.

Bellezza dalle Poesie di Ibn Hamdis
Ci affascinano le belle che muovono gli occhi
di gazzella in visi rotondi come lune.

Dalle chiome fluenti, dall'incedere aggraziato,
dai glutei pieni, dalla vita sottile.

La fresca giovinezza
profuma la loro bocca dalle labbra di corallo,
dai denti di perla,
come quando lo zefiro, impregnato di abir,
scorre sulla rosa e sulla camomilla.

10. Eclisse del primato dell’Occidente – La degradazione dell’Europa, ridotta a paese spopo­lato e selvaggio, dominato da un’aristocrazia turbolenta e ribelle ad ogni forma di ordine costituito, dove erano scomparse anche le vestigia della civiltà classica, comportò la perdita del primato dell’Occidente, come conseguenza della impotenza di Roma.
Nel periodo che va dal V all’XI secolo, le civiltà più fulgide ed evolute, gli organismi statali più vasti e potenti avevano i loro centri altrove: a Bisanzio, a Damasco e Bagdad, capitali dell’Islam, in Cina ed in India.
L’Europa, prostrata, a stento riusciva a difendere la sua indipendenza dagli assalti e dalla penetrazione dell’Islam e solo faticosamente riuscì a riprendersi, a cominciare dal XII secolo.
Quanto a Roma, anziché parlare d’eclissi del suo primato politico, è più preciso parlare di tramonto, in quanto essa non riuscirà più a conseguire la perduta posizione di primaria potenza mondiale. Di essa sopravvivrà però, lungo tutto il Medioevo, il vivo ed af­fascinante ricordo cui ci si richiamerà come ad un ideale di ordine civile e di grandezza politica da riconquistare. La Chiesa di Roma se ne considerò l’erede e an­che su questo fondò la sua rivendicazione di universalità.
a) I Germani e i regni romano-barbarici - Le infiltrazioni prima e le invasioni poi dei popoli germanici (Visigoti, Ostrogoti, Franchi, Sassoni, Burgundi, Longobardi e altri) portarono sulla scena europea un fattore nuovo che, insieme con ­la civiltà classica e con il Cristianesimo, contribuì alla formazione della nuova civiltà.
Fu una comparsa drammatica che sembrò sommergere totalmente la civiltà precedente e mandò in pezzi l’unità politica dell’Europa occidenta­le, base di tale civiltà.
Vi si sostituì una molteplicità di stati autonomi che prefigurava così la condizione politica della futura Europa.
I regni romano-barbarici si erano formati nelle ex province romane dalle invasioni del V secolo ed, inizialmente, erano stati formalmente dipendenti dall'impero.
Il regno era l'unica istituzione politica nuova elaborata dagli invasori, ma il regno barbarico non conobbe la separazione dei poteri, concentrati tutti nelle mani del re che li aveva acquisiti per diritto di conquista, al punto che la cosa pubblica tendeva a confondersi con la sua proprietà personale e la stessa nozione di regno con la persona di chi esercitava il potere politico ed assicurava la protezione militare dei sudditi, dai quali esigeva in cambio fedeltà. La monarchia dei popoli barbarici non fu territoriale bensì nazionale, ossia rappresentò chi era nato nella stessa tribù.
Nonostante il ruolo distruttivo che spesso i popoli invasori svolsero sulle terre invase, quasi tutti i nuovi regni furono estremamente vulnerabili. Alcuni, come quelli dei Burgundi o degli Svevi (Suebi), furono assimilati dai vicini; altri, come quelli dei Vandali o degli Ostrogoti, crollarono sotto l'offensiva di Bisanzio, che tentò di ricostruire l'unità dell'impero. Quelli dei Visigoti in Spagna e dei Franchi nelle ex province galliche invece sopravvissero, sia per la rapida integrazione tra le popolazione dei residenti e gli invasori, sia per la collaborazione con la Chiesa e con esponenti del mondo intellettuale latino.
In tutti questi regni l’esercito, cioè il potere effettivo, era nelle mani dei Germani con­quistatori, mentre le istituzioni giuridiche e amministrative romane continuavano a sopravvivere, anche se lo spirito che le animava non era più lo stesso, ma era quello che discendeva dalla cultura agraria e guerriera della gente ger­manica.
Altri importanti regni romano-barbarici furono:
·         il regno dei Franchi[13], nel nord dell’attuale Francia, da cui nascerà, con la dinastia dei Carolingi, il più importante orga­nismo statale dell’Europa;
·         il regno dei Visigoti[14], nella Francia occidentale e in Spagna, che fu quasi totalmente spazzato via nell’VIII secolo dagli Arabi;
·         il regno dei Vandali[15], in Africa settentriona­le (Tunisia e Algeria), che nel VI secolo fu abbattuto dai Bizanti­ni nel quadro dell’opera di ricostituzione dell’unità mediterranea da parte di Giustiniano.
La violenta intrusione dei Germani apportò al mondo occidentale nuovi costumi, nuovi istituti, una diversa concezione del potere e della libertà personale e anche una nuova, prorompente vitalità. Questi elementi concorsero a dare alla civiltà europea la sua novità e la sua caratteristica di varietà, di ricchezza di articolazione e di voci, che mancarono alla ben più raffinata civiltà bizantina, che, al riparo da questa trau­matica frattura col passato, venne esaurendosi in se stessa, tanto che nei quasi dieci secoli in cui sopravvisse all’Impero d’Occidente non creò nulla di paragona­bile a ciò che l’Europa produsse dal XIII al XV secolo.
b) L’Italia barbaricaIn Italia nacque il regno di Odoacre (476-493), di origine germanica, servì l’impero romano sotto diversi capi militari, ma si ribellò nel 476. Uccise Oreste e depose il figlio di questi Romolo Augustolo. Fu acclamato dalle truppe barbariche e governò l’Italia finché fu assediato a Ravenna dal re degli ostrogoti Teodorico, che lo fece uccidere.
Al regno di Odoacre seguì il regno degli Ostrogoti (493-533). Gli Ostrogoti erano una popolazione germanica attestata nel III secolo d.C. nella Russia meridionale. Legati agli unni tra IV e V secolo, si stanziarono in seguito tra Pannonia e Norico, dove strinsero patti con l’Impero d’Oriente, che nel 488 li dirottò verso l’Italia, sotto la guida di Teodorico, figlio e successore di Teodomiro.
Vissuto a lungo alla corte bizantina come ostaggio, Teodorico, tra il 489 e il 493, con l’appoggio dell’imperatore Zenone, conquistò l’Italia, sconfiggendo Odoacre. Impostò una pacifica convivenza e collaborazione tra le aristocrazie gota e latina incaricate rispettivamente dell’attività militare e di quella amministrativa, perseguendo un progetto di egemonia sulle stirpi germaniche insediate nei territori dell’impero, in concorrenza con le aspirazioni politiche dei franchi e di Bisanzio. Questa ambiziosa politica ebbe però fine con la sua morte. Già nei suoi ultimi anni egli era entrato in duro contrasto con la gerarchia cattolica. La sua figura ebbe grande rilievo nelle leggende germaniche medievali.
Gli Ostrogoti costituirono in Italia un regno autonomo con capitale a Ravenna che resistette fino alla guerra devastante greco-gotica (535-553).
La guerra greco-gotica fu combattuta fra Bizantini ed Ostrogoti per il dominio sull’Italia. Per la ricostruzione dell’impero, Giustiniano inviò nella penisola un’armata guidata da Belisario, che riconquistò la Sicilia e Roma nel 536, ma solo dopo molte difficoltà riuscì a prendere anche Ravenna nel 540 e a catturare il re Vitige.
La guerra riprese sotto il nuovo re ostrogoto Totila nel 541, che riconquistò tutto il territorio tranne Ravenna. Soltanto con l’arrivo del generale Narsete nel 552 i bizantini riuscirono a sconfiggerlo e a ucciderlo, battendo poi anche il successore Teia. Stermini, assedi e razzie ebbero conseguenze disastrose per l’Italia.
Una più netta frattura con la civiltà latina si ebbe con l’ultima invasione germanica, quella dei Longobardi del 568. Gli eccidi, le razzie, le distruzioni che accompagnarono l’occupazione violenta, il protratto conflitto con i Bizantini che ave­vano precedentemente riconquistata l’Italia con la guerra greco-gotica; l’anarchia dei capi Longobardi, i duchi, portarono l’Italia alle massima prostrazione. Solo in seguito allo stabilizzarsi della situazione politica e della conversione dei Longobardi al cattolicesimo, la condizione degli Italiani migliorò. L’invasione dei Longobardi e la loro incapacità di occupare tutta la penisola ebbero co­me conseguenza la fine dell’unità politica dell’Italia.
I Longobardi erano una popolazione originaria della Germania settentrionale, si insediò nell’area danubiana alla fine del V secolo. Dopo aver brevemente partecipato come mercenari dei bizantini alla guerra greco-gotica, nel 568 iniziarono l’invasione dell’Italia, conquistando, tra VI e VII secolo, la pianura padana, la Toscana e l’area tra Spoleto e Benevento; il territorio italiano fu così segnato da numerose fratture territoriali tra le dominazioni longobarde e bizantine, divise anche dalle differenze religiose.
Distrussero il vecchio ceto senatoriale ed esclusero dal potere la popolazione romana, mentre probabilmente i due gruppi etnici si assimilarono abbastanza rapidamente. Persero in breve tempo le caratteristiche di nomadismo, si insediarono per tribù, guidate da duchi, con una continua tendenza a distaccarsi dal potere regio. I re quindi, tra VI e VII secolo, operarono per affermare la propria superiorità e creare uno stato unitario. In questo processo rientrarono la creazione di una capitale stabile, Pavia, e la redazione dell’editto di Rotari nel 643, prima legislazione scritta longobarda, che unì consuetudini germaniche e alcuni accenni del diritto romano. Questa azione unificatrice del regno non ebbe mai pieno successo e fu in ogni caso limitata alla pianura padana e alla Toscana, mentre i ducati meridionali mantennero un’ampia autonomia.
Si realizzò nel contempo un avvicinamento politico e culturale al mondo romano e al papato, che, pur tra grandi resistenze, fu sancito nella prima metà del VII secolo dalla conversione al cattolicesimo.
Tuttavia continuarono, nel secolo successivo, i contrasti tra il regno, che aspirava alla conquista del Lazio, e il papato, che iniziava in questo periodo a costruire una propria dominazione politica attorno a Roma. Fu decisivo, a metà dell’VIII secolo, l’intervento militare del re franco Pipino, che obbligò i longobardi a restituire al papato alcune terre conquistate. Questo intervento franco fu una premessa dell’invasione di Carlo Magno nel 774, che segnò la fine del regno longobardo. Restò indipendente, seppur formalmente sottomesso ai Carolingi, il ducato di Benevento, dove si realizzarono autonomi sviluppi sociali e politici fino alla conquista normanna.
c) L’Impero Bizantino  L’Impero Romano d’Oriente[16], più comunemente chiamato Impero Bizantino, riuscì a sostenere vittoriosamente l’urto dei popoli slavi e germanici e, nell’VIII secolo, quello ancor più pericoloso degli Arabi che assediarono ben due volte Costantinopoli. Le ragioni di questa sua resistenza vanno trovate nella maggiore solidità della sua economia urbana sostenuta da un consistente traffico commer­ciale, reso sicuro dal dominio bizantino del mare, e da una produzione industriale cit­tadina. Queste condizioni assicurarono stabilità per secoli al bisante[17], la moneta bizantina, indice di una situazione finanziaria sana.
Il punto di partenza della civiltà bizantina fu proprio l’Impero romano in crisi. La nuova capitale, trasferita nell’oriente mediterraneo nel 330 d.C., era stata costruita sul modello dell’Urbe e fu proprio Costantinopoli[18] a divenire la novella Roma tenendo così in vita fino al XV secolo, pur nelle sostanziali differenze ideologiche, le grandi tradi­zioni ereditate da Roma.
Il trasferimento della capitale dell’Impero a Bisanzio fu dunque un avvenimento determinante: alla nuova capitale si volle conferire l’aspetto dell’antica Roma, perciò furono intrapresi grandiosi lavori per i quali arrivarono pittori, scultori, architetti dalla Siria e da altre province dell’Asia Minore. La nuova capitale si arricchì in breve di nuove mura, di una grande piazza e di molti edifici pubblici. Nacque dunque una Roma novella, in cui Costantino volle conciliare il potere imperiale e quello della religione cristiana, da poco riconosciuta uffi­cialmente.
Verso il VI secolo, ad opera dell’Imperatore Giustiniano[19] (527-565), Bisanzio tentò di ricostituire l’unità politica del Mediterraneo e riuscì a riconquistare le coste settentriona­li dell’Africa, le coste meridionali della Spagna, l’Italia e le sue isole, strappandole rispettivamente ai Vandali, ai Visigoti e agli Ostrogoti.
La guerra per la conquista dell’Italia fu lunga (535-553) e rovinosa e la dominazione bizantina che la seguì, inter­rotta dall’invasione dei Longobardi nel 568, fu caratterizzata da rapine e vessazioni. Ciò nonostante, dove i Bizantini resistettero, ricacciando i Longobardi, e in particolare a Ravenna e a Roma, la domi­nazione bizantina mantenne un legame con l’Impero d’Oriente che rappresentava l’organizzazione statale, il mondo civile, la cultura antica.
Bisanzio, per quasi dieci secoli, assolse il compito di baluardo della cristianità contro l’Islam, contrappose alla rozza Europa un centro di splendida raffinata civiltà, operò come agente dì diffusione del Cristianesimo tra i popoli slavi, conservò le testimonianze della letteratura e della scienza greca che i suoi dotti portarono in Italia ai letterati umanisti che si mi­sero alla loro scuola per riapprendere il greco.
d) L’avanzata dell’Islam - Tra il VII e l’VIII secolo l’Europa fu sul punto di essere soffocata dall’irrompente espansione dell’Islam.
Le tribù dell’appartata e arretrata penisola araba, unificate politicamente dalla predicazione di Maometto[20] creò come lemento propulsivo dell’Islam l’esalta­zione della fede e della legge musulmana, che dovevano essere propagate con la guerra santa[21], che garantisce il paradiso a chi muore combattendo contro gli infedeli.
Nel 632, alla morte di Maometto, fu creato l'istituto del califfato[22] che, tra il 632 e il 661, annoverò quattro successori politici di Maometto e che, per la sua strutturazione tradizionale è ancor oggi chiamato ortodosso. Nel corso di quest'epoca furono realizzate le prime conquiste della Siria-Palestina, dell'Egitto, della Mesopotamia e di parte della Persia.
Dal 661 al 750 il califfato fu gestito invece dal clan omayyade della tribù meccana dei Quraysh.
Dal 750 al 1258 il califfato fu appannaggio del clan hascemita degli Abbasidi, più strettamente imparentato al Profeta.
Già dal IX secolo però il califfato si disintegrò per le enormi dimensioni raggiunte e per le pressioni regionalistiche. Nacque una lunga serie di Stati dinastici che furono in realtà estremamente vivaci da un punto di vista sociale, economico e culturale.
Galvanizzati  da questo fanatismo religioso, gli Arabi si lanciarono alla conquista dei più civilizzati Paesi confinanti: ad oriente sino all’Indo nel 711, ad occiden­te assoggettarono le coste settentrionali dell’Africa, dominio bizantino, per passare, attraversato lo stretto di Gibilterra nel 711, alla conquista della Spagna visigota e puntare, superati i Pirenei, al cuore del regno dei Franchi. Qui li fermò, sconfiggendoli a Poitiers, Carlo Martello[23] nel 732. Quattordici anni prima era fallito, grazie alla resistenza dell’Imperatore bizantino Leone III Isaurico[24], il tentativo arabo di prendere Costantinopoli (717-18).
La cristianità era riuscita a sottrarsi all’attanagliamento dell’Islam, che tut­tavia conseguì ancora notevoli successi, come la conquista delle grandi isole che fece del Mediterraneo un grande lago musulmano, e continuò per secoli a costituire una minaccia per le pericolose incursioni contro i paesi costieri. Però nell’Europa occidentale gli Arabi non riuscirono più ad avanzare, anzi furono, sia pure lentamente, ricacciati.
Il dominio arabo, stabilitosi per alcuni secoli nel bacino del Mediterraneo (Spagna, Africa settentrionale, Sicilia, Egitto), vi consentì la fioritura di una delle più elevate ci­viltà che il mondo abbia conosciuto. In essa confluivano culture diverse che gli Arabi avevano assimilato nel corso delle loro conquiste: elementi della civiltà greca diffusasi nel periodo ellenistico in Asia minore e nel Medio Oriente ed elementi delle culture ci­nesi e indiane. Ne risultò una civiltà originale che diede i suoi frutti sia nell’ambito delle conoscenze teoriche (filosofia, matematica, astronomia) sia di quelle applicate (medicina, alchimia), con un rapido progresso delle tecniche, particolarmente nel cam­po dell’agricoltura, ma anche in quello della lavorazione delle stoffe, della carta, del cuoio, della seta, delle armi.
Nel campo artistico gli Arabi si segnalarono soprattutto nell’architettura, come testimoniano fra l’altro l’Alhambra di Granada e l’Alcazar di Siviglia.
La Sicilia, sotto la dominazione araba protrattasi fino al 1072 quando l’isola fu occupata dai Normanni, diventò una delle regioni più progredite del mondo occidentale: la tecnica applicata all’agricoltura ne aveva fatto un unico grande giardino; Palermo fu in quell’epoca una delle città più popolate e più raffinate del mondo.
Lo splendore della civiltà araba tramontò quando agli Arabi si sostituirono i Turchi, popoli di razza mongolica che, convertiti all’Islam nell’VIII secolo, a partire dal Mille conquistò progressivamente i territori occupati dagli Arabi.

I due poteri dalle Lettere di Gelasio I
Supplico la tua pietà di non considerare arroganza l’ubbidienza ai princìpi divini. Non si dica di un imperatore romano, ti prego, che egli giudichi ingiuria la verità comunicata al suo intendimento. Due sono infatti i poteri, o augusto imperatore, con cui questo mondo è principalmente retto: la sacra autorità dei pontefici e la potestà regale. Tra i due, l’importanza dei sacerdoti è tanto più grande, in quanto essi dovranno rendere ragione al tribunale divino anche degli stessi reggitori d’uomini. Tu sai certo, o clementissimo figlio, che, pur essendo per la tua dignità al di sopra degli uomini, tuttavia devi piegare devotamente il capo dinanzi a coloro che sono preposti alle cose divine, e da loro aspettare le condizioni della tua salvezza; e nel ricevere i santissimi sacramenti e nell’amministrarli come compete, tu sai che ti devi sottoporre agli ordini della religione, e non avere funzioni di capo, e che pertanto in queste questioni tu devi essere sottomesso al giudizio degli ecclesiastici e non volere che essi siano obbligati alla tua volontà. Se infatti anche gli stessi sacerdoti ubbidiscono alle tue leggi, per quel che riguarda l’ordine pubblico, sapendo che l’impero ti è stato dato per disposizione divina, e perché non sembri che persino nelle cose puramente materiali essi si oppongano a un giudicato, che esula dalla loro giurisdizione; con che sentimento, io ti chiedo, conviene che tu obbedisca a coloro che sono stati assegnati ad amministrare i divini maestri? Dunque, come sui pontefici incombe il non lieve pericolo d’aver taciuto ciò che si conviene, in rapporto al culto della divinità, così grave pericolo c’è per coloro – Dio non voglia – che serbano un atteggiamento di disprezzo, quando debbono ubbidire. E se conviene che i cuori dei fedeli siano sottomessi a tutti i sacerdoti in genere, che con giustizia amministrano le cose divine, quanto più si deve dar consenso al capo della sede apostolica, a colui che la somma Divinità volle superiore a tutti i sacerdoti, e che sempre dopo la pietà di tutta la Chiesa onorò come tale?

12. La Chiesa - Dopo l’editto di tolleranza emanato dall’Imperatore Costantino a Milano nel 313, la vita della Chiesa era stata turbata dalle lotte tra le diver­se confessioni. La funzione religiosa della Chiesa richiese che essa si desse una struttura gerarchica, amministrativa, politi­ca ed economica. Infatti il Papato ebbe sempre la necessità di gestire i rapporti con i re, gli Imperatori, ma anche con i signori a livello locale.
Per quel che riguarda l’Italia, il contrasto più importante fu quello fra cattolicesimo e arianesimo. Non si trattava di una semplice contrapposizione teologica in cui i cattolici affermavano la divinità di Cristo, figlio di Dio; e gli ariani vedevano in Cristo esclusivamente la natura umana, ma di un contrasto politico:
·         i sostenitori del cattolicesimo erano anche i sostenitori della tradizione romana e dell’autonomia della Chiesa nei confronti dell’Imperatore,
·         l’arianesimo, invece, che aveva i suoi seguaci particolar­mente fra le truppe germaniche, tendeva a sottoporre la Chiesa all’Imperatore come strumento politico.
La vittoria del cattolicesimo sull’arianesimo significò perciò il raf­forzarsi dell’autonomia della Chiesa di Roma, così che, quando l’Impero d’Occidente cadde, la Chiesa non fu coinvolta nella rovina.
Mentre l’assetto economico-culturale dell’Occidente diventava sem­pre più precario per la debolezza o l’assenza del potere politico, la Chiesa divenne sempre più un’istituzione autonoma, contemporaneamente erede dell’antica organizzazione civile e maestra dei barbari.
Già nel VI secolo la Chiesa di Roma era il maggior proprietario terriero dell’Occidente; dalle sue proprietà traeva i guadagni necessari alle opere di carità, alla sovvenzione delle Chiese locali più povere e al mantenimen­to della corte che si andava formando a Roma attorno al papa.
La corte papale, composta dai cardinali, dagli ecclesiastici che amministravano i beni e svolgevano funzioni diplomatiche, da intellettuali che scrivevano i documenti ufficiali, fu defini­ta Curia romana. Attraverso questa organizzazione i papi riuscirono a far ri­conoscere la loro diretta proprietà sul Patrimonio di San Pietro (le terre che si estendevano dal Lazio fino alla Romagna, attraverso l’Umbria e le Marche), nucleo del futuro Stato pontificio[25]; la Curia gestì an­che i difficili rapporti con l’Impero bizan­tino e il vescovo di Costantinopoli, che non riconosceva l’autorità del papa di Ro­ma, fino alla definitiva rottura.
La Curia, secondo le scelte dei papi, favorì anche le alleanze di Roma con i vari re del­la cristianità, molti dei quali accettavano di essere formalmente vassalli del papa in cambio del riconoscimento ufficiale del loro potere.
Fruendo di questo duplice prestigio, nelle città, durante i regni romano-barbarici, la Chiesain quanto erede del si­stema politico e amministrativo creato da Roma e depositaria del patrimonio culturale latino-cristiano, assunse anche il potere civile, essendo l’unica autorità sopravvissuta cui spettava il compito di fronteggiare la situazione storica, nata dal mutato rapporto tra lati­ni e barbari.
Con i Longobardi il governo delle città fu affidato ai duchi, ma nella realtà costoro furono soltanto i comandanti delle forze militari ivi stanziate ed il potere civile restò prevalentemente in mano al ve­scovo, soprattutto dopo la conversione dei Longobardi al cattolicesimo ad opera particolarmente della regina Teodolinda[26] all’inizio VII secolo.
Il duplice potere, religioso e se­colare, nelle mani degli ecclesiastici, portò alla mondanizzazione della Chiesa, fenome­no che si aggravò con l’età feudale, quando i vescovi, gli abati e i priori dei conventi assunsero anche formalmente la veste di signori.
Un’ulteriore causa della degradazione della Chiesa fu la costituzione dello Stato ponti­ficio che si sviluppò dalla donazione del castello di Sutri[27], fatta al pontefice dal re longobardo Liutprando nel 728. Trasformatosi il pontefice in un sovrano temporale, la cat­tedra di Pietro divenne l’oggetto di sfrenate e sanguinose lotte tra le grandi famiglie ro­mane. La degenerazione della Chiesa toccò il fondo tra i secoli IX e X, la cosiddetta età ferrea del Papato.
Per tutto l’alto Medioevo la Chie­sa ebbe un vero e proprio monopolio sulla cultura: fino al VII secolo gli intel­lettuali erano quasi tutti uomini di Chiesa e solo gli ecclesiastici erano in grado di leg­gere, scrivere, studiare e insegnare in strutture scolastiche, riservate a chi aveva già scelto la vita religiosa. La Chiesa ebbe quin­di il controllo della trasmissione del sape­re, in gran parte affidata all’attività degli ordini monastici e delle abbazie.
Anche quando, dal IX secolo, le richieste di istruzione si allargarono e provenivano da strati del mondo laico, fu soprattutto la Chiesa che rispose alle nuove esigenze con la creazione di scuole annesse alle se­di vescovili e alle parrocchie.

Il monaco fugga l’ozio dalla Regola di San Benedetto da Norcia
L’ozio è nemico dell’anima, e perciò i fratelli in certe ore devono essere occupati nel lavoro manuale, in altre ore nella lettura divina. Di conseguenza riteniamo che entrambe le occupazioni siano ripartite nel tempo con il seguente ordinamento: da Pasqua fino alle calende di ottobre, uscendo al mattino facciano i lavori necessari dalla prima fin quasi all’ora quarta. Poi, dall’ora quarta fino all’ora in cui faranno la sesta, attendano alla lettura. Dopo la sesta, alzandosi da tavola si riposino nei loro letti in assoluto silenzio o, se qualcuno vorrà leggere per conto suo, legga in modo da non disturbare nessuno. Si faccia nona un poco in anticipo, verso la metà dell’ora ottava, e di nuovo lavorino a quello che c’è da fare sino al vespro. Se le esigenze del luogo o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente di raccogliere le messi, non se ne affliggano, giacché allora sono veramente monaci, se vivono del lavoro delle proprie mani, come i nostri padri e gli apostoli. Tutto però sia fatto con misura, avendo riguardo per i deboli. Invece dalle calende di ottobre all’inizio della quaresima attendano alla lettura fino a tutta l’ora seconda. Dopo l’ora seconda si faccia terza e fino a nona tutti eseguano il lavoro ché viene loro assegnato. Dato poi il primo segnale dell’ora nona, ciascuno si stacchi dal proprio lavoro e stia pronto finché suonerà il secondo segnale. Dopo il pasto attendano alle proprie letture o ai salmi. Nei giorni di quaresima, dal mattino sino a tutta l’ora terza attendano alle proprie letture e sino a tutta l’ora decima eseguano il lavoro che è loro assegnato. In questi giorni di quaresima tutti ricevano dalla biblioteca un libro a testa e lo leggano ordinatamente per intero. Questi libri devono essere dati all’inizio della Quaresima.

13. I monasteri benedettini – Importanti centri di resistenza alla degradazione della vita civile furono i monasteri benedettini che si diffusero in tutta Europa a partire dalla fondazione del primo a Montecassino nel 528 ad opera di San Benedetto da Norcia (480-547). La regola[28] che egli dettò per i suoi monaci che costituivano una comunità ra­zionalmente organizzata, imponeva, accanto alla preghiera e alla meditazione, il lavo­ro manuale e intellettuale.
Dall’inizio del VI secolo la so­cietà intera fu modificata dall’impo­nente diffusione degli ordini monastici che fondarono in tutta Europa centinaia di conventi, dove si radunarono grandi mas­se di monaci.
Queste comunità si collocarono in genere nelle campagne, inizialmente su terreni loro concessi da feudatari, vescovi, re e papi; ben presto di­vennero i centri più attivi non solo dal punto di vista religioso, ma anche economico. I monasteri benedettini crearono infatti organizzate e potenti aziende agricole, alle quali si dovette il dissodamento e la bonifica di terre strappate al­le selve e alle paludi.
Molti monasteri crebbero enormemente, sia per il disso­damento di terreni resi coltivabili, sia per le continue donazioni e concessioni fatte dai signori locali; perciò fu necessaria una rigida organizzazione gerarchica, in cima alla quale si pose l’abate, il religioso che aveva il governo della comunità e dei suoi beni che, nel complesso, presero il nome di abbazia. Alcune di queste giunsero a controllare territori vasti come grandi feu­di e i loro abati esercitarono un potere pa­ri a quello di baroni o marchesi.
Accanto alla chiesa abbaziale e al convento, sorse­ro molti altri edifici: biblioteche, magazzi­ni, botteghe artigianali e anche veri opifici per la fabbricazione di merci. Molte ab­bazie ebbero anche un’importanza strate­gica e furono fortificate.
I monasteri furono i principali luoghi del­la conservazione e della trasmissione del sapere; i più importanti avevano una bi­blioteca e provvedevano, nello scriptorium, alla trascrizione e allo studio dei ma­noscritti di testi sacri, ma anche di opere profane. I monaci che operavano nello scriptorium avevano mansioni distinte ed erano spesso affiancati da amanuensi sa­lariati; diverse erano le competenze e le re­sponsabilità culturali poiché la scelta dei testi da ricopiare era di fatto una selezione delle opere che si ritenevano degne di es­sere tramandate.
Furono oasi in cui si salvò l’ideale di ordine, di vita regolata dalla legge, che costituiva la più cospicua eredità della cultura romana in un mondo in preda al disordine e alla violenza.
I monaci, più dei vescovi cittadini, ebbero il merito della conversione del­le popolazioni rurali ancora pagane, favoriti dalla vicinanza ai contadini e dalla maggior comprensione per la loro cultura e il monastero, con il declino del primato della città, prese il posto del vescovado come centro della vita religiosa e dell’organizzazione ecclesiastica; nelle biblioteche dei conventi, infine, sopravvissero i documenti della cultura antica.
I monasteri ebbero una funzione di primaria importanza per la circola­zione non solo delle idee, ma anche delle tecniche e dei linguaggi figu­rativi in tutto l’Occidente.
Nelle isole britanniche, dove dalla metà del V secolo si erano insedia­ti gli angli e i sassoni, ebbe un ruolo determinante, per il tramandarsi delle tradizioni letterarie antiche e per la produzione di opere miniate, l’apostolato dei monaci irlandesi; fra questi spicca la figura di San Colombano (540-615), infaticabile missionario e viaggiatore che fondò, fra l’altro, l’abbazia di Bobbio, centro propagatore di spiritualità ma anche di copiatura e decorazione di straordinari codici miniati.
I frequenti spostamenti dei monaci irlande­si e anglosassoni da un monastero all’altro della Britannia e del continente favorirono gli scambi e gli influssi reciproci fra i più attivi centri scrittori del continente e quelli delle isole britanniche. I monasteri divennero un luogo d’incontro e di scambio culturale tra monaci che passava­no da un’abbazia ad un’altra e nei luoghi di so­sta dei grandi pellegrinaggi.

Rinasce l’Impero dalla Vita di Leone III, del Pontificale romano 
Dopo qualche tempo lo stesso grande re, essendosi recato nella basilica del beato Pietro Apostolo dove fu ricevuto con grande onore, fece riunire nella medesima chiesa arcivescovi, vescovi, abati e tutta la nobiltà dei Franchi e dei Romani. E sedendo entrambi, tanto il grande re che il pontefice, fecero sedere anche i santissimi arcivescovi, vescovi e abati, mentre gli altri sacerdoti e gli ottimati franchi e romani rimasero in piedi, affinché tutti conoscessero i crimini che erano stati addebitati all’almo pontefice. Udendo ciò, tutti gli arcivescovi, vescovi e abati dissero all’unanimità: “Noi non osiamo giudicare la sede apostolica, che è alla testa di tutte le chiese. Infatti siamo noi ad essere giudicati da essa e dal suo vicario, mentre essa non sottoposta al giudizio di alcuno, secondo l’antica usanza. Ma poiché lo stesso sommo pontefice lo ha stabilito, secondo i canoni obbediremo”. Disse allora il venerabile presule: “Seguo le orme dei miei predecessori e sono pronto a purificarmi di tali false accuse che, con malvagità, sono sorte repentinamente contro di me”. Il giorno seguente, nella stessa basilica dal beato Pietro, alla presenza tutti gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, di tutti i Franchi che erano al seguito dello stesso grande re e di tutti i Romani, il venerabile prelato e pontefice, abbracciando i quattro santi vangeli di Cristo, davanti a tutti salì sull’ambone e sotto giuramento disse con voce chiara: “Non so nulla di questi falsi crimini che mi attribuirono i Romani che mi hanno ingiustamente perseguitato, e so di non aver fatto tali cose”. Fatto ciò, tutti gli arcivescovi, i vescovi, gli abati e tutto il clero, pronunciate le litanie, innalzarono lodi a Dio e alla nostra signora Maria madre di Dio sempre vergine e al beato Pietro, principe degli apostoli e di tutti i santi di Dio.
Dopo di che, essendo arrivato il giorno del Natale di Nostro Signore Gesù Cristo, si riunirono tutti insieme di nuovo nella medesima basilica del beato Pietro apostolo. E allora il venerabile e benefico presule incoronò [Carlo] con le sue mani con una preziosissima corona. Allora tutti i fedeli Romani, vedendo quanta protezione e amore aveva avuto per la santa Chiesa romana e per il suo vicario, per volontà di Dio e del beato Pietro possessore delle chiavi del Regno dei Cieli esclamarono all’unanimità con voce altisonante: “A Carlo, piissimo augusto coronato da Dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria!” Fu detto per tre volte, davanti alla sacra confessione del beato Pietro apostolo, invocando contemporaneamente parecchi santi; e così da tutti fu fatto imperatore dei Romani. Subito il santissimo sacerdote e pontefice unse re il suo eccellentissimo figlio Carlo con l’olio santo, nello stesso giorno del Natale di Nostro Signore Gesù Cristo.

14. Il Sacro Romano Impero - Il regno dei Franchi, che aveva riacquistato la sua unità e potenza grazie all’opera dei fondatori della dinastia carolingia[29] (Pipino di Heristal e Carlo Martello, il vincitore degli Arabi), fu, nei secoli VIII e IX, il vero centro ove si elaborò la nuova cultura medioevale.
L’alleanza fra la monarchia franca e il Papatoche fece dei Franchi la spada della Santa Sede e i difensori e organizzatori della cristianità, stette alla base della nascita di quella che fu, accanto alla Chiesa, la massima isti­tuzione medioevale: il Sacro Romano Impero[30].
Esso fu fondato da Carlo Magno[31] (742-814) con l’intento di ricostituire, al di sopra dei singoli regni, l’unità politica del continente. In realtà esso era limitato nella sua estensione a una piccola parte dell’odierna Europa: comprendeva
·         il regno dei Franchi, il regno dei Longobardi, di cui Carlo Magno assunse la corona dopo averli sconfitti,
·         il territorio dei Sassoni assogget­tati,
·         al di là dei Pirenei, la Marca spagnola, baluardo contro gli Arabi che Carlo aveva respinto dalla Francia.
L’Impero però era universale nell’intenzione, nel senso che esso doveva estendersi a tutta la cristianità, i cui confini dovevano coincidere con quelli dell’umanità.
Lo Stato che così nasceva doveva rap­presentare, nel programma di Carlo Magno, la restaurazione dell’antico Impero roma­no, alla cui tradizione Carlo si ricollegava come erede dei Cesari. In realtà esso ne differiva profondamente: era infatti un agglomerato di popoli con leg­gi e forme amministrative diverse, la cui unità era costituita esclusivamente dalla comu­ne fede cattolica che giustificava l’appellativo di sacro con cui veniva denominato.
L’Imperatore era la spada che difendeva il Cristianesimo contro gli infedeli i quali erano assoggettati e convertiti a forza, come i Sassoni, o ricacciati al di là dei Pirenei fino all’Ebro, come gli Arabi musulmani.
Calo Magno fu particolarmente attivo nella promozione delle arti e della cultura letteraria, filosofica e scientifica, al punto che si è parlato, per gli anni del suo regno, di una vera e propria rinascita carolingia. Essa si appoggiò non tanto ai centri urbani, quanto a istituzioni ecclesiastiche, soprattutto monasteri (spesso sedi di celebri scriptoria e luoghi di istruzione per i figli dei nobili). Parteciparono a quest’opera di diffusione della cultura intellettuali provenienti da diverse parti dell’impero, che furono spesso anche consiglieri del sovrano, considerati più tardi membri di una cosiddetta schola palatina fra gli altri il diacono sassone Alcuino, Paolo Diacono, il poeta visigoto Teodulfo, il teologo di origine italiana Paolino, il franco Eginardo).
Destinato a restare per secoli simbolo dell’unità dei cristiani e dell’Europa e simbolo della lotta contro gli infedeli, Carlo Magno poté trasmettere il suo potere al figlio Ludovico I il Pio che gli succedette come unico imperatore nell’814.
Dal punto di vista culturale, l'epoca di Carlo Magno, di suo figlio Ludovico il Pio e dei suoi nipoti è conosciuta con il nome di rinascimento carolingio. L'insegnamento classico, particolarmente quello del latino, fu rivalorizzato, dopo essere stato snaturato e trascurato alla fine del regno dei Merovingi. Tuttavia, la lingua latina era ormai quasi esclusivamente la lingua del clero, mentre negli ambienti militari era preferito il francone: questa evoluzione inevitabile fa del latino una lingua morta e fa nascere gli antenati delle lingue nazionali odierne: il romanico e il teutonico, rispettivamente del francese e del tedesco.
La rinascita europea promossa dai Carolingi influenzò anche la sfera artistica, determinando il recupero del linguaggio classico. Nelle grandi chiese abbaziali, si affermò una nuova tipologia basilicale a tre navate con abside, cripta e facciata tra torri, mentre nella Cappella Palatina ad Aquisgrana prevalse la pianta centrale di derivazione bizantina.

Il giuramento di Strasburgo da Le Storie di Nitardo
Dunque, il 14 febbraio Ludovico e Carlo s’incontrarono nella città chiamata un tempo Argentaria, oggi popolarmente Strasburgo, e si scambiarono i giuramenti qui di seguito riportati, Ludovico in lingua romanica e Carlo in lingua tedesca. E prima di giurare, arringarono come segue le rispettive schiere, l’uno in lingua tedesca, l’altro in lingua romanica. Ludovico, in quanto maggiore d’età, per primo prese la parola in questi termini: “Voi sapete quante volte, dopo la scomparsa di nostro padre, Lotario ha cercato di eliminare me e questo mio fratello, perseguitandoci a morte. Poiché né la qualità di fratelli, né la religione di cristiani, né qualsivoglia compromesso compatibile con la giustizia hanno potuto giovare a che tra di noi ci fosse la pace, siamo stati finalmente costretti a rimettere la soluzione al giudizio di Dio onnipotente, pronti a inchinarci al suo verdetto quanto ai diritti di ciascuno di noi. il risultato, come sapete, è che per misericordia di Dio noi siamo riusciti vincitori, ed egli, vinto, si è dovuto ritirare con i suoi dove ha potuto. Dopo ciò, tuttavia, stretti dall’amore fraterno e mossi altresì a compassione per il popolo cristiano, non abbiamo voluto perseguitarli e distruggerli, ma soltanto abbiamo intimato che siano rispettati in futuro i diritti a ciascuno già in passato spettanti. Malgrado ciò, egli, non contento del giudizio di Dio, non cessa dal rinnovare ostilità armate contro di me e contro questo mio fratello, e porta ancora la desolazione tra il nostro popolo con incendi, saccheggi, massacri. Perciò, costretti dalla necessità, noi ci siamo oggi incontrati, e poiché sospettiamo che voi possiate dubitare della stabilità dei nostri sentimenti di fede e fratellanza, abbiamo deciso di scambiarci questo solenne giuramento in vostra presenza. Ciò non facciamo tratti da una qualsiasi iniqua cupidigia, ma per essere più sicuri del comune profitto, se Dio con il vostro aiuto ci conceda tranquillità. Se poi, che a Dio non piaccia, io osassi violare il giuramento che presterò ora a mio fratello, ciascuno di voi sia sciolto dalla sudditanza nei miei riguardi e dal giuramento che mi avete prestato”.
E dopo che Carlo ebbe ripetuto le medesime dichiarazioni in lingua romanica, Ludovico, in quanto maggiore d’età, per primo giurò osservanza al patto, in questi termini:
“Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, d’ist di in avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fradre Karlo et in aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradra salvar dift, in o quid il mi altresi fazet et ab Ludher nul plaid nunquam prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in damno sit.”
Quando Ludovico ebbe terminato, Carlo ripeté alla lettera il medesimo giuramento in lingua tedesca, in questi termini:
“In Godes minna ind in thes christianes folches ind unser bedhero gehaltnissi, fon thesemo dage frammordes, so fram so mir Got gewizci indi mahd furgibit, so haldih thesan minan bruodher, soso man mit rehtu sinan bruher scal, in thiu thaz er mig so sama duo, indi mit Ludheren in nohheiniu thing ne gegango, the minan willon, imo ce scadhen werdhen.”
Il giuramento che poi prestò il popolo dell’uno e dell’altro, ciascuno nella propria lingua, in lingua romanica suona così:
“Si Lodhuvigs sagrament que san fradre Karlo jurat conservat et Karlus, meos sendra, de suo part non l’ostanit, si io returnar non l’int pois, ne io ne neuls cui eo returnar int pois, in nulla aiudha contra Lodhuwig nun li iu er”.
E in lingua tedesca:
“Oba Karl then eid then er sinemo bruodher Ludhuwige gesuor geleistit, indi Ludhuwig, min herro, then er imo gesuor forbrihchit, ob ih inan es irwenden ne mag, noh ih noh thero nohhein, then ih es irwenden mag, widhar Karle imo ce follusti ne wirdhit”.
Terminato ciò, Ludovico si diresse verso Worms seguendo il Reno e passando da Spira, Carlo seguendo i Vosgi e passando da Wissenburg.

15. Il trattato di Verdun: la nascita dell’Europa - Alla morte di Carlo Magno l’Impero fu travagliato da un seguito di guerre fra gli eredi per la successione. Un momento stori­camente importante fu il trattato di Verdun dell’843, stipulato dai tre figli di Ludovico il Pio, fu l’esito della sconfitta di Lotario a Fontenoy nell’841.
L’accordo istituzionalizzò lo smembramento dell’impero carolingio: Lotario ebbe il titolo imperiale e una fascia verticale di territori dal Reno al Rodano e all’Italia, ma fu stretto a occidente da Carlo il Calvo e a oriente da Ludovico il Germanico.
Questo dava origine ai primi tre stati autonomi che avrebbero costituito il nucleo della futura Europa.
L’Europa, nuovo organismo politico-culturale, per quanto debole, divisa da discordie e minacciata da forze esterne, avendo ricacciato gli Arabi, si era assicurata la sopravvivenza e la possibilità di espansione.
Il Sacro Romano Impero di nazione franca scompariva definitivamente con la deposizione di Carlo il Grosso nell’887.
I tre regni di Francia, Germania, Italia, iniziavano una vita autonoma che, per l’Italia, fu caratterizzata da continue lotte fra i grandi feudatari per la conquista della corona, fino a che Ottone di Sassonia, re di Germania, cinse la corona del regno d’Italia nel 961 e si fece incoronare Imperatore nel 962, restauran­do il Sacro Romano Impero, ma questa volta di nazionalità germanica.

Verso il feudalesimo dalle Storie di Rodolfo il Glabro
Dunque, i discendenti di quella famiglia furono a lungo re o imperatori sia in Italia che in Francia, fino all’ultimo loro re, Carlo il Semplice. Costui aveva tra i notabili del suo regno un tale di nome Eriberto di Vennandois, di cui aveva tenuto a battesimo un figlio, e che certamente per le sue doti di astuzia avrebbe potuto essere sospetto al re, se non fosse intervenuto contemporaneamente un inganno ben architettato. Eriberto aveva meditato di far cadere il suo re in un tranello, col pretesto di un incontro per trattare un certo affare, in modo da poterlo far venire senza sospetti in un suo castello, come poi avvenne, e gettarlo in catene in una prigione. Da alcuni, tuttavia, era stato dato al re il consiglio di comportarsi con molta prudenza nei confronti di Eriberto, per non cadere nel suo inganno. Mentre il re, che era uomo portato a credere, in base a questa notizia aveva deciso di diffidare di Eriberto, accadde che un giorno costui giungesse con suo figlio senza alcun imbarazzo al palazzo reale. Alzatosi, il re lo baciò ed egli prostrandosi ricevette il bacio del sovrano. Poi il re baciò anche il figlio; ma il giovane, che pure era a conoscenza dell’inganno, ma non era ancora abituato a fingere, stava eretto e non prestava il dovuto omaggio. Il padre, che gli era a fianco e lo aveva visto, gli diede con la mano un forte colpo sul collo, dicendogli: «Non si può ricevere il bacio di un signore e di un re senza piegare il corpo. Ricordalo!». Il re e tutti i presenti osservarono questa scena, e si convinsero che Eriberto era estraneo al tradimento e all’inganno contro il sovrano. Eriberto, vedendo il re riconciliato nei suoi confronti, più caldamente lo pregò di recarsi da lui per decidere su quell’affare, come già prima gli aveva chiesto. Subito il re promise di recarsi dove Eriberto avesse voluto. Stabilito il giorno, Carlo giunse nel luogo dove Eriberto lo aveva pregato di andare, facendosi scortare come prova d’amicizia solo da un piccolo drappello di soldati. Fu ricevuto con straordinari onori, ma il giorno seguente Eriberto comandò, come se si trattasse di un ordine del re, a tutti coloro che avevano scortato il sovrano di tornarsene a casa, dato che egli stesso con i suoi era in grado di garantire la protezione del re. Ascoltate le assicurazioni di Eriberto, quelli se ne andarono senza rendersi conto di lasciare prigioniero il loro sovrano. Eriberto lo tenne imprigionato fino al giorno della sua morte.
Re Carlo aveva avuto un figlio, Ludovico che allora era ancora un ragazzo e che quando conobbe la sorte del padre fuggì oltre il Reno, dove rimase fino all’età adulta.
Nel frattempo i maggiorenti di tutto il regno elessero come sovrano Ludovico, figlio di quel Carlo di cui abbiamo già parlato, e lo unsero con il crisma dei re riconoscendogli il potere di regnare su di loro per diritto ereditario. Eriberto di Vermandois, infatti, aveva già trovato una morte crudele: quando, tormentato continuamente dal male, era ormai prossimo alla fine e i suoi congiunti lo interrogavano sia per la salvezza della sua anima sia per conoscere le disposizioni che intendeva lasciare riguardo alla sua famiglia e al suo patrimonio, non faceva altro che ripetere queste parole: «Fummo dodici che giurando accettammo di tradire Carlo», e morì ripetendo più volte questa frase.
Ludovico, poi, ebbe da Gerberga, vedova del duca di Lorena Gisleberto, un figlio che chiamò Lotario. Riconosciuto re, Lotario, che era un uomo agile, robusto e di buon senso, tentò di riportare ai confini di un tempo il suo regno. Infatti la parte superiore dei suoi domini, conosciuta anche come Lotaringia, era stata annessa al regno dei Sassoni da Ottone, re di Sassonia, o meglio imperatore dei Romani.
Lotario tentò anche, una volta, di catturare Ottone, figlio del famoso Ottone, mentre questi si trovava nel palazzo di Aquisgrana. Ma poiché della cosa Ottone fu segretamente avvertito da qualcuno, di notte egli riuscì a stento a salvarsi fuggendo con la moglie.
Ottone poi, riunito un esercito di più di 60.000 soldati, penetrò in Francia, arrivando fino ad occupare Parigi per tre giorni; in seguito ritornò in Sassonia, e di nuovo Lotario, radunato un esercito sul territorio della Francia e della Borgogna, inseguì l’esercito di Ottone fino al fiume Mosa, e capitò che molti dei fuggitivi trovassero la morte in questo fiume. Alla fine entrambi i re cessarono le ostilità, sebbene Lotario avesse ottenuto meno di quanto sperava.
Lotario generò un figlio, di nome Ludovico, e quando il giovane fu adulto lo fece consacrare re perché potesse succedergli al trono; gli scelse anche una sposa in Aquitania. Costei, accorgendosi che il giovane non aveva certo le doti del padre, decise di chiedere il divorzio, ed essendo donna di grande astuzia, gli fece scaltramente intendere che insieme avrebbero dovuto recarsi nella sua terra d’origine, la quale per diritto ereditario sarebbe stata sua. E giovane senza intuire l’astuzia della moglie acconsenti a partire come gli era stato richiesto. Quando furono giunti in Aquitania la donna lo abbandonò e raggiunse la sua famiglia. E padre, ricevuta la notizia, andò a cercare il figlio e lo riprese con sé. Essi vissero insieme e qualche anno dopo morirono tutti e due senza eredi.
Con questi due re si estinse la loro stirpe reale e imperiale.

16. Il feudalesimo – Il fenomeno che caratterizzò la civiltà europea nel periodo che seguì la morte di Carlo Magno fu il feudalesimo[32], un nuovo sistema di organizzazione politi­ca, sociale ed economica. Si era sviluppato nella Francia tra l’VIII e il IX secolo dall’elaborazione e dalla fusione di elementi che risalivano al Basso Impero e alla originaria cultura germanica. Dalla Francia si diffuse poi in tutta l’Europa occidentale e più tardi, con i Normanni, passò in Inghilterra.
Il feudalesimo nacque dall’uso di assegnare terre in concessione a dignitari laici ed ecclesiastici collaboratori del sovrano. Tale concessione era detta beneficio[33], in quanto gli assegnatari ne traevano rendite sia direttamente, sia con l’imposizione di tributi e bal­zelli agli abitanti. Al beneficio si accompagnò l’immunità[34], cioè l’esenzione dalla giurisdizione sovrana e il corrispettivo diritto di amministrare in nome proprio la giustizia e di arruolare uomini. Al beneficio corrispondeva il vassallaggio[35]: il beneficia­rio, in compenso del beneficio ottenuto, si considerava vassallo dell’Imperatore o del signore che glielo aveva elargito, cioè si riteneva legato da un vincolo di fedeltà che lo obbligava a garantire al signore servizi militari e amministrativi, contributi in uomini e in denaro, e il suo consiglio, sia in pace che in guerra.
L’unione del beneficio, dell’im­munità e del vassallaggio costituiva appunto il feudo.
a) La gerarchia feudale - Si formava così una piramide gerarchica che aveva al suo verti­ce l’Imperatore, al di sotto i grandi feudatari o vassalli[36], al di sotto di questi i valvassori (vassalli dei vassalli) e sotto ancora i valvassini (vassalli dei valvassori).
Connettivo di questa piramide era il legame di vassallaggio, cioè un rapporto di carattere prettamente personale che subordinava ogni vassallo al suo diretto signore.
Inizialmente, i feudi erano concessi alla persona e, alla morte del beneficiario, ritornavano all’Imperatore o al signore che li aveva concessi. Successivamente, prima i grandi feudi con il Capitolare di Quiersy[37] dell’877, poi i feudi minori con la Constitutio de feudis[38] del 1037 divennero ereditari.
b) L’economia feudale: la curtis – Il feudalesimo oltre che un sistema politico-giuridico, fu un’organizzazione di tutta la società, organizzazione corrispondente alla civiltà rura­le costituitasi col declino della città e dell’economia industriale e mercantile. Il centro della vita feudale era il castello del signore e il centro dell’economia la sua corte ocur­tis.
La curtis[39] era costituita dall’insieme delle terre di proprietà padronale (pars dominica), degli edifici dove dimoravano i servi addetti alla coltivazione della terra signorile, alla produzione artigianale e ai servizi indispensabili per la vita del castello e dalle terre assegnate in lotti ai contadini liberi (pars massaricia), in cambio di censi in natura o in denaro e dell’obbligo di collaborare, per due o tre giorni alla settimana, alla coltivazione della ter­ra signorile.
Il latifondo, veniva suddiviso così in due tipologie di territorio: la parte centrale, quella più vicina al polo amministrativo, era detta pars dominica o indominicata cioè gestita a coltura direttamente dal signore mediante il lavoro dei servi ed una pars massaricia che era data in affitto o mezzadria a famiglie di coloni che la coltivavano privatamente e sulla quale il proprietario, ne ricavava un terzo della rendita. Oltre a questo, i coltivatori erano tenuti a pagare alcune tasse ed a svolgere alcune giornate lavorative gratuite sui fondi gestiti dal padrone, le corvées.
L’economia curtense[40] è un’economia di sussistenza: si produce per il consumo diretto, e non vi sono eccedenze da commerciare. È pertanto un’economia chiusa, e i rari scambi vengono fatti per lo più sulla base del baratto dei prodotti, data la scarsità di dena­ro circolante.
c) La società feudale - Dal punto di vista delle classi, la società feudale era caratterizza­ta da una rigida stratificazione:
·         sopra stavano i potentes, coloro che detenevano il po­tere, che erano o guerrieri (la gerarchia dei vassalli) o ecclesiastici: e spesso questi se­condi erano anch’essi guerrieri.
·         Sotto vi era una massa amorfa, non articolata, costitui­ta quasi esclusivamente da contadini in condizione di semischiavitù, perché legati alla terra del signore, dalla quale non potevano allontanarsi senza correre il rischio di gravi pene, e perciò chiamati servi della gleba[41].
Anche i coltivatori liberi che lavoravano appezzamenti avuti in concessione dal signore, erano tenuti a fornirgli, oltre a un corrispettivo in derrate, prestazioni in mano d’opera le corvées[42] e a pagare balzelli per l’uso di strade, ponti, mulini, forni che erano di esclusiva proprietà del signore.
Pochi gli artigiani e scarsi anche i mercanti che aumentarono di numero e di importanza solo con la ripresa dell’economia e della vita civile che sboccheranno nella ri­nascita della società urbana.
d) La cavalleria - Manifestazione caratteristica del mondo feudale fu la cavalleria. Essa sorse come conseguenza dell’istituto giuridico del maggiorasco[43], per la quale il feudo era trasmesso indiviso al primogenito. I fratelli minori, i cadetti, avevano due possi­bilità: o darsi alla carriera ecclesiastica o mettersi al servizio, come cavalieri, di qualche potente signore, nella speranza di conseguire a loro volta un feudo in ricompensa delle loro prestazioni.
Per incanalare la violenza di questi guerrieri che, per arricchirsi, non di rado si abban­donavano al brigantaggio o al saccheggio, la Chiesa, verso l’inizio del secolo XI, pro­pose al cavaliere di mettere la sua forza e il suo coraggio al servizio della fede e della giustizia, in difesa dei deboli e degli oppressi. La cavalleria[44] si trasformò così in una specie di grande confraternita sottoposta a severe regole morali. Il significato religioso dell’istituzione era sottolineato da un preciso rito che regolava la cerimonia dell’investi­tura.

Enrico IV a Canossa da Vita di Matilde di Donizone di Canossa
Correndo la fama per il mondo che il re [Enrico IV], dopo la morte della madre, era stato scomunicato da papa Gregorio, i forti e i potenti di tutto il regno furono in grande turbamento, e dicevano tra loro che era prova di superbia il non voler ubbidire sinceramente, benignamente e con pio animo alla Romana sede la quale tiene le chiavi della vita. Per la qual cosa stabilirono a buon diritto di disprezzare il re, qualora non ritornasse nell'obbedienza del papa e non cercasse di riconciliarsi con lui.
Il re, convinto di non potere in nessun altro modo conservare il regno, mandò un messaggio a sua cugina Matilde, affinché essa facesse venire da Roma il papa in Lombardia, dove egli si sarebbe recato per chiedergli il dovuto perdono. Il papa vedendo le preghiere della contessa Matilde, a lei quanto chiede concede; e da buon pastore lasciò quindi Roma e venne a Canossa. Erano qui presenti molti sudditi del re Enrico e molti sapienti, fra i quali l'abate Ugo di Cluny, che era stato padrino dei re. Tutti facevano tra di loro discorsi di pace; e mentre essi continuavano a parlare di pace, per tre giorni il papa non volle ricevere il re e raccogliere la sua richiesta di perdono.  Enrico allora si avviò alla cappella di San Niccolò; nella quale pregò in lacrime il pastore Ugo, perché si facesse garante per sé della pace. «Questo non mi è permesso», l'abate al re risponde; ed essendo pure presente Matilde, anch'essa lo pregò: ma egli a lei: «Questo nessuno potrà farlo», rispose, «se non tu». A ginocchia piegate disse il re allora a Matilde: «Se tu non vieni ora in aiuto, io non potrò più spezzare scudo, perché il papa mi ha condannato. O valente cugina, fammi benedire, va!» Ed essa si alzò e fece promessa al re ed uscì salendo in alto mentre il re rimane in basso. Parla al papa manifestandogli le intenzioni e il pentimento di Enrico. Alle sincere parole della contessa prestò fede il venerabile rappresentante di Pietro, a patto che il re presti giuramento di fedeltà a lui stesso ed alla Romana sede. Tutto quello che volle Papa Gregorio, il re lo fece... Il gennaio di quest'anno dava neve più del solito e freddo eccessivo e grandissimo. Sette giorni prima che gennaio avesse fine, il papa concesse al re che venisse in sua presenza con le piante nude e intirizzite dal freddo. Il re giunse gettandosi con le braccia in croce e gridando al papa ripetutamente «Perdonami, padre beato! o santo, perdonami che te lo domando di cuore!» Il papa, vedendolo piangente, si sentì preso di grande commiserazione per lui; difatti lo benedisse, gli diede pace e gli somministrò il Corpo del Signore. Poi gli fece giurare fedeltà e infine lo lasciò andare.

17. La riforma della Chiesa - A risollevare la Chiesa dalla condizione in cui era caduta in seguito alla sua mondanizzazione, intervennero due forze:
·         l’Impero di nazio­nalità germanica sotto i tre Ottoni,
·         il monachesimo con un movimento di riforma che prese le mosse dal monastero di Cluny in Francia.
a) Gli Ottoni e la feudalità ecclesiastica - Ottone I, per ridare dignità al Papato, sottraendolo alle grandi famiglie romane che se lo contendevano, dopo aver restaurato in veste germanica il Sacro Romano Impero nel 962, stabilì, col privilegium Othonis, che l’elezione del papa dovesse essere confermata dall’Imperatore.
Tale decisione all’inizio rappresentò un risanamento della Chiesa, perché Ottone favorì la nomina di papi moralizzatori; ma comportò in cambio una subordinazione della Chiesa al potere politico, tanto più che Ottone I, per contrastare i feudatari laici, creò, con la nomina dei vescovi-conti[45], una feudalità ecclesiastica che, per il fatto di non poter trasmettere il feudo in eredità, rappresentava una categoria di feudatari la cui fedeltà all’Imperatore era più sicura. Tale estesa subordinazione della Chiesa all’Impero contrastava col risanamento programmato da Ottone ed era anzi causa di mali peggiori. La scelta delle persone cui conferire la dignità ecclesiastica (un’abbazia, un vescovado, una pieve, un canonicato) dipendeva infatti non dalle loro doti morali e dalla loro dottrina religiosa, ma dalle capacità di governo e militari, e, ancor più, dalle garanzie di fedeltà che offri­vano o, non ultima, dalla somma in denaro che erano in grado di versare per ottenere l’investitura.
b) La riforma di Cluny - A questo punto s’innesta il vero rinnovamento della Chiesa, quello portato avanti dai monaci benedettini riformati dell’abbazia di Cluny[46] in Fran­cia che si proponeva dì sottrarre la Chiesa al potere politico, incominciando col sottrargli l’elezione del papa e dei dignitari ecclesiastici.
Qualunque ingerenza dei laici nella loro nomina fu combattuta e bollata come peccato col termine di simonia (=ven­dita di cose sacre).
c) Il grande scisma – Lo scisma[47] fu la rottura definitiva tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, causata dalla crescente separazione politica e culturale tra Oriente e Occidente cristiano iniziata dal IV secolo.
Il Papato, impegnato in un processo di rinnovamento e di consolidamento della struttura della Chiesa, tentava di riprendere il controllo effettivo della chiesa orientale; questo avrebbe significato per l’Impero d’Oriente accettare la sovranità religiosa di un potere, come il Papato, che l’Imperatore non era in grado di controllare.
Già in precedenza le due Chiese si erano trovate in contrasto:
·         sull'iconoclastia, ossia il movimento politico-religioso iniziato dall'Imperatore bizantino Leone III Isaurico, che nel 726 condannò come idolatrico il culto delle immagini della Madonna e dei santi, considerandolo idolatrico, e ne ordinò la distruzione; la Chiesa occidentale si oppose all'iconoclastia e condannò Leone III nel 731. Il VII concilio ecumenico di Nicea condannò l'iconoclastia (787), che riprese tuttavia con gli Imperatori Leone Barda e Teofilo; L'Imperatrice Teodora dichiarò nuovamente lecito il culto delle immagini (843).
·         con il breve scisma di Fozio infatti quando l’Imperatore d’oriente depose il patriarca di Costantinopoli Ignazio che censurava la sua licenziosa condotta e mise al suo posto Fozio, papa Nicola I scomunicò Fozio e l’Imperatore, restituendo la sede patriarcale ad Ignazio, con il quale la scisma ebbe termine.
Saliti al soglio patriarcale di Costantinopoli Michele Cerulario (1043) e a quello pontificio Leone IX (1049) ci fu lo scisma definitivo.
Il motivo occasionale si ebbe quando il patriarca Michele Cerulario intervenne sull’uso del pane azimo nelle chiese dell’Apulia e della Calabria che l’Imperatore Niceforo II Foca aveva proibito. Cerulario intervenne facendo chiudere tutte le chiese dove veniva praticato questo rito.
Le divergenze investirono quasi subito il terreno dogmatico e liturgico, sul quale nessuna delle due parti era disposta a venire a patti. Erano vecchie questioni che avevano già diviso gli animi ai tempi di Fozio (IX secolo):
·         la dottrina occidentale della duplice processione dello Spirito Santo[48],
·         il digiuno romano del sabato
·         il divieto del matrimonio dei preti
·         l'uso del pane lievitato o di quello azzimo[68].
La situazione precipitò nel 1054 quando Papa Leone IX inviò a Costantinopoli il cardinale Umberto di Silva Candida per tentare di risolvere questa situazione critica, ma la visita terminò nel peggior modo: il 16 luglio 1054, il cardinale Umberto depositò una Bolla di Scomunica contro il Patriarca Michele Cerulario sull'Altare di Santa Sofia, atto inteso come scomunica di tutta la Chiesa bizantina, al quale Cerulario rispose in modo analogo, con la sottoscrizione degli altri Patriarchi, scomunicando il papa Leone IX (intendendo la Chiesa occidentale). Le Chiese, inoltre, attraverso i loro rappresentanti ufficiali, si scomunicarono l'una l'altra: si separarono così la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa, ognuna delle quali rivendicante per sé il titolo di Chiesa Una Santa Cattolica ed Apostolica.
Lo scisma non aveva dirette ragioni teologiche. I motivi che scatenarono il Grande Scisma includevano:
·         dispute sul primato del Papa, ossia se il Patriarca di Roma dovesse essere considerato un'autorità superiore a quella degli altri Patriarchi[49].
·         dispute circa quale Chiesa avesse giurisdizione[50] nei Balcani.
·         la designazione del Patriarca di Costantinopoli come Patriarca Ecumenico (attributo inteso da Roma come patriarca universale, e quindi rifiutato).
·         il concetto di cesaropapismo[51], un modo per mantenere unite in qualche modo le autorità politiche e religiose, che si erano separate molto tempo prima, quando la capitale dell'Impero venne spostata da Roma a Costantinopoli. Vi sono ora controversie su quanto tale cosiddetto cesaropapismo esistesse effettivamente o quanto invece fosse frutto dell'invenzione degli storici occidentali, alcuni secoli dopo.
·         la relativa perdita di influenza dei Patriarchi di Antiochia, di Gerusalemme e di Alessandria conseguente alla crescita dell'Islam, fatto che portò le politiche interne alla Chiesa ad essere viste sempre più come un rapporto Roma contro Costantinopoli.
Sul piano immediato, le conseguenze furono gravi per l’Impero bizantino, che restava una potenza cristiana, ma scismatica: ciò indebolì la solidarietà nei sui riguardi degli stati europei legati al Papato. A lunga scadenza, tuttavia, le conseguenze furono ancora più gravi per il Papato che perse per sempre il controllo sulla cristianità di lingua greca e sugli Slavi russi e balcanici.
d) La lotta per le investiture - Si erano poste le premesse della lotta per le investitu­re tra Papato e Impero. Il Papato, infatti, dopo aver affermato con Nicolò II l’autonomia del pontefice e l’indipendenza della sua elezione dall’Imperatore nel 1059, pretendeva che l’investitura imperiale, o comunque laica, dei dignitari ecclesiastici, spettasse al pontefice o alle altre autorità religiose.
La fase culminante della lotta vide, nel suo cor­so, contrapporsi due personalità eccezionali, l’Imperatore Enrico IV[52] e il papa Gregorio VII.
La conclusione della lotta si ebbe però solo nel 1122 con un accordo tra Enrico V e Callisto II, il Concordato di Worms. Quest’atto stabiliva che:
·         l'investitura spirituale è separata da quella temporale
·         In Italia precede l'investitura del papa, in Germania quella dell'imperatore.
In pratica l'imperatore, che voleva controllare le nomine dei vescovi conti (senza eredi e quindi facilmente manovrabili alla morte del feudatario) può farlo solo in territorio germanico. L'Italia è controllata dal pontefice che nomina direttamente i vescovi.
Questo segnava nel complesso una vittoria della Chiesa e di coloro che ne avevano voluto la riforma.




[1] Res publica romana - La Repubblica Romana, in latino Res Publica Romana, fu quello Stato formato dalla città di Roma e dai suoi territori di conquista nel periodo tra il 509 a.C. ed il 27 a.C., quando la sua forma di governo era una Repubblica oligarchica.
La sua fine coincide con la fine di un lungo periodo di guerre civili che segnò la fine della forma di governo repubblicana a favore di quella del Principato.
La Repubblica rappresenta una fase lunga, complessa e decisiva della storia romana, che da piccola città stato divenne la capitale di un grande e complesso Stato, formato da una miriade di popoli e civiltà differenti.
In questo periodo si inquadra la maggior parte delle grandi conquiste romane nel Mediterraneo ed in Europa, soprattutto tra il III ed il II secolo a.C.
All'inizio della sua storia il territorio della repubblica coincideva con quello della città. L'espansione militare portò il territorio della repubblica, nel 27 a.C., ad includere tutta la penisola italiana, le isole di Sardegna, Corsica e Sicilia, gran parte della Gallia, dell'Iberia, della penisola balcanica, le regioni costiere dell'Asia Minore e del Nord Africa, l'Egitto.
I poteri erano assegnati a due consoli e al pontifex maximus. Con la crescita dello stato romano fu necessaria l'istituzione di altre cariche che costituirono le magistrature. Per ognuna di queste cariche venivano osservati due principi:
1.       l'annualità, ovvero l'osservanza di un mandato di un anno,
2.       la collegialità ovvero l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno due uomini alla volta, ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle azioni dell'altro.
Tra i magistrati un’importante distinzione era quella tra:
1.       magistrati cum imperio (consoli, pretori e dittatori) cui erano affiancate delle speciali guardie, i littori.
2.       magistrati sine imperio, (tutti gli altri);
Il secondo pilastro della repubblica romana erano le assemblee popolari, che avevano diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di votare le leggi. La loro composizione sociale differiva da assemblea ad assemblea; tra queste l'organo più importante erano i comizi centuriati, in cui il peso nelle votazioni era proporzionale al censo, secondo un meccanismo che rendeva preponderante il peso delle famiglie patrizie. Nonostante il peso della plebe fosse accentuato rispetto al periodo monarchico, in cui esisteva un solo organo assembleare (i comizi curiati) costituito da soli patrizi, l'accesso della plebe all'esercito sancito dalla riforma centuriata spinse il ceto popolare a pretendere maggiori riconoscimenti, che nell'arco di due secoli vide tra l'altro la costituzione della magistratura di tribuno della plebe, eletto dal concilio della plebe.
Il terzo fondamento politico della repubblica era il Senato, già presente nell'età della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie, i Patres, ed ex consoli, aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai magistrati, indicazioni che poi divennero vincolanti. Approvava inoltre le decisioni prese dalle assemblee popolari.
Esisteva inoltre la carica di dittatore, che costituiva un'eccezione all'annualità e alla collegialità. In periodi di emergenza (sempre militari) un singolo dittatore era eletto con un mandato di 6 mesi in cui aveva da solo la guida dello stato. Eleggeva un suo collaboratore detto maestro della cavalleria. Caduto in disuso dopo il periodo delle grandi conquiste, il ricorso a questo incarico tornerà ad essere praticato nella fase della crisi della repubblica.
[2] Anarchia militare – Il cosiddetto periodo di anarchia militare è quel periodo del tardo impero romano che va dalla fine dei Severi con la proclamazione ad imperatore di Massimino il Trace nel 235, fino a Diocleziano nel 284. Fu un periodo di guerre sanguinose, usurpazioni e frantumazione dell'impero in varie zone di influenza del singolo generale o re alleato di Roma. In questo periodo numerosi generali si autoproclamano imperatori, spesso in contemporanea tra loro. Tutti questi imperatori morirono vittime di congiure, rivolte o in battaglie e non lasciarono mai eredi al trono.
Questa mancanza di una continuità dinastica lunga 50 anni, per il continuo sorgere di questi diversi generali o imperatori scelti dall'esercito ha portato a definire questo periodo anarchia militare.
[3] I Parti – Dominatori dell'antica Persia (attuale Iran) dal 247 a.C. al 228 d.C., i Parti riuscirono a sconfiggere i Seleucidi conquistando gran parte dell'Asia mediorientale e sudoccidentale, acquisendo il controllo della Via della Seta e trasformando la Parthia in una vera e propria superpotenza. L'impero partico rivisse i fasti di quello achemenide, riuscendo a controbilanciare l'egemonia di Roma in Occidente. La Parthia comprendeva terre che ora si trovano in Iran, Iraq, Turchia, Armenia, Georgia, Turkmnenistan, Afganistan, Tagikistan, Pakistan, Siria, Libano, Giordania, Palestina e Israele.
Le origini del popolo partico rimangono oscure. Strabone (XI, 515) sostiene che il primo Arsace, da cui prese avvio la dinastia partica, fosse uno scita e che riuscì a conquistare la Parthia con l'appoggio della tribù seminomade dei Parni, stanziata lungo il corso del fiume Ochus. Probabilmente la cosiddetta «invasione» della Parthia a opera dei Parni va considerata piuttosto alla stregua di un movimento migratorio. La popolazione non fu conosciuta col nome di «Parti» finché non si trasferì verso sud, nella provincia persiana di Parthava in un periodo precedente al 250 a.C.
Nel 247 a.C. i Parti si sollevarono contro Andragora, satrapo della Parthia per il re Antioco II Theos (261-247 a.C.). La rivolta fu guidata dai fratelli Arsace e Tiridate: Arsace divenne re e il suo nome divenne l'appellativo onorifico e dinastico di tutti i successivi sovrani partici. Durante il II secolo a.C. i Parti riuscirono ad espandere il loro dominio sulla Battriana, su Babilonia, sulla Media e sotto Mitridate II (123-88 a.C.) le loro conquiste si estesero dall'Armenia all'India. A seguito delle vittorie di Mitridate II, i Parti cominciarono a proclamarsi legittimi eredi sia dei Greci che degli Achemenidi. Parlavano un linguaggio simile a quello achemenide, usavano la scrittura pahlavi e stabilirono un sistema amministrativo basato su quello achemenide.
Il periodo più confuso della storia partica è quello che va dalla fine del regno di Mitridate II all'ascesa al trono di Orodes II, nel 57 a.C. Quattro anni dopo, i Parti riuscirono ad annientare l'esercito romano, forte di 40.000 uomini, che Crasso aveva condotto contro di loro e tutte le genti dal Mediterraneo all'Indo conobbero allora la grande potenza dell'impero partico. Nel 40 a.C. Roma conobbe un altro scacco militare quando le forze partiche, sotto il comando congiunto del re Pacorus I e Q  Labieno (un romano), colpirono direttamente al cuore le regioni orientali dell'impero romano conquistando le province di Asia, Panfilia, Cilicia e Siria. La parola dei Parti diventò così legge fino alla lontana Petra, a sud. Per due anni questa enorme area, così cruciale per gli interessi romani, fu sotto l'occupazione dei Parti. Questi erano appena stati respinti dal generale romano Ventìdio che un altro esercito romano, sotto il comando di Antonio, venne sconfitto e a stento evitò di essere completamente annientato. I rapporti con Roma rimasero a lungo conflittuali, anche quando una linea di confine venne gradualmente stabilita lungo il corso del fiume Eufrate.
La decadenza dell'impero partico, dovuta anche all'accresciuta potenza dell'aristocrazia, che cominciò quindi a contendere il potere al sovrano, favorì la riscossa romana. Nel 224 d.C. Ardashir, uno dei governatori partici, rovesciò il re Artabano IV e stabilì la dinastia sassanide che governò l'Iran fino alla conquista islamica, nel 641.
La dinastia Sasanide fu fondata da Artaserse I nel 224 d. C., prese il nome da Sāsān, un antenato di Artaserse I, ultimo sacerdote del tempio di Zarathustra a Persepoli prima della distruzione compiuta da Alessandro Magno. Sotto la guida di Artaserse I, i Sassanidi spodestarono i Parti e crearono un impero che, al tempo della sua massima espansione sotto Sapore II (309-379), andava dalla Georgia alla Penisola Arabica, dall'Indo alla Mesopotamia.
La dinastia Sasanide svolse un ruolo politico e religioso fondamentale per tutta l'Asia mediterranea nei secoli compresi tra il III e il VII. Con i Sassanidi lo zoroastrismo divenne religione di Stato e cementò la rinascita nazionalista persiana, anche attraverso la persecuzione del cristianesimo e del manicheismo. La dinastia sassanide diede inoltre alla Persia un notevole impulso alle lettere e alle arti con traduzioni di opere dalla lingua greca e siriaca, e un'efficiente amministrazione su base feudale piramidale che costituì un modello per i futuri dominatori arabi.
A differenza della struttura adottata dai Parti, che riservava ampie autonomie alle città, i Sassanidi organizzarono uno Stato fortemente accentrato, con capitale a Ctesifonte sul fiume Tigri. Il ruolo principale nell'amministrazione era ricoperto dal Gran Visir, il primo ministro incaricato di svolgere le mansioni del sovrano in caso di sua assenza. Ministri o divan, agenti e addetti alla riscossione delle entrate completavano l'organico. L'esercito era organizzato e addestrato per reparti: fanteria, cavalleria e truppe corazzate, che impiegavano elefanti. I generali rispondevano del proprio operato direttamente all'imperatore.
Per quattro secoli l'impero sassanide sostenne lunghe guerre, con esiti alterni, contro Roma e poi, dal V secolo, contro Bisanzio. La figura principale della dinastia è Cosroe I  (531-579), che fu rivale di Giustiniano.
Dopo questo fiorente periodo lo stato sassanide fu sconvolto da lotte dinastiche, cui si aggiunsero crisi economiche e sociali che portarono rapidamente al declino della potenza persiana, costretta anche a fronteggiare a Est i barbari delle steppe, dai Kusāna, dinastia che regnò su gran parte dell'India centro-settentrionale dal sec. I a. C. al III d. C.  agli Unni.
I Sassanidi furono debellati, tra il 634 e il 651, da un nuovo nemico (la popolazione araba), che giunse quasi inatteso ai confini dell'impero. L'ultimo re, Yezdegerd III, fu messo in fuga e assassinato nel 651.
[4] Cristiani I cristiani erano i seguaci di una setta religiosa che traeva la sua origine dalla predicazione di Gesù Cristo e che ha in seguito caratterizzato la civiltà occidentale, diventandone la religione. È quindi una dottrina che non scaturisce da un complesso di credenze religiose, ma da un fondatore, il quale ha provocato una svolta rispetto al giudaismo, la religione degli Ebrei, il cui centro religioso era il Tempio di Gerusalemme.
Quasi tutte le notizie che si possiedono su Gesù sono attinte ai Vangeli, soprattutto ai Sinottici (Matteo, Marco, Luca). Essi però non ci forniscono i dati sufficienti a una biografia completa di Gesù, ma sono espliciti sui momenti essenziali della sua vita: nascita a Betlemme, vita a Nazareth, attività della predicazione, condanna a morte, morte sul Golgota, resurrezione, ascensione al cielo.
Fra le fonti non cristiane che attestano l'esistenza di Gesù, le principali sono: Tacito, che negli Annali, XV, 44: «Nerone presentò come rei (dell'incendio di Roma) e colpì con supplizi raffinatissimi coloro che il volgo, odiandoli per i loro delitti, chiamava cristiani. L'autore di questa denominazione, Cristo, sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ronzio Pilato»; Svetonio narra che i Giudei «ad impulso di Cristo, facevano frequenti tumulti» e furono espulsi da Roma; Plinio il Giovane (Epistola I, 10,96) parla dei cristiani adoratori del Cristo; allusioni al Cristo si trovano anche in una satira di Luciano (De morte peregrini) e nel libello di Celso.
Non tutti gli storici sono d'accordo sul valore della testimonianza dello storico Giuseppe Flavio. Si deve, però, considerare che il passo si trova in tutti i codici delle opere dello scrittore e sembra difficile poter negare almeno i dati fondamentali della sua testimonianza: «Ora ci fu verso questo tempo Gesù, uomo sapiente, seppure bisogna chiamarlo uomo; era, infatti, facitore di opere straordinarie, maestro di uomini, che accolgono con piacere la verità. E attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei Greci. E avendo Pilato, per denunzia degli uomini principali fra noi, punito lui di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli comparve, infatti, loro al terzo giorno nuovamente vivo...». Altre testimonianze sono reperibili nel Talmūd ebraico – opera appartenente alla letteratura religiosa dell'ebraismo, che contiene la legge orale, complemento indispensabile della Torāh, la legge scritta, e che abbraccia un periodo di otto secoli, dal sec. III a. C. al sec. V d. C.: una fonte si preoccupa di dare al processo fatto a Gesù il crisma dell'irreprensibilità giuridica.
[5] Il culto del Sol Invictus Sol Invictus o, per esteso, Deus Sol Invictus era un appellativo religioso usato per tre diverse divinità nel tardo Impero romano: El-Gabal, Mitra e Sol.
Il culto del Sol Invictus ebbe origine in oriente. Ad esempio le celebrazioni del rito della nascita del Sole in Siria ed Egitto erano di grande solennità e prevedevano che i celebranti ritiratisi in appositi santuari ne uscissero a mezzanotte fra il 24 e il 25 dicembre, annunciando che la Vergine aveva partorito il Sole, raffigurato come un bambino.
[6] Gesù di Nazareth – Il Gesù storico è il tentativo di ricostruzione della figura di Gesù di Nazareth secondo i moderni metodi storici, attraverso l'analisi critica dei testi antichi e il confronto con il contesto storico e culturale del tempo.
Nato a Nazareth negli anni 7-2 a.C., Gesù trascorse la sua infanzia e giovinezza nei territori della Giudea, che all’epoca era una provincia romana.
I vangeli ci hanno restituito testimonianza precise e dettagliate della sua attività di predicatore, esorcista e guaritore.
Secondo la religione cristiana Gesù è l’incarnazione di Dio sulla Terra, il suo Figlio, il Messia mandato a salvare gli uomini dal peccato.
I Vangeli raccontano la nascita di Gesù da Maria e Giuseppe, in una specie di stalla. Per adorare il Figlio di Dio sceso tra gli uomini, pare che siano arrivati a Betlemme alcuni regnanti da ogni parte del mondo (l’ascesa dei Re Magi). I Vangeli focalizzano poi l’attenzione sull’attività di predicazione di Gesù, che si svolge attraverso parabole, discorsi e miracoli.
L’operato di Gesù provocò un grande seguito tra la gente soprattutto fra i più poveri e diseredati. La sua breve vita termina con la morte sulla croce sul monte Golgota. Le autorità ebraiche riunite nel Sinedrio  chiesero che Gesù fosse crocifisso e la decisione finale spettò al prefetto romano Ponzio Pilato, tra l’anno 26 e il 36.
[7] Paolo - Paolo era un personaggio molto legato e compromesso col mondo romano, soprattutto per il fatto che la sua professione sarebbe stata quella di produrre tessuti per tendaggi usati dalle legioni militari imperiali.
Ciò che caratterizza l'identità culturale di Paolo è una ebraicità molto aperta, una estrema abitudine al contatto con le culture gentili, o pagane. Non si può comprendere storicamente Paolo e la sua opera, se non si parte dall'idea che le sue formulazioni teologiche, sfociate nella nascita di una nuova religione, abbiano origine nel contrasto stridente fra:
·         la ebraicità ottusa, fanatica, fondamentalista e xenofoba, che nel I sec. trovò la sua principale espressione nel messianismo esseno-zelota, e la sua collocazione geografica nell'ambiente palestinese,
·         la ebraicità aperta, maturata attraverso il contatto e la convivenza con i popoli e con le culture gentili, disponibile alla reinterpretazione delle scritture in senso molto elastico, per niente interessata allo sviluppo di una conflittualità estrema fra Israele e Roma, con una collocazione geografica rivolta soprattutto agli ambienti della diaspora.
Le tensioni fra questi due modi di essere ebrei e le drammatiche vicende politiche e militari della nazione ebraica sotto il dominio imperiale fornirono i presupposti del processo attraverso il quale si sviluppò per gradi:
1.       una coscienza contraria al messianismo radicale degli esseno-zeloti,
2.       una corrente politica altrettanto radicale, ma in senso anti-messianista, espressione delle classi dominanti di Israele (sadducei e farisei di destra),
3.       una tendenza a rileggere le profezie messianiche con significati contrari a quelli esseno-zelotici, e aperta ai contributi teologici delle spiritualità gentili,
4.       una corrente militante, di cui il San Paolo del dopo Damasco fu il fondatore e il promotore, che, pur di contrastare il messianismo e i suoi estremi pericoli per la sicurezza della nazione ebraica, era disposta a crearne un altro, aperto alle teologie escatologiche straniere (il Soter greco, il Saoshyant persiano, il Krishna e il Buddha indiani...), sopportando il rischio che ciò innescasse una sorta di mitosi teologica il cui prodotto, alla fine, fosse la nascita di una nuova religione e la sua scissione dal giudaismo.
In un primo tempo San Paolo sarebbe stato senz'altro un esponente della seconda corrente. Facilmente egli, in quanto benestante, colto, professionista con molte occasioni di viaggio e con molti contatti in ambienti sia ebraici che greco-romani, sia stato coinvolto nella politica di repressione delle "brigate messianiste" che abbia collaborato come informatore o anche in modo più consistente.
Non si dimentichi che i cristiani, al centro della attenzione repressiva, in questa fase del processo di evoluzione del cristianesimo, non erano ancora ciò che intendiamo oggi con quel termine, bensì erano i giudei messianisti, ovverosia i membri delle sette che aspiravano alla rinascita del regno di Yahwè e all'interno delle quali si individuavano le figure degli aspiranti messia, capi religiosi con la spada in mano.
Siamo noi che commettiamo il gravissimo errore di interpretare il movimento dei seguaci diretti di Cristo come se questi avessero già incorporato la filosofia espressa nel Nuovo Testamento, che rende spoliticizzato, degiudaizzato e pacifista il messaggio evangelico, prima ancora che Paolo lo avesse formulato.
In realtà, gli stessi Atti degli Apostoli, sebbene siano stati redatti col preciso scopo di far apparire la concezione neomessianica di Paolo come se fosse appartenuta a Gesù Cristo, proponendo in modo del tutto artificiale la continuità e la conformità là dove invece sussistono discontinuità e contrapposizione, finiscono per mostrare loro malgrado, con innegabile chiarezza, l'esistenza di un grave conflitto fra una corrente giudaizzante (identificata nelle persone come Simone e Giacomo, i fratelli di Gesù) e una corrente riformista con aperture ellenistiche (identificata nelle persone come Paolo e i suoi seguaci).
In un secondo tempo San Paolo avrebbe maturato un atteggiamento diverso, probabilmente rendendosi conto che la strada della semplice repressione politica, consistente nell'arresto e nella eliminazione fisica degli esponenti messianisti, non avrebbe funzionato molto, tanto più che le ideologie radicali del tipo esseno-zelotico non si fermavano davanti al martirio (abbiamo visto il comportamento dei cittadini di Gamla e degli assediati di Masada) ma, al contrario, ne traevano nuovo orgoglio e nuova energia combattiva. In pratica Paolo comprese che l'ideologia messianista tradizionale avrebbe potuto trovare un antagonista valido solo in un'altra ideologia, e che l'argine per ostacolare l'espansione del messianismo radicale nei diversi strati della popolazione ebraica, e per allontanare i suoi gravi pericoli, avrebbe potuto essere offerto solo da un altro messianismo, non così bellicoso, non così ispirato al nazionalismo yahwista, non così frontalmente ostile ai romani, ma comunque rispondente ad istanze che avessero una risonanza reale nella gente e in larghi strati di popolo.
Insomma, invece di seguire la via degli arresti e delle esecuzioni, Paolo preferì offrire un'alternativa all'idea della salvezza nazional-religiosa (questa fu la sostanza reale della sua conversione) e si adoperò per creare un messianismo più convincente di quello che, pur solleticando l'orgoglio etnico, che è il tratto distintivo di ogni ebreo, metteva tutti quanti di fronte al timore (poi confermato dalle vicende della guerra degli anni 66-70) che i romani ricorressero alla soluzione definitiva e che Israele precipitasse nella più sventurata delle catastrofi. È questa, e soltanto questa, la corretta chiave interpretativa attraverso la quale noi possiamo capire ciò che gli Atti degli Apostoli ci presentano, molto falsamente e opportunisticamente, come una semplice divisione di competenze fra Paolo e gli Apostoli giudaizzanti: evangelizzatore dei gentili l'uno, evangelizzatori degli ebrei gli altri.
Altro che divisione di competenze! La verità è che questi ultimi erano legati alla concezione messianica di derivazione maccabea, ovvero al patriottismo nazional-religioso degli esseno-zeloti, ostile per natura al mondo gentile; mentre Paolo aveva già sparso i semi di una filosofia di apertura al pensiero extragiudaico, al punto da rappresentare il suo Gesù Cristo con caratteristiche che appartenevano assai più agli dei incarnati e risuscitanti delle teologie gentili che non alla figura messianica delle profezie giudaiche.
Ora, noi abbiamo molti motivi per credere che Paolo, nella sua città di origine, Tarso, in Cilicia, abbia avuto contatti molto ravvicinati con le culture religiose ellenistiche ed orientali, anzi, proprio con i culti detti misteriosofici, in cui si celebravano complicati riti iniziatici. Di questi possiamo avere una bellissima descrizione divulgativa, accessibile anche ai non addetti ai lavori, nell'opera di J.G.Frazer, "Il Ramo d'Oro" (Newton Compton, 1992), dalla cui lettura possiamo arrivare a capire che certi elementi teologici della figura di Gesù Cristo devono essere stati mutuati dai culti extragiudaici come quelli di Attis, Adonis, Osiride, Dioniso, Mitra... mi riferisco alla nascita verginale, alla resurrezione dopo tre giorni di discesa agli inferi, all'innesto del concetto teofagico (cibarsi della carne e del sangue del Dio) sui contenuti del rito eucaristico esseno (la fractio panis di cui abbiamo visto nel manuale di disciplina di Qumran).
Ora, la quasi totalità dei cristiani nega che il Cristo giustiziato da Ponzio Pilato, con l'accusa di avere militato per diventare "re dei Giudei", avesse l'intenzione di diventare realmente "re dei Giudei" e abbia mai avuto a che fare col messianismo nazional-religioso degli esseni e degli zeloti. E supportano questa loro irremovibile convinzione sulla base della tradizionale immagine evangelica di un Gesù che predica amore, pace, perdono, non violenza, che contraddice alcune caratteristiche del pensiero ebraico messianista (Gesù siede a tavola coi gentili, deroga alla regola del sabato...), e considerano la vicenda del processo, della condanna e della esecuzione romana mediante crocifissione (il tipico destino dei latrones e dei sicarii, ovverosia degli zeloti) come un clamoroso equivoco giudiziario, da cui Pilato, vittima dei raggiri dei sacerdoti del tempio, esce praticamente scagionato, e con lui tutti i romani. Un equivoco generato dalle false accuse che i giudei avrebbero prodotto nel presentare Gesù a Ponzio Pilato, al fine di indurre proditoriamente i romani a giustiziarlo.
Ma il meccanismo non è questo! Il punto falso non risiede in quelle accuse di militanza esseno-zelota, bensì nell'immagine del Cristo apolitico, demessianizzato, addirittura quasi degiudaizzato, che propone nell'imminenza della Pasqua ebraica, ad una assemblea di giudei, cerimoniali di sapore nettamente gentile (l'eucarestia teofagica come rito sacrificale del dio incarnato), una immagine costruita a posteriori dalla scuola di San Paolo. E naturalmente non è legittimo dimostrare che il Cristo era un pacifista, che non era il Messia, che era estraneo ai movimenti esseno-zelotici, utilizzando a questo scopo i documenti che furono costruiti apposta per sostenere l'ideologia antimessianista e per alterare la figura di Cristo.
Insomma, quando noi leggiamo i Vangeli (i Vangeli del canone ecclesiastico, naturalmente, non la letteratura primitiva del giudeo-cristianesimo che, del resto, è stata opportunamente tolta di mezzo), noi non abbiamo davanti agli occhi l'immagine storica di Gesù Cristo, bensì l'immagine costruita artificialmente dalla revisione paolina come base della catechesi neocristiana. I Vangeli sono il manifesto antimessianista (e quindi anti-Cristo-della-storia) che ci mostra, non le idee di Gesù, ma le idee di Paolo e dei suoi seguaci, ovverosia di colui che è stato fra i nemici più accaniti di Cristo e che non si è affatto convertito ma che, in un secondo tempo, ha convertito l'ideale di Cristo, appartenente al pensiero giudaico più radicale, in una filosofia extragiudaica. Una conversione che è stata ripetuta in modo assai simile, tre secoli dopo, dallo stesso imperatore Costantino, che non si è mai convertito al cristianesimo di Gesù nel modo in cui sostiene una certa interpretazione storica, ma che ha trovato convenienti motivi per convertire ulteriormente la teologia cristiana e renderla sempre più compatibile con le religioni già in voga nell'impero romano (fu lui a volere energicamente il concilio di Nicea e a dare inizio ad un'epoca plurisecolare di caccia all'eresia).
In pratica, dopo queste molteplici e successive operazioni di ricostruzione teologica realizzate nell'arco di tre secoli, le cose che leggiamo oggi nei Vangeli servono a indicarci ciò che Gesù non era molto più di quanto non possano servire ad indicarci ciò che Gesù era. Anche se questa è un'idea inaccettabile da parte di coloro che sono innamorati dell'immagine neo-cristiana del Gesù figlio di Dio e che non possono tollerare che tale immagine sia ridotta dall'analisi storica ad un prodotto di pura creatività teologica.
Non possiamo dimenticare le parole scritte dai Padri della Chiesa Ireneo, Eusebio, Teodoreto: "...(gli Ebioniti) seguono unicamente il Vangelo che è secondo Matteo e rifiutano l'apostolo Paolo, chiamandolo apostata della legge...". (Ireneo, Adv. Haer., I, 26).
"...Gli Ebioniti, pertanto, seguendo unicamente il Vangelo che è secondo Matteo, si affidano solo ad esso e non hanno una conoscenza esatta del Signore...". (Ireneo, Adv. Haer., III, 11).
"...costoro pensavano che fossero da rifiutare tutte le lettere dell'apostolo (Paolo), chiamandolo apostata della legge, e servendosi del solo Vangelo detto secondo gli ebrei, tenevano in poco conto tutti gli altri...". (Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl., III, 27).
"...(I Nazareni) accettano unicamente il Vangelo secondo gli Ebrei e chiamano apostata l'apostolo (Paolo)...". (Teodoreto, Haer. Fabul. Comp. II, 1).
"...Essi sono Giudei che onorano Cristo come uomo giusto e usano il Vangelo chiamato secondo Pietro...". (Teodoreto, Haer. Fabul. Comp. II, 2).
Ma questi ebionitinazorei (o nazareni) ed ebrei, altri non erano che gli esseno-zeloti o i discendenti degli esseno-zeloti che si erano messi a tavola col Messia e avevano spartito il vino e il pane con lui, poco prima del suo arresto sul monte degli ulivi, e coi quali Paolo si era sempre trovato in conflitto al punto da essere considerato "uomo di menzogna" sia nei suddetti vangeli giudeo-cristiani, sia nei documenti qumraniani come il Commentario di Abacuc [vedi R.Eisenman "James the brother of Jesus"]. Ed è contro di loro che si è scatenata, per secoli, una severa censura storica ed ideologica, finalizzata agli interessi del riformismo neo-cristiano e della istituzione che di esso si era fatta rappresentante.
[8] Le catacombe - strutture ipogee, poi chiamate catacombe, furono usate fino al IX secolo con funzione soprattutto di cimiteri. L'uso dei cimiteri e di luoghi sacri costruiti sottoterra non va considerata comunque un'invenzione dei primi cristiani, in tempi molto antichi, fin dal neolitico, sono esistite parecchie popolazioni che hanno realizzato questo tipo di costruzioni, anche tra gli stessi Romani alcuni culti pagani venivano celebrati in particolari templi ipogei.  I cimiteri sotterranei si diffusero rapidamente tra le comunità cristiane sia in Italia sia in Africa.
Sono state scavate in forma di cunicoli, gallerie sotterranee che formano una rete sotto le città. Lungo le pareti dei cunicoli (cryptae) vi sono le sepolture più modeste, i loculi, nicchie rettangolari distribuite in più file, chiuse semplicemente da lastre di pietra o di cotto, decorate configurazioni, simboli (per esempio il pesce, simbolo di Cristo) o iscrizioni (per esempio vivas, “che tu possa vivere”). 
In certi punti vi sono poi tombe più ricche e più grandi, costituite da una o più camere per intere famiglie, decorate con pitture o stucchi. Si tratta dei cubìculi dove si trovano i sarcofagi dei personaggi più facoltosi. Sono stanze poligonali con soffitto a volte poggianti su colonne. Sulle pareti si trovano le nicchie, anche queste coperte da volte e spesso sovrastate da un timpano. Qui si trovano le decorazioni pittoriche. Nei cubicoli si trova spesso un tipo di sepolcro monumentale, l’arcosolio: profonda arcata cieca formante una nicchia che accoglieva un’arca.
L’arca è un sarcofago in pietra o marmo, ricoperto in genere da un coperchio in forma di tetto e spesso ornato di rilievi ed elevato su un basamento. Sul fondo della nicchia, la lunetta è spesso decorata con pitture.
Alla fine del III secolo, con la vittoria del Cristianesimo, aumentano nelle catacombe le sepolture dei personaggi facoltosi. Le più ambite sono quelle rese più illustri dalla presenza dei martiri, sulle quali sorgeranno anche importanti edifici di culto. L'imperatore Costantino, per esempio, farà erigere  a Roma un mausoleo (prima per sé, poi per la madre) sulla Catacomba dei santi Pietro e Marcellino. Per sua figlia Costanza erigerà un mausoleo sopra le Catacombe di Sant’Agnese, oggi meglio conosciuto come chiesa di Santa Costanza.
Durante il IV secolo d.C. le catacombe si estendono: oltre a quelle della Chiesa di Roma ne sorgono altre gestite da privati, come L’Ipogeo nuovo della via Latina, a Roma,  ricco di sfarzose pitture. In seguito vari fattori politici ed economici porranno fine ai grandi cimiteri cristiani.

[9] Eresia – Il termine eresia deriva dal greco hairesis che si traduce scelta, opinione. Pertanto essa è una dottrina che si oppone a una verità rivelata e proposta come tale dalla teologia di qualsiasi sistema religioso, considerati come ortodossi.
L’eretico sceglie letteralmente una parte della dottrina nella fattispecie cristiana, tralasciando più o meno volutamente altre parti.
Nel Nuovo Testamento il termine s'incontra 9 volte ed equivale a “strane dottrine”, a “sette”. Già Paolo distinse eresia da scisma; gli Apologeti e i Padri della Chiesa apportarono alla distinzione ulteriori precisazioni, definendo l'eresia “errore dottrinale” e lo scisma “divergenza d'ortodossia”. Con Girolamo il termine fu usato solo per indicare gruppi separatisi dalla Chiesa per false dottrine (dissenso dottrinale), mentre si chiamò scisma il distacco per rifiuto d'obbedienza alla gerarchia (dissenso disciplinare).
[10] Le origini dello Gnosticismo - Sin dal XIX secolo il problema delle origini dello Gnosticismo ha appassionato e diviso gli studiosi, che non hanno tutt’oggi una posizione univoca e definitiva sull’argomento.
Si può dire che esistono due principali “scuole di pensiero” sull’argomento:
·         Alcuni affermano, in vario modo, l’origine cristiana dello Gnosticismo rilevando i punti di contatto con la dottrina cristiana. Questa ipotesi, a lungo accantonata, è ritornata in auge dopo i contributi di Simone Petrement e, per restare in Italia, di Manlio Simonetti e Edmondo Lupieri;
·         Altri sostengono invece un’origine non cristiana, e precisamente orientale (iranica), di questo movimento religioso. È la tesi oggi maggiormente sostenuta: si pensi a Richard Reitzenstein, Mircea Eliade e Hans Jonas.
La biblioteca gnostica di Nag HammadiLa nostra conoscenza dello Gnosticismo è molto migliorata dopo la scoperta di una vera e propria biblioteca gnostica a Nag Hammadi, in Egitto. Il ritrovamento di testi sino a oggi sconosciuti ha, infatti, permesso di verificare le citazioni e i sunti della dottrina gnostica tramandatici dai Padri della Chiesa in opere antieretiche.
Quelle citazioni e quei sunti erano - a quanto pare - abbastanza precise, anche se lo studio diretto dei testi originali permette di allargare le conoscenze.
La dottrina gnostica in sintesi - Lo Gnosticismo non era un movimento unitario ma lacerato da profonde divisioni e frammentato in una moltitudine di sette e di scuole, a volte dagli usi e dalle dottrine diametralmente opposti.
Ciononostante è possibile riassumere sommariamente le loro dottrine in alcuni punti fondamentali.
1.       Secondo gli gnostici il mondo non è stato creato dal Dio di Gesù Cristo ma da un dio inferiore, il demiurgo, caratterizzato in modo negativo;
2.       La materia, creata dal demiurgo, è negativa. “Vivere nel corpo è come essere in esilio”, lontano dal vero Dio;
3.       Lo gnostico giunge a conoscenza di questa condizione grazie allo pneuma, lo spirito, inteso quasi come una scintilla divina sepolta nell’uomo, e per questa conoscenza è in grado di salvarsi, ritornando a Dio.
La Chiesa contro lo Gnosticismo - L’eco degli scontri tra cristiani e gnostici si fa sentire già negli scritti del Nuovo Testamento. Il Prologo del Vangelo di Giovanni sembra redatto proprio allo scopo di confutare la dottrina gnostica della creazione. Allo stesso modo altri scritti di Giovanni portano traccia dello scontro con alcune sette gnostiche particolari, come i nicolaiti e i doceti.
Il più importante avversario dello gnosticismo fu il vescovo Ireneo di Lione, autore di una monumentale opera dal titolo Contro le eresie.
In quest’opera come in testi antignostici di altri autori si evidenziano i punti di maggior distanza tra Cristianesimo e Gnosticismo: in particolare, è ribadita la generale bontà della creazione e affermata risolutamente la salvezza solo per l’opera mediatrice di Cristo, e non per una qualche particolare conoscenza.
[11] Il Concilio di Nicea – Costantino decise di tenere il primo grande concilio ecumenico nel 325 a Nicea, deciso per dirimere una questione fondamentale per il Cristianesimo dei primi tempi. Il presbitero Ario sosteneva la distinzione tra la figura del Padre (Dio) e quella del Figlio (cioè Gesù Cristo).
Nel 325, l'imperatore si decise di convocare un concilio per dirimere la questione fra cattolici e ariani. Il Concilio iniziò il 20 Maggio 325 alla presenza di circa 220 vescovi, in larghissima maggioranza della parte orientale dell'Impero.
Purtroppo non esistono documenti ufficiali di questo concilio. Dalle ricostruzioni seguenti soprattutto quella di Eusebio di Cesarea, vescovo amico e biografo di Costantino, sembra che gli interventi di Ario e dello stesso Eusebio, anch'egli su posizioni ariane, affermava molto palesemente che Cristo non era Dio, non furono tra i più felici: vinsero i moderati, che, dopo estenuanti discussioni, aderirono al cosiddetto Credo Niceno, dove, a proposito della natura di Cristo, si ribadiva il termine homooùsion (consustanziale, cioè della stessa sostanza del Padre e generato, e non creato, che è quello che si recita oggi nel Credo).
L'Arianesimo fu condannato, Ario fu mandato in esilio e i suoi libri bruciati, salvo poi ricomparire qualche anno più tardi, riabilitato, quando – secondo alcune fonti – riuscì a convincere anche Costantino stesso (ma su questo sarà necessario approfondire).
Molto si è discusso e si discute sul ruolo avuto dall'Imperatore durante il Concilio. Quel che si sa è che egli – guerriero, pagano, e assassino, ma mente assai illuminata – diresse personalmente i lavori, seduto su uno scranno più piccolo di quello dei vescovi, ma di oro massiccio, avvolto da un vestito di porpora splendente. Egli aveva programmato il concilio in modo da esserne il protagonista esclusivo, riservandosi il ruolo di presidente e di moderatore dei lavori.
E stupisce pensare che da un tale consesso scaturì la risoluzione di una questione teologica tra le più importanti per la storia del Cristianesimo.
Così importante che la formula è contenuta nel Symbolum Apostolorum, cioè il Credo fondante del Cristianesimo. Attenzione però, con una sottile differenza: quello originale recita così: Credo in Deum Patrem omnipotentem creatorem coeli et terrae. Et in Iesum Christum Filium eius unicum, Dominum nostrum, qui conceptus est De Spiritu sancto natus ex Maria Virgine
Qui, dunque, Gesù Cristo è soltanto il figlio di Dio. Nella elaborazione post-concilio di Nicea, il Credo diventa:
Credo in unum Deum,
Patrem omnipoténtem,
factórem cæli et terræ,
visibílium ómnium et invisibílium.
Et in unum Dóminum Iesum Christum,
Fílium Dei Unigénitum,
et ex Patre natum ante ómnia sǽcula.
Deum de Deo, lumen de lúmine, Deum verum de Deo vero,
génitum, non factum, consubstantiálem Patri:
per quem ómnia facta sunt.
Qui propter nos hómines et propter nostram salute
descéndit de cælis.
Et incarnátus est de Spíritu Sancto
ex María Vírgine, et homo factus est.
Crucifíxus étiam pro nobis sub Póntio Piláto;
passus et sepúltus est,
et resurréxit tértia die, secúndum Scriptúras,
et ascéndit in cælum, sedet ad déxteram Patris.
Et íterum ventúrus est cum glória,
iudicáre vivos et mórtuos,
cuius regni non erit finis.
Et in Spíritum Sanctum, Dóminum et vivificántem:
qui ex Patre Filióque procédit.
Qui cum Patre et Fílio simul adorátur et conglorificátur:
qui locútus est per prophétas.
Et unam, sanctam, cathólicam et apostólicam Ecclésiam.
Confíteor unum baptísma in remissiónem peccatórum.
Et exspécto resurrectiónem mortuórum,
et vitam ventúri sǽculi. Amen.
Come si vede, una differenza non da poco: Qui, il Figlio è "generato e non creato, ed è della stessa sostanza del Padre".  Padre e Figlio, cioè sono la stessa cosa:  è la consustanzialità.
Eppure, questo principio - dopo millenni - è ancora oggetto di scontri e dispute teologiche. Il Dio dei cristiani è uno solo?  O sono due – il padre e il figlio? O tre, come sostiene il mistero trinitario, espresso dallo stesso Credo?
[12] Regni romano-barbarici - Regni nati dall’insediamento di popolazioni germaniche nei territori dell’impero romano d’occidente.
Nella prima metà del V secolo questi popoli furono accolti come federati nell’impero occidentale, che intendeva così ottenere un rilevante appoggio militare ed evitare un loro insediamento in aree troppo vicine all’Italia.
A questa fase risale la formazione dei regni:
·         visigoto (tra Francia meridionale e Spagna),
·         suebo (Spagna occidentale),
·         vandalo (Africa)
·         burgundo (bacino del Rodano).
Nel 476 Odoacre creò in Italia un regno di tutte le popolazioni germaniche lì stanziate, ma dopo pochi anni fu travolto dagli ostrogoti, mentre un altro regno fu istituito dai franchi in gran parte della Gallia.
I germani insediati in questi regni imitarono lo stile di vita delle popolazioni locali, conservando anche molte istituzioni romane; lo stesso potere del re perse il precedente carattere puramente militare, divenendo un potere di tipo territoriale.
I regni più solidi furono quelli in cui fu più forte la solidarietà tra germani e latini, soprattutto dove gli invasori si convertirono dall’arianesimo al cattolicesimo.
[13] Franchi – La popolazione franca si formò nella prima metà del III secolo dall’unione di diverse tribù germaniche. Comparsi intorno al 235 sulla riva orientale del basso Reno, compirono incursioni nelle province romane Germania e Belgica, apparendo ai Romani come dei giganti dai capelli rossi e dai lunghi baffi, abili combattenti a piedi e specializzati nel lancio della scure a doppio taglio.
Nel IV secolo, sconfitti da Aureliano, furono ammessi nell’esercito romano come ausiliari
Nel 357 i Franchi che si stabilirono ad occidente della Mosa ebbero da Giuliano l’Apostata lo status di foederati. Essi furono allora chiamati con il nome di franchi salii, mentre quelli rimasti sulla riva destra del Reno furono chiamatifranchi ripuari.
Nel 451 furono alleati di Ezio ai Campi catalaunici, contro gli Unni
Alla fine del V secolo, i Franchi avevano fatto della Renania e del Belgio settentrionale regioni interamente germanizzate: i Franchi ripuari si impossessarono di Colonia e Treviri, mentre i Franchi salii arrivarono fino alla Loira.
Dinastia di re dei franchi salii, stanziati nella regione di Tournai, che con il re Clodoveo unificò e ampliò a tutta la Gallia il regno franco.
Nel 486, Clodoveo eliminò i resti dell’esercito romano in Gallia, nel 496 sconfisse sul Reno gli Alemanni e cominciò a penetrare nella Gallia visigota.
Nel 498, con il battesimo di Clodoveo, i Franchi godettero dell’appoggio dei vescovi della Gallia e condussero la guerra contro i visigoti ariani anche in nome della religione.
Nel 507, dopo la battaglia di Vouillé, annetté la Gallia visigota.
Prima di morire, Clodoveo riuscì ad imporre la sua autorità anche sui ripuari.
Benché diviso in quattro regni, il popolo franco restò per due secoli inquadrato dal potere dei Re merovingi, una dinastia che deriva il nome dal loro capostipite, Meroveo, fu la prima dinastia dei franchi.
I re Merovingi sono stati chiamati a lungo re fannulloni, per il fatto che il loro potere ben presto si affievolì a favore di un casato di servi, i Pipinidi. Le implicazioni e le cause di ciò sono tante, tra storicità e leggenda, e spiegano anche le ragioni di un altro epiteto dei Merovingi: re taumaturghi. Al tempo dei Merovingi il potere politico era diviso tra il re e il signore o maggiordomo di palazzo. Allo stesso modo infatti, formalmente il Maggiordomo non poteva avere un potere maggiore del suo sovrano, tuttavia era proprio il Signore di Palazzo che radunava le truppe al campo Maggio (il campo Maggio era il campo nel quale venivano reclutate le truppe dell'esercito) e portava avanti le campagne militari.
Proprio questo potere che cresceva sempre di più nelle mani dei maggiordomi, permise ai maestri di palazzo Pipinidi, dalla quale proveniva la maggior parte dei signori di palazzo, prese progressivamente il sopravvento sui Merovingi per poi sostituirli completamente assumendo nel 751 il titolo regio con Pipino il Breve.
[14] Visigoti - Si installarono in Dacia nel III secolo. Nel corso del secolo successivo si insediarono come federati nell’impero e si convertirono all’arianesimo.
All’inizio del V secolo si spostarono verso occidente, prima in Italia, dove saccheggiarono Roma nel 410, poi nell’area compresa tra la Spagna e la Gallia sudoccidentale dove si insediarono, abbandonando poi la Gallia all’inizio del VI secolo per la pressione militare del franco Clodoveo.
Seppero creare, anche prima della conversione al cattolicesimo, un’efficace convivenza con l’aristocrazia romano-iberica, di cui rispettarono l’ordinamento religioso e da cui trassero importanti collaboratori nell’organizzazione amministrativa del regno, con centro a Toledo. Tuttavia solo la conversione e lo stretto legame tra la monarchia e l’episcopato, dalla fine del VI secolo, favorirono la fusione culturale ed etnica delle due stirpi, la cui aristocrazia unì modelli culturali romani con uno stile di vita militare di tradizione germanica.
La loro costante debolezza politica permise però la conquista araba, tra il 711 e il 713, che pose fine al regno visigoto.
[15] Vandali - Antica tribù germanica originaria dello Jütland. Si scontrarono con i romani, quando, occupata e devastata la Gallia nel 406, si trasferirono in Spagna e vi si insediarono. Passati in Africa sotto la guida di Genserico, furono riconosciuti come federati nel 435. Ma Genserico, dichiarata l’indipendenza, attaccò e saccheggiò Roma nel 455.
[16] Impero bizantino - Organismo politico che per tutto il Medioevo continuò in oriente l’impero romano, reggendosi intorno alla capitale Costantinopoli (l’antica Bisanzio, restaurata e ribattezzata da Costantino nel 330).
Il suo atto d’origine può datarsi al 395, quando alla morte di Teodosio l’impero fu diviso in una parte occidentale e in una orientale, oppure al momento della caduta di Roma nel 476, quando Odoacre inviò a Costantinopoli le insegne imperiali.
Fino a circa la metà del VII secolo, grazie anche alla riconquista dell’Italia, dell’Illirico e dell’Africa da parte di Giustiniano (527-565), mantenne aspirazioni di dominio universale, espresse dalla monumentale raccolta del Corpus giuridico e dalla edificazione di Santa Sofia a Costantinopoli.
Potenza e ricchezza dell’impero durarono inalterate, nonostante le tensioni e le tendenze autonomistiche delle province accese dai conflitti religiosi interni, fino al regno di Eraclio (619-641), il quale sconfisse i Persiani, ma dovette cedere agli Arabi Siria, Egitto e Africa.
Nei decenni seguenti, furono persi i Balcani continentali colonizzati dagli Slavi, gran parte dell’Italia invasa dai Longobardi e gli Arabi arrivarono a minacciare direttamente Costantinopoli. La salvezza e la resistenza dell’impero (ridotto sostanzialmente al dominio dell’Asia minore, della penisola balcanica e di parte dell’Italia meridionale) furono assicurate dall’azione militare e dall’opera di riorganizzazione e riforma interna di nuove e forti dinastie, succedutesi fino alla fine del XII secolo.
Per primi gli Isaurici (717-802), che con Leone III arrestarono l’avanzata degli Arabi battuti ad Akronos nel 739 e, nel tentativo di consolidare il potere imperiale, promosse l’iconoclastia, scatenando violente reazioni interne e la scomunica da parte di papa Gregorio III.
Quindi Basilio I il Macedone e i suoi successori (867-1057) che riportarono l’impero alla sua antica potenza, strappando agli Arabi parte dei territori perduti in Italia e soprattutto riassoggettando i Balcani, con la sconfitta dei Bulgari nel 1014.
Un grave indebolimento del potere imperiale, a vantaggio delle famiglie magnatizie dei grandi proprietari fondiari, coincise con un nuovo più grave periodo di crisi, dovuto all’attacco dei turchi, che si impadronirono dell’Armenia, della Cappadocia, della Mesopotamia e di parte della stessa Anatolia, mentre i Normanni conquistavano tutta l’Italia meridionale e attaccavano Macedonia ed Epiro.
I problemi interni e i pericoli esterni furono combattuti ancora con grande energia dai Comneni (1081-1185), specialmente i primi tre restaurarono l’impero rinvigorendo l’apparato militare contro la burocrazia della capitale. Fecero larghe concessioni fondiarie alle famiglie aristocratiche in cambio del servizio militare. Da un lato ciò rafforzò l’esercito, ma dall’altro causò un processo di feudalizzazione a danno del potere centrale. Con un’abile politica di alleanze, in particolare con i crociati e con Venezia, i Comneni riuscirono per lungo tempo a contenere i normanni dell’Italia meridionale e i russi. I Comneni attuarono tuttavia quella politica di apertura all’Occidente e ai suoi mercanti e di alleanza con le spedizioni crociate, che doveva infine condurre allo scontro fra bizantini e latini e alla decadenza definitiva dell’impero orientale.
Questa si manifestò sotto gli Angeli (1185-1204), quando nei Balcani Bulgaria e Serbia riacquistarono l’indipendenza e la quarta crociata guidata dai veneziani si impadronì di Costantinopoli nel 1204. Il suo territorio rimase diviso in impero latino a Costantinopoli, imperi grecobizantini di Trebisonda (sul mar Nero) e di Nicea (in Anatolia) e despotato bizantino in Epiro.
Nel 1261 Michele VIII Paleologo imperatore di Nicea si alleò con Genova contro Venezia, riconobbe la supremazia ecclesiastica di Roma e tentò di ripristinare i confini del XII secolo. riconquistò Costantinopoli, ma gli occidentali e i veneziani rimasero nel Peloponneso e nelle isole ionie ed egee, mentre i turchi si impadronivano dell’Anatolia.
L’organizzazione militare e burocratica e il governo autocratico dell’imperatore non ressero alle continue crisi di successione dinastica, alla crescita della forza centrifuga delle potenti aristocrazie fondiarie provinciali, alla lenta e inesorabile decadenza della fortuna economica e della potenza navale, determinata dall’espansione prima dei musulmani e poi dell’Europa latina: agli inizi del 1400 non restava più che la provincia intorno alla capitale e una parte dell’Acaia.
Nel 1453 i turchi presero Costantinopoli e nel 1461 anche Trebisonda, ponendo fine alla millenaria storia dell’impero bizantino.
[17] Bisante –  Il bisante è il nome medioevale delle monete d'oro bizantine. Nell'Europa del primo Medioevo le monete d’oro non erano battute mentre le valute più diffuse erano in argento e bronzo, tuttavia circolavano in piccole quantità, provenienti dalla regione del Mar Mediterraneo, in particolare erano altamente stimate le monete d'oro del mondo islamico (dīnār) e bizantino. Queste monete d'oro erano comunemente chiamate bisanti, dalla parola Byzantium, forma latinizzata del nome greco della capitale, Costantinopoli, da dove generalmente venivano le monete d'oro e a cui erano associate. Il rapporto tra oro ed argento in questo periodo era di 1:9 e, generalmente, le monete d'oro erano usate quando i pagamenti avevano qualche speciale significato rituale o per mostrare una qualche forma di rispetto.
La monetazione in oro fu reintrodotta in Europa nel 1252, quando Firenze iniziò a battere la moneta d'oro conosciuta con il nome di fiorino.
[18] Costantinopoli - Il luogo prescelto da Costantino era un piccolo borgo chiamato Bisanzio, godeva di una posizione strategica eccezionale, sulla punta di una penisola che dominava le vie di comunicazione dei Paesi posti tra il Mar Nero e il Mediterraneo; se vi si fosse stata costruita una piazzaforte, questa avrebbe potuto sorvegliare e tenere a bada i Goti a nord del Mar Nero e i Persiani a sud.
Il porto, d’altronde, poteva controllare tutto il commercio tra i Paesi del Mediterraneo, quelli del Vicino Oriente e le terre ricche di grano delle rive del Mar Nero. Per questi motivi Costantino incominciò a edificare in quel luogo una «nuova Roma».
Nel 330 la città, chiamata Costantinopoli, fu solennemente inaugurata.
Caduto l'Impero Romano d'Occidente, per tutto il Medioevo, Costantinopoli restò capitale dell'Impero Bizantino, e la più grande e ricca città d'Europa: nel X secolo contava un milione di abitanti.
La base del diritto romano fu gettata a Costantinopoli da Giustiniano, che tra il 528 e il 565 formò il Corpus Iuris Civilis.
Dotata di un notevole impianto di fortificazioni, la città rimase per secoli inespugnata, fino al 1204, quando fu saccheggiata dagli eserciti della quarta crociata al comando di Enrico Dandolo e Bonifacio I del Monferrato che insediarono un Impero Latino, che durò per poco più di mezzo secolo, fino a Baldovino II, quando nel 1261 la città fu riconquistata dai bizantini.
La conquista crociata aveva accelerato il lento declino della città, iniziato da tempo.
I bizantini la tennero per altri due secoli fino a Costantino XI, quando, il 29 maggio 1453, divenuta una testa senza corpo, capitale di un impero inesistente, ospitava solamente 50.000 abitanti, cadde in mano ai turchi ottomani guidati da Maometto II il Conquistatore, che ne fece la capitale dell'Impero Ottomano.
La caduta di Costantinopoli, e quindi la fine dell'Impero Romano d'Oriente, è indicata come l'evento che convenzionalmente chiude il Medioevo e inizia l'Evo moderno.
[19] Giustiniano - Nipote e successore di Giustino col quale collaborò fin dal 518, fu da lui associato al trono.
Il suo lungo regno fu caratterizzato da una attenta restaurazione dell’antico impero romano in tutti i suoi aspetti. Questo disegno politico si attuò soprattutto nel campo del diritto.
Abile nella scelta dei suoi collaboratori, Giustiniano affidò la riforma della legislazione a Triboniano, incaricandolo di mettere ordine nell’immenso materiale legislativo prodotto dall’impero romano, così da renderlo immodificabile, pur lasciando spazio alle nuove leggi bizantine.
Ne risultò il Corpus iuris civilis realizzato in quattro parti:
·         il Codex, raccolta degli editti imperiali;
·         il Digesto, raccolta dei maggiori scritti dei giuristi romani;
·         le Institutiones, manuale per lo studio del diritto;
·         le Novellae, leggi successive al codice.
Dal punto di vista religioso l’imperatore cercò di far prevalere la ragione di stato, perseguendo l’unità religiosa. Per questo nel 533 fece condannare i cosiddetti tre capitoli del concilio di Calcedonia, cercando nel contempo di salvare le altre decisioni di quel concilio e di accontentare i monofisiti: in realtà la sua azione non portò ai risultati sperati perché creò uno scontento generale che aumentò la tensione preesistente.
Le sue ambizioni politico-militari erano dirette alla riconquista dell’antico impero romano. Grazie all’aiuto di Belisario, riaffermò la pace sui confini orientali con il regno persiano nel 532, recuperò le coste dell’Africa (533-534), parte del sud della Spagna in mano ai Visigoti nel 554 e l’Italia, dove gli Ostrogoti sostennero una resistenza ventennale che fu piegata solo dal generale stratega Narsete nel 555.
Il progetto giustinianeo ebbe però breve durata poiché la restaurazione territoriale mancava di solide basi e l’imperatore lasciò ai suoi successori un impero in completa rovina economica e finanziaria incapace di resistere alle pressioni esterne.
[20] Maometto (575-632) è il profeta che si dice scelto da Dio per comunicare agli Arabi la vera religione ri­velatagli dall’arcangelo Gabriele e regi­strata fedelmente nel Corano, il libro sacro della religione musulmana.
La nuova dot­trina predica l’esistenza di un solo Dio, Al­lah, al quale si deve una sottomissione in­condizionata (= Islam, termine che designò la religione nel suo complesso e il mondo che la pratica); questa richiede l’ubbidienza a cinque precetti fondamen­tali:
·         il giuramento di fede,
·         la preghiera ri­tuale cinque volte al giorno,
·         il digiuno du­rante il mese del ramadan,
·         l’elemosina legale (una sorta di tassa da versare alla co­munità),
·         il pellegrinaggio alla Mecca.
Maometto organizzò i suoi fedeli in una specie di Stato teocratico ed i suoi successo­ri cominciarono un processo di espan­sione che, tra il VII e la prima metà dell’VIII secolo, estese i confini dell’Islam dalla Spagna alla Siria, dall’Egitto all’Asia occidentale, amalgamando popo­li e culture diverse.
[21] Guerra santa o gihâd - Termine arabo che significa letteralmente sforzo o impegno. Esso indica per il musulmano, la guerra santa, intesa sia come opera missionaria per la propagazione della fede sia come vera e propria lotta armata contro gli infedeli.
[22] Califfo - Termine impiegato per indicare il Vicario o Successore di Maometto alla guida politica e spirituale della Comunità islamica. La massima magistratura islamica non è prevista nel Corano e neppure nella Sunna di Maometto e fu quindi realizzata da alcuni fra i primissimi compagni del Profeta nella stessa giornata della sua morte, l'8 giugno 632.
Per evitare probabilmente che i musulmani di Medina scegliessero come successore politico di Maometto uno dei loro, un gruppo di musulmani meccani riuscirono a far sì che il prescelto fosse per l'appunto Abū Bakr che, per essere stato il miglior amico di Maometto e verosimilmente il primo uomo convertitosi all'Islam, era assai apprezzato da tutti e garantiva perciò una linea di comportamento non dissimile da quella messa in atto dal Profeta.
L'espressione usata per indicarlo fu quindi "khalīfat rasūl Allāh" (vicario, o successore, dell'Inviato di Dio).
[23] Carlo Martello - Maestro di palazzo dei re franchi. Figlio naturale di Pipino di Héristal, resse di fatto il regno franco come maggiordomo degli ultimi re merovingi, grazie al prestigio conquistato con le vittorie militari. Sconfisse gli arabi a Poitiers nel 732. Favorì la cristianizzazione delle popolazioni settentrionali sottomesse e mantenne buoni rapporti con i longobardi.
[24] Leone III di Bisanzio - Noto anche come Leone III l'Isaurico fu imperatore bizantino dal 717 sino alla sua morte nel 741.
Elevato al trono nel 717 in sostituzione di Teodosio III, vinse l'anno dopo gli Arabi, che assediavano Costantinopoli, e li respinse fino all'Eufrate.
Dopo la vittoria militare si dedicò alle riforme interne dello stato, ormai precipitato nell’anarchia, provvide a rappacificarsi con i popoli slavi e riorganizzò le forze armate. Grazie a tutto questo poté con maggior facilità respingere i successivi tentativi da parte dei Saraceni di invadere l'impero nel 726 e nel 739.
Nel suo regno introdusse numerose riforme fiscali, liberò dalla schiavitù i servi e introdusse nuove leggi marittime, sollevando molte critiche da parte dei ceti più nobili e del clero.
In campo religioso dapprima promosse una campagna per il battesimo della popolazione, in seguito si batté per eliminare il culto delle immagini sacre, l’iconoclastia, ormai troppo diffuso nell'Impero, andando anche contro le opinioni della Chiesa di Roma e di Papa Gregorio II che lo scomunicò. La condanna di Leone fu confermata anche dal successore Gregorio III che, nel 731 riunì un sinodo apposito per condannarne il comportamento.
Leone III decise allora di portare la Grecia ed il sud dell'Italia sotto l'egida del Patriarca di Costantinopoli e, a tal fine, promosse una campagna militare nel 737.
[25] Stato della Chiesa - La formazione del patrimonio temporale della Chiesa romana risale a una serie di donazioni fondiarie (secoli IV-VI).
Nell’insufficienza del potere imperiale bizantino, il patrimonium Sancti Petri divenne la base territoriale per l’azione politica della sede apostolica nell’Italia centrale: con gli accordi tra papa Stefano II e Pipino il Breve nel 754 poggianti sulla Donazione di Costantino, essa figurò come autorità sovrana su vasti territori compresi tra il Po e Benevento.
La donazione di Costantino è un documento apocrifo attribuito a Costantino I (IV secolo). Rivolto a papa Silvestro I, si compone di due parti: una, agiografica, narra la leggenda di san Silvestro, secondo la quale l’imperatore fu guarito dalla lebbra dal papa; l’altra espone la gerarchia ecclesiastica e narra la donazione da parte di Costantino alla Santa sede della parte occidentale dell’impero, compresa la città di Roma. La redazione risale probabilmente alla seconda metà dell’VIII secolo. È però opinabile anche una sua composizione in occasione dell’incoronazione di Carlo Magno nell’800.  Dopo l’età carolingia la Donazione
fu riesumata da Leone IX nel 1053, passando poi nel Decretum Gratiani e in altre raccolte di decretali, essendo considerato documento di tutto rispetto dagli stessi avversari del potere temporale dei pontefici. La falsità del documento, già ipotizzata da Ottone III per motivi formali come la mancanza del sigillo, fu poi dimostrata in base a incontrovertibili argomenti storici e linguistici da Nicolò Cusano e da Lorenzo Valla nel De falso credita et ementita Costantini donatione nel XV secolo.
Con la Riforma gregoriana il papato si liberò della giurisdizione tutelare esercitata dall’impero sulle terre della chiesa. La simonia, i patrimoni ecclesiastici, il matrimonio e il concubinato dei preti erano così diffusi che le austere arringhe dei religiosi più intransigenti trovarono ampi consensi fra gli strati popolari. Il movimento della riforma mirò alla moralizzazione del clero, a togliere all’impero il diritto di nominare i vertici della gerarchia ecclesiastica e alla trasformazione del papato in una monarchia, tale da permettere una più agevole riorganizzazione della chiesa. Le proteste e i fermenti di rinnovamento arrivarono soprattutto dai monaci che avevano subito l’influenza dell’abbazia di Cluny, che appoggiò il papato nella Riforma; in Italia si schierarono contro il clero corrotto Romualdo di Ravenna, fondatore dell’eremo di Camaldoli, e Giovanni Gualberto, fondatore dei vallombrosani, mentre in Lombardia si diffondeva il movimento della pataria. Di fronte a tutte queste richieste interne all’organismo ecclesiastico, il papato si impegnò in un’azione di riforma; in particolare tutta l’opera di Gregorio VII fu rivolta al risanamento del comportamento del clero e alla riorganizzazione del mondo ecclesiastico in un sistema monarchico di governo.
Dal XIII secolo in poi i papi elevarono la sovranità diretta sul loro territorio a garanzia della libertas ecclesiae. Innocenzo III (1198-1216) divise lo Stato pontificio in quattro province, affidate a rettori: Campania (basso Lazio), Patrimonio (alto Lazio), ducato di Spoleto, marca di Ancona.
Durante la cattività avignonese (1309-1377) il controllo dello Stato pontificio fu ripreso dal cardinale Albornoz, che con le Constitutiones del 1357 diede a esso una legislazione unitaria, rimasta in vigore fino al 1816. Non fu però eliminato il problema delle signorie detenute come vicariati del papa, rafforzatesi durante il Grande scisma (1378-1417): il loro smantellamento, avviato nel Rinascimento mentre lo Stato pontificio si inseriva nel sistema politico delle potenze europee, fu portato a termine da Giulio II (1503-1513) con il recupero di Bologna, Perugia e della Romagna.
Il papato della Controriforma utilizzò le risorse statali come supporto finanziario per il rilancio del suo universalismo; tali esigenze portarono con Sisto V (1585-1590) all’adozione di riforme centralistiche nell’amministrazione dello stato, affidate alla Consulta e poi alla Congregazione del buon governo, che tuttavia non poterono vincere la rete dei particolarismi che, complice il nepotismo e i favori della corte, bloccarono nei secoli XVII-XVIII lo sviluppo economico e sociale dello Stato pontificio in una rete di gerarchie parassitarie.
Sopravvissuto fino a Napoleone, con la costituzione del Regno d’Italia esso fu privato delle regioni più sviluppate: perdita di Emilia-Romagna con la pace di Tolentino del 1797 e annessione delle Marche nel 1809. La sua esistenza, salvata dal cardinale Consalvi al congresso di Vienna nel 1815 ed emendata da Pio IX con la concessione dello Statuto del 1848, fu dichiarata finita dalla Repubblica romana nel 1849 e poi cancellata dalle truppe piemontesi che conquistarono i territori dello stato (1859-1860) e poi la capitale nel 1870.
[26] Teodolinda - Di stirpe bavara, nel 589 sposò il re Autari e nel 591, alla sua morte, trasmise il titolo regio al nuovo marito, Agilulfo, duca di Torino. Fu protagonista dell’avvicinamento tra il regno e il papato, con la conversione del popolo longobardo al cattolicesimo. Morto Agilulfo nel 616, resse il governo a nome del figlio minorenne Adaloaldo.
[27] Donazione di Sutri - Cessione formale a papa Gregorio II dei castelli di Sutri, Bomarzo, Orte e Amelia da parte del re longobardo Liutprando. Contestuale alla formulazione dell’apocrifa Donazione di Costantino, è convenzionalmente ritenuta l’origine dello Stato della chiesa e del potere temporale dei papi.
[28] La Regola Benedettina - Nel monastero di Montecassino Benedetto compose la sua Regola. Prendendo spunto da regole precedenti, in particolare quelle di san Giovanni Cassiano e san Basilio egli combinò l'insistenza sulla buona disciplina con il rispetto per la personalità umana e le capacità individuali, nell'intenzione di fondare una scuola del servizio del Signore.
La Regola benedettina, in latino denominata Regula monachorum o Sancta Regula, dettata da San Benedetto da Norcia nel 534, consta di un Prologo e di settantatre capitoli. È una dettagliata regolamentazione dei diversi aspetti della vita monastica, che è organizzata intorno a quattro assi portanti, volti a permettere di fare fronte alle tentazioni impegnando continuamente ed in modo vario il monaco: la preghiera comune, la preghiera personale, lo studio e il lavoro.
La Regola, dotta e misteriosa sintesi del Vangelo, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci, diede nuova ed autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci e la figura dell'abate, padre amoroso, mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora.
I monasteri che seguono la Regola di san Benedetto sono detti benedettini. Anche se ogni monastero è autonomo sotto l'autorità di un abate, si organizzano normalmente in confederazioni monastiche, delle quali le più importanti sono la congregazione cassinense e la congregazione sublacense, originatesi rispettivamente attorno all'autorità dei monasteri benedettini di Montecassino e di Subiaco.
[29] Carolingi – I Carolingi regnarono in Europa dal 750 fino al X secolo. I Carolingi devono il loro nome a Carlo Martello, maggiordomo di palazzo dell'Austrasia, del quale la vittoria a Poitiers interruppe l’avanzata degli Arabi verso nord, e gli donò un’immensa fama nell'occidente cattolico.
La dinastia dei Carolingi ha le sue origini nella famiglia dei Pipinidi, che ebbero la carica di maggiordomi di palazzo sotto il regno dei sovrani merovingi d'Austrasia. Man mano che il potere della dinastia merovingia andava diminuendo, i maggiordomi di Palazzo Pipinidi accrebbero il loro potere: già Pipino di Herstal dirigeva in modo quasi autonomo la politica del regno; così, nominavano i duchi, i conti, negoziavano gli accordi con i paesi vicini, dirigevano l'esercito, estendevano il territorio del regno e arrivavano perfino a scegliere i re merovingi.
Il territorio particolarmente apprezzato dai Pipinidi, fu la regione di Liegi, Aquisgrana e Colonia.
Pipino il Breve mise fine alla dinastia merovingia nel 751: stanco di dover dipendere da re inutili e fastidiosi, fece rinchiudere Childerico III, e si proclamò re al suo posto, diventando così il primo re dei Franchi carolingi.
Carlo Magno, figlio di Pipino il Breve, è senza alcun dubbio il sovrano che segna maggiormente l'epoca carolingia, per la longevità del suo regno, ma anche grazie al suo carisma, alle sue conquiste militari e alle sue riforme.
Dopo la morte del figlio di Carlo Magno, Ludovico il Pio, divise il regno tra i suoi figli; il territorio fu diviso da est ad ovest in tre regni:
·         Lotario I ereditò il titolo imperiale e la parte centrale del regno il suo regno comprendeva inoltre le capitali politiche (Aquisgrana) e religiose (Roma) dell'impero. Il titolo imperiale perse però la sua importanza: dopo il trattato di Verdun, Lotario conservò la dignità imperiale, che non corrispondeva più a nessun potere superiore a quello degli altri re.
·         Ludovico II il Germanico ricevette la parte orientale dove fondò una dinastia che regnò sulla Germania fino al 911.
·         Carlo il Calvo ottenne la parte occidentale dell'impero dove rimarrà la dinastia carolingia fino all'arrivo dei Capetingi nel 987.
Alla fine del IX secolo, delle vere e proprie armate vichinghe portano devastazione fino al cuore del regno occidentale. I re carolingi sembravano impotenti. Carlo il Calvo cercò di costruire delle fortificazioni aggiuntive e chiese ai capi dell'aristocrazia di difendere le regioni minacciate:
·         Roberto il Forte fu messo dal re alla testa di una marca occidentale; morì combattendo contro i Vichinghi nel 866.
·         Il conte Oddone difese Parigi contro un attacco venuto dalla Senna nel 885.
Questi nobili acquistarono un immenso prestigio che contribuì all'indebolimento del potere reale. Le vittorie militari erano ormai attribuite ai marchesi e ai conti.
L'incapacità dei Carolingi di risolvere il problema scandinavo era manifesta: nel 911, Carlo il Semplice cedette la Bassa Senna al capo vichingo Rollone, e si rimise a lui per difendere l'estuario e il fiume, in aiuto di Parigi. Questo clima d'insicurezza  accelerò la disgregazione del potere carolingio.
Ad Est si profilò una nuova minaccia con l'arrivo dei Magiari, un popolo delle steppe che occupò la Pannonia. Fanno le loro prime incursioni ai margini dell'impero, in Moravia nel 894, in Italia nel 899. Nel 907, il regno slavo della Grande Moravia cedette a causa dei nuovi invasori.
Dalla fine del IX secolo, i re Carolingi regnarono troppo poco tempo per essere efficaci:
·         Luigi II il Balbo restò re dei Franchi per soli due anni (877-879);
·         Carlo III il Grosso fu re per 3 anni (879-882);
·         Luigi V morì in un incidente di caccia dopo solo un anno di regno (986-987),
quindi, non riuscirono ad imporre una politica a lungo termine.
Dalla fine del IX secolo, alcuni aristocratici che non facevano parte della famiglia dei Carolingi accedettero al potere: nel 888, dopo la morte di Carlo il Grosso, Berengario I gli succede sul trono d'Italia.
Nel X secolo, le dinastie che si imposero dappertutto nel territorio carolingio non discendevano più da quella carolingia.
Alla fine del X secolo, l'autorità centrale carolingia sparì, a vantaggio degli aristocratici, in particolare dei principi territoriali; è la fine della dinastia carolingia e il trionfo delle stirpi aristocratiche.
[30] S.R.I. – Sebbene si consideri il 962 come anno di fondazione del Sacro Romano Impero da parte di Ottone I, è preferibile legare l'inizio del Sacro Romano Impero alla incoronazione di Carlo Magno come Imperatore dei Romani nell'800.
La maggioranza degli storici considera che l'instaurazione dell'Impero sia stato un processo avviato dalla spartizione del Regno Franco attuata dal Trattato di Verdun nell'843 proseguendo la dinastia Carolingia in modo indipendente nelle tre sezioni.
Il duca di Sassonia, incoronato Imperatore col nome di Ottone I il Grande nel 962 ebbe la benedizione del Papa. Ottone aveva guadagnato molto del suo potere, quando nel 955 aveva sbaragliato i Magiari nella Battaglia di Lechfeld.
La sua incoronazione è indicata come una translatio imperii, trasferimento dell'Impero, sottintendendo che c'era e ci sarebbe stato sempre un solo Impero, iniziato con Alessandro Magno, passato ai Romani, poi ai Franchi, e finalmente al Sacro Romano Impero.
Gli imperatori tedeschi si consideravano quindi i diretti successori dell'Impero Romano; e per questo motivo inizialmente si davano il titolo di Augusto. Inizialmente essi non si chiamarono ancora Imperatori Romani, probabilmente per non entrare in conflitto con l'Imperatore Romano che ancora esisteva a Costantinopoli. Il termine Imperator Romanorum divenne comune solo successivamente all'epoca di Corrado II il Salico.
A quel tempo, il regno di Germania fu non tanto tedesco, quanto una confederazione delle vecchie tribù germaniche dei Bavaresi, Alemanni, Franchi e Sassoni. L'Impero come unione politica sopravvisse solo per la forte personalità di Ottone: anche se formalmente eletto dai capi delle tribù germaniche, nella realtà riuscì a designare il loro successori.
Questo cambiò dopo Enrico II, morto nel 1024 senza figli, quando Corrado II, primo della dinastia Salica, fu eletto Re nello stesso anno solo dopo qualche controversia. Il re era scelto con una complicata combinazione di influenza personale, lotte tribali, eredità ed acclamazione da parte dei capi chiamati a formare l'assemblea dei Grandi Elettori.
Già a quel tempo il dualismo fra i territori, quelli delle vecchie tribù radicate nelle terre dei Franchi, ed il Re/Imperatore, divenne solo apparente. Ciascun Re preferiva passare la maggior parte del tempo nei suoi territori. Questa pratica cambiò solo al tempo di Ottone III Re nel 983, imperatore dal 996 al 1002, che cominciò ad utilizzare le sedi vescovili sparse nell'Impero come sedi temporanee del governo. Anche i suoi successori Enrico II, Corrado II ed Enrico III, apparentemente riuscirono a legare i Duchi al territorio. Non è, quindi, una coincidenza se all'epoca la terminologia cambia e si trovano le prime occorrenze del termine Regnum Teutonicum.
La gloria dell'impero si estinse quasi nella Lotta per le investiture, durante la quale Papa Gregorio VII scomunicò Enrico IV (Imperatore dal 1084 al 1106).
Sebbene fosse stata tolta dopo il viaggio a Canossa del 1077, la scomunica ebbe vaste conseguenze. Nel frattempo i duchi tedeschi avevano eletto Re Rodolfo di Svevia, che Enrico IV sconfisse solo dopo una guerra di tre anni nel 1080. Le radici mitiche dell'Impero erano danneggiate per sempre; il Re tedesco era stato umiliato. Più importante ancora, la Chiesa diveniva un giocatore indipendente sulla scacchiera dell'Impero.
La concezione della sacralità e dell'universalità dell'impero, sancita dall'investitura papale dell'imperatore, che fu alla base dell'ideologia imperiale da Ottone I a Enrico VII di Lussemburgo, provocò tuttavia un conflitto con il papato, il quale rivendicò l'autorità temporale già dal tempo della lotta per le investiture con Gregorio VII e giunse con Innocenzo III ad affermare la propria suprema autorità temporale e spirituale. Inoltre l'autorità imperiale incontrò sempre più l'opposizione dei poteri politici particolari, feudali e commerciali, in Italia e nella stessa Germania. La mancata elezione di un imperatore per un ventennio nella seconda metà del XIII secolo segnò la crisi definitiva dell'autorità universale imperiale.
La Bolla d'oro, promulgata nel 1356 a Norimberga da Carlo IV, che regolò per circa tre secoli la procedura di elezione degli imperatori del Sacro romano impero, che attribuiva il diritto di eleggere l'imperatore ai principi elettori, sancì il carattere tedesco dell'impero, che si emancipò da allora dal papato.
Questa fu affidata, a maggioranza, a sette grandi elettori (margravio del Brandeburgo, duca di Sassonia, conte del Palatinato e re di Boemia, insieme agli arcivescovi di Colonia, Treviri e Magonza), dei cui principati si stabilì la indivisibilità e, per i laici, anche la ereditarietà secondo il principio della primogenitura.
Segno della nuova situazione fu il termine Sacro romano impero di nazione germanica, comparso nel Quattrocento, che univa la vecchia pretesa all'universalità con il nuovo carattere nazionale dell'impero. Non riuscì il tentativo di Carlo V di creare un impero universale. Egli fu costretto a dividere i possedimenti degli Asburgo, mentre il titolo imperiale passò al ramo austriaco della dinastia.
Il Sacro romano impero fu caratterizzato nell'età moderna dal dualismo costituzionale di imperatore e ceti imperiali che si era cristallizzato alla fine del Quattrocento.
Questo dualismo fu confermato dalla pace di Augusta del 1555 e dalla pace di Vestfalia del 1648. Il Sacro romano impero non era uno stato, ma un sistema di diritto pubblico che univa politicamente non tutti i tedeschi e molti non tedeschi (V. Press). L'esistenza al centro dell'Europa di un organismo politico incapace di una politica estera aggressiva fu un fattore essenziale dell'equilibrio degli stati europei. Il carattere di grandi potenze assunto dall'Austria e dalla Prussia nel Settecento svuotò però progressivamente di significato il Sacro romano impero.
Esso divenne completamente obsoleto dopo la Rivoluzione francese e fu abolito nel 1806 da Francesco I d'Asburgo, in conseguenza del nuovo assetto dato alla Germania da Napoleone.
[31] Carlo Magno - Re di Neustria (758-814), re di Borgogna (768-814), re dei Franchi (771-814), imperatore del Sacro romano impero (800-814). Figlio di Pipino il Breve, re dei franchi, e di Berta, figlia di Cariberto, conte di Laon.
Alla morte del fratello Carlomanno nel 771 incorporò anche i suoi domini, costrinse alla fuga i suoi figli e si fece acclamare unico re dei franchi. Nello stesso anno ripudiò la moglie Ermengarda, figlia del re dei longobardi Desiderio, e sposò la nobile sveva Ildegarda.
Nel 773, su sollecitazione di papa Adriano I, scese in Italia contro i Longobardi e assediò, prima a Pavia e poi a Verona, il re Desiderio e suo figlio Adelchi. Nel giugno del 774, sempre con il sostegno della chiesa, fece prigioniero Desiderio e annetté alla corona anche il Regno longobardo.
Nel 776 sconfisse il duca del Friuli; nel 780 intervenne, di nuovo su richiesta del papa, contro Arechi, duca di Benevento e genero di Desiderio, che avevaappoggio bizantino, e lo sconfisse definitivamente nel 787. Contemporaneamente agli interventi nell’Italia longobarda condusse numerose campagne diplomatiche e militari. Attuò sanguinose campagne militari contro i sassoni che nell’804 furono forzatamente cristianizzati.
Fra il 787 e il 793 combatté contro i Bavari fino alla sconfitta del loro re Tassilone III. Gli Avari investiti dagli eserciti franchi fra 791 e 796, furono in parte dispersi e in parte sottomessi e convertiti al cristianesimo.
Minor successo ebbero le spedizioni verso nord, contro danesi e normanni, e verso sud, contro gli arabi di Spagna. Qui, dopo alcuni successi iniziali nel 778, Carlo fu sconfitto a Saragozza e a Roncisvalle e solo nell’801 il figlio Ludovico, re d’Aquitania, poté concludere una pace con l’emirato di Cordoba e provvedere alla creazione di una marca ispanica.
Il grande impero costruito da Carlo fu consacrato alla fine del secolo, quando papa Leone III, minacciato da una congiura nobiliare, gli chiese protezione, lo accolse a Roma con i più alti onori e nella notte di Natale dell’anno 800 lo incoronò imperatore.
L’opera di rafforzamento e di consolidamento dell’impero continuò negli anni successivi. In particolare, la ricostruzione di un impero d’occidente rese difficile i rapporti con l’impero bizantino sfociati in una guerra che si finì soltanto nell’812 con un accordo di pace. Ma le preoccupazioni maggiori di Carlo Magno si rivolsero all’organizzazione delle strutture del potere, all’amministrazione e gestione dell’impero e all’omogeneizzazione dei diversi territori. Egli provvide alle esigenze di questa politica spostandosi continuamente, con tutta la sua corte, dall’una all’altra zona dell’impero. In ambito economico cercò, anche attraverso una riforma monetaria che favorì la circolazione della moneta d’argento, di rivitalizzare il commercio. Sul piano politico e su quello del controllo sociale fece leva sulla potente aristocrazia terriera laica ed ecclesiastica e sul rapporto vassallatico-beneficiario che stabiliva una complessa rete di legami personali. Si trattava di un sistema destinato a realizzare una sorta di compenetrazione tra ordinamento pubblico e strutture vassallatico-beneficiarie, per cui divenne abituale la concezione che la carica pubblica fosse essa stessa un beneficio, anziché un servizio da compensare con un beneficio, cioè con la concessione di beni.
Carlo Magno divise il suo impero in contee; nelle zone meno pacifiche crea i ducati, e fa controllare le zone di frontiera da degli uomini di sua confidenza, che più tardi diventeranno i marchesi.
La contea è la più importante di queste circoscrizioni: alla sua testa, Carlo Magno mise un funzionario reale, scelto generalmente tra le più potenti famiglie di proprietari terrieri franchi; questo funzionario esercitava il potere militare e giudiziario, la potestas, normalmente per delega, e riscuoteva le tasse per conto del sovrano. Era aiutato nel suo compito da dei visconti. Solitamente era anche destituibile dall'imperatore.
Parallelamente Carlo Magno si appoggiava sulla Chiesa, che riorganizzò privilegiando l'autorità dei vescovi metropoliti, gli arcivescovi; per quello che concerne il monachesimo, diede alle principali abbazie delle terre da coltivare e pose gli abati sotto la sua diretta autorità.
Un'altra misura andava nella stessa direzione: a degli uomini laici di confidenza ne aggiunse un altro, generalmente un chierico, attraverso una nuova istituzione: i missi dominici. Questi inviati erano incaricati di risolvere i conflitti tra i nobili e di portare gli ordini del re presso i detentori delle cariche, ma anche di raccogliere il giuramento di fedeltà dei suoi sudditi. Non si sa la reale portata delle loro azioni, ma questo sembra indicare che il re aveva delle difficoltà a far rispettare la propria autorità.
Sotto l'influenza dei numerosi cristiani letterati della sua corte, il re era anche legislatore: egli faceva già applicare la legge attraverso il bando germanico, e la riallacciò anche con la concezione romana del diritto e rinnovò l'importanza degli atti scritti nel regno. Dopo le assemblee che riunirono i nobili del regno furono emesse dalla cancelleria del Palazzo delle ordinanze, divise in capitoli: Queste sono delle importanti e precise fonti per lo studio di quel periodo storico.
A un altro livello si deve ai letterati cristiani la nascita di una nuova concezione dello Stato. Si tratta di una restaurazione dell'impero romano, sebbene essa in realtà poggi su fondamenti molto differenti per legittimare la monarchia: è una concezione profondamente cristiana, e fa del re dei Franchi addirittura un nuovo Davide. L'idea dell'unità del regno sembra prevalere con la rinascita dell'Impero d'Occidente, nel Natale dell'800.
[32] Feudalesimo - Sistema politico-sociale fondato sul feudo e sul rapporto di vassallaggio, che caratterizzò l’Europa occidentale medievale.
Il termine fu introdotto, in un’accezione negativa, dagli illuministi e dai rivoluzionari francesi alla fine del XVIII secolo e fu poi usato da K. Marx per designare una precisa fase della storia dei rapporti di produzione, intermedia fra lo schiavismo e il capitalismo borghese.
Formatosi in epoca carolingia (IX secolo), in seguito al diffondersi della prassi da parte della corona di affidare lotti di terreno a cavalieri in cambio della garanzia di un loro appoggio al principe in caso di necessità, ebbe un ampio sviluppo in seguito al dissolversi del potere politico centrale, quando i vari signori poterono considerarsi i possessori a tutti gli effetti dei territori avuti in distribuzione e cominciarono a esercitare invece del principe dei diritti sulla popolazione contadina che li abitava (formazione del dominatus loci). Si realizzò così una netta separazione della società nelle due classi dei guerrieri, che detenevano il monopolio dell’uso delle armi, e dei contadini, addetti alla lavorazione dei campi e sottoposti alla interessata protezione dei primi. Con il diffondersi dell’investitura a vescovi e abati (chierici), anche la chiesa contribuì in maniera determinante all’affermazione del feudalesimo, al quale tentò di dare una giustificazione morale con l’elaborazione dell’ideologia cavalleresca, in cui si poneva l’accento sul significato umanitario della protezione del cavaliere sulla popolazione sottoposta. Il dibattito sul diritto della chiesa alla designazione di feudi portò inoltre a un duro scontro con il potere imperiale (lotta per le investiture), fomentato anche dai numerosi movimenti religiosi che a partire dall’XI secolo si diffusero in tutta Europa, predicando la necessità di riforma morale della chiesa.
Il sistema feudale raggiunse la sua piena affermazione tra il XII e il XIII secolo, quando cominciò ad allentarsi il legame tra principe e vassalli; di conseguenza questi ultimi acquisirono una sempre maggiore autonomia. Esso ebbe tuttavia modalità di sviluppo assai differenti tra le varie regioni d’Europa. Se infatti nell’Italia settentrionale e in alcune zone della Francia furono proprio le forme feudali a sancire la completa dissoluzione del potere centrale monarchico, altrove esse furono un mezzo per la costituzione di solide monarchie. Ciò avvenne in Catalogna, nelle Fiandre e in Normandia, dove il potere centrale riuscì a mantenere il controllo dei signori insigniti dei feudi e a farne anzi un indispensabile tramite per il controllo di tutte le regioni del regno. Tale sistema caratterizzò in particolare i regni normanni, sia in Francia che in Inghilterra e nell’Italia meridionale. Tentativi analoghi in Germania e nell’Italia settentrionale da parte di Federico Barbarossa tra il 1158 e il 1183 si scontrarono rispettivamente con la presenza di principati ormai da tempo consolidati e autonomi e con la società dei comuni, che minò alle basi l’intero sistema, svuotando di significato il concetto stesso di un potere e di una gerarchia fondati sul diritto di nascita o sull’investitura da parte di un principe.
[33] Beneficio – Nel diritto romano originariamente ogni concessione da parte dell’autorità pubblica a persone private o a enti di una condizione di particolare vantaggio e favore era detto beneficio. Si definirono così nei secoli III-IV anche le assegnazioni imperiali di terre ai veterani o ai barbari nelle regioni di frontiera, oppure quelle ai propri commendati da parte dei grandi proprietari fondiari. Tutte queste concessioni erano temporanee (precaria) e revocabili. Costituivano formalmente un dono elargito liberamente in ricompensa di un servizio reso, che andava restituito in caso di rottura del rapporto personale che l’aveva causato, per la morte o il venire meno della lealtà e fedeltà del beneficiario. Nella Francia carolingia dell’VIII secolo il beneficio andò sempre più accompagnandosi di fatto al rapporto di vassallaggio. La fedeltà e l’aiuto militare portati dal vassallo al signore diventavano il servizio e il legame personale in cambio del quale veniva elargito il beneficio, consistente per lo più in terre e possedimenti immobiliari. Nella costruzione e nell’evoluzione dello Stato carolingio, carattere beneficiario assunse anche l’incarico dell’ufficio pubblico esercitato per delega del sovrano da conti e vassalli. Insieme alle terre, anche l’ufficio venne trasformandosi in beneficio personale e non revocabile, salvo che per grave colpa detta fellonia.
Nel IX e X secolo divenne trasmissibile agli eredi, e intorno a terre e uffici si strutturarono famiglie nobiliari dinastiche. Dall’XI secolo, il termine, ormai indissolubilmente unito al legame vassallatico, lasciò il posto a quello di feudo. Anche il beneficio ecclesiastico, tuttora presente nel diritto canonico, si sviluppò come istituto nell’alto Medioevo. Esso designa un insieme di beni di proprietà della Chiesa, costituitosi nel tempo grazie a legati e donazioni pubbliche e private, che si assegnava al titolare di un ufficio ecclesiastico (vescovo, canonico, parroco) per il suo sostentamento. Quando il donatore del complesso patrimoniale che costituiva il beneficio era anche il fondatore dell’ufficio (chiesa privata, altare privato, monastero), questi per lo più conservava a sé e ai suoi eredi il diritto di scelta del beneficiario.
[34] Immunità - Diritto, in età medievale, di sottrarre le proprie terre alla giurisdizione degli ufficiali pubblici. Questa istituzione, già abbozzata in periodo romano, fu sviluppata e riorganizzata dai re merovingi e carolingi, che concedettero diplomi di immunità a chiese e monasteri, più raramente a laici. I diplomi vietavano agli ufficiali pubblici l’ingresso nelle terre degli immunisti, cui veniva ceduto il diritto di esazione di alcune imposte pubbliche. Gli immunisti assunsero così, nei confronti degli abitanti delle aree immuni, le funzioni tipiche degli ufficiali pubblici, e in particolare l’amministrazione della giustizia. L’immunità offrì lo spunto per la costruzione di solidi ambiti di potere autonomo.
[35]Vassallaggio - In epoca feudale forma di rapporto personale costituito dalla sottomissione di un uomo libero a un signore, a cui venivano assicurati fedeltà e appoggio militare in cambio di protezione e di un feudo o beneficio, consistente in una rendita, spesso fondiaria.
Nacque in Gallia tra il VII e l’VIII secolo; riprese alcuni aspetti della commendatio romana, arricchendola delle caratteristiche militari tipiche dei vincoli personali stretti tra i capi germanici e integrandola con la concessione del beneficio, già diffusa tra i franchi di età merovingia. Sotto i Carolingi la formazione di ampie clientele rappresentò un importante strumento di lotta politica. Tra l’XI e il XII secolo si affermarono da un lato la possibilità di giurare fedeltà a diversi seniores, dall’altro il pieno controllo del vassallo sul beneficio, che divenne il vero elemento costitutivo del rapporto. Si indebolì così il rapporto vassallatico, che proprio in questa debolezza trovò una nuova funzione politica nel definire giuridicamente i processi di ricomposizione territoriale; i poteri minori poterono infatti riconoscere le forze maggiori giurando fedeltà vassallatica senza per questo veder seriamente ridotta la propria autonomia.
[36] Vassallo – Nel mondo medievale, come vassallo (dal latino medievale vassallum, «servo», derivato da vassus, di origine germanica, che significa «giovane»), si intende colui che riceve dal sovrano l'affidamento di incarichi amministrativi e contemporaneamente la gestione di territori, ottenendo in cambio un giuramento di obbedienza e fedeltà, oltre allo svolgimento delle funzioni amministrative delegate dal sovrano. Formavano la casta dei vassalli i conti, i marchesi, i margravi, e le cariche ecclesiastiche di vescovo e abate. Una delle premesse della nascita del feudalesimo, e quindi del rapporto di vassallaggio sta nella crisi dell'Impero Romano, che sollecita la formazione e l'allargamento di clientele attorno ad un capo. Il senso di insicurezza che invase il mondo antico dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente accrebbe il peso di forme sociali diverse da quelle fiorite nel mondo antico, il feudalesimo fu una di queste. La società, all'inizio del Medioevo, vedeva riemergere forze elementari di solidarietà tra uomini, irrobustite dalle invasioni dei barbari per i quali l'associazione parentale ed etnica erano essenziali nella società. Il peso della coesione familiare e parentale caratterizzò lo stesso vincolo che genererà il rapporto vassallatico: senior e junior, vecchio e giovane, indicavano il signore ed il suo vassallo.
[37] Capitolare di Quiersy - Documento con cui Carlo il Calvo dispose che durante l’assenza del re, impegnato in una spedizione militare, alla morte di un conte le sue funzioni fossero provvisoriamente assunte dal figlio; conservò però al re il potere di nominare in seguito un diverso successore. Fu il primo passo verso l’ereditarietà dei feudi.
Come spiegare questa ascesa dell'aristocrazia e il disgregamento del potere reale?
Ecco le principali fasi dell'ascesa dell'aristocrazia:
regna esistevano già ai tempi dei Merovingi e si prolungarono fino sotto i Carolingi.
Si trattava di territori dove l'unità poggiava in una forte identità etnica e culturale. Un regnum poteva essere affidato ad un figlio di un re, senza per questo diventare indipendente: questo fu il caso, in epoche diverse, dell'Aquitania, la Provenza, la Borgogna, la Sassonia, la Turingia e la Baviera.
·         I conti: questa parola deriva dal latino comes, che significa compagno (del re); i conti esistevano già nell'epoca merovingia: i re dava loro alcune terre, dei regali o una carica per ricompensarli dei loro servizi; ma i conti assumono la loro massima importanza sotto i Carolingi; funzionari, sono designati e revocati dal re che li recluta nell'aristocrazia; garantiscono l'ordine pubblico presiedendo il tribunale, riscuotono le tasse ed organizzano le truppe in un pagus, circoscrizione territoriale, la quale è sotto la loro responsabilità. Nel corso del IX secolo, i conti diventano sempre più autonomi nei confronti del re.
·         I duchi: la parola ha un'etimologia latina che significa conduttore dell'esercito. Il duca è una sorta di conte che raccogli più pagi per lottare contro le invasioni scandinave. I Robertingi ottengono nel X secolo il titolo di duca dei Franchi (dux Francorum). Questi personaggi saranno i più potenti tra i "principi territoriali" come i duchi di Aquitania, di Borgogna e di Normandia.
·         Il marchese, in latino marchio, è un conte che custodisce una regione di confine chiamata marca e la difende in caso d'attacco.
Alla fine del IX secolo, come conseguenza del capitolare di Quierzy queste cariche di conte, duca e marchese diventano ereditarie: i re carolingi non possono più destituirli, quindi il suo controllo s'indebolisce. Si assiste allora alla costituzione di dinastie locali di conti, duchi e vassalli del re. Il vassallaggio, che era stato ben controllato sotto Carlo Magno e serviva per i suoi interessi politici, si ritorce contro l'autorità dei suoi successori. L'aristocrazia laica ed ecclesiastica è quindi in posizione predominante a metà del Medioevo, in Francia e in Germania.
I conti sono fisicamente più vicini al popolo dei Carolingi. L'autorità del re sembra lontana ai contadini. La maggior parte degli uomini liberi del regno vive in contatto diretto del conte e del suo delegato. Essi li potevano sentire, per esempio, durante le sedute del tribunale. La loro autorità è più immediata di quella del re. Si instaura quindi un rapporto stretto e personale: i contadini si mettono sotto la protezione dei nobili ed entrano sotto le loro dipendenze.
Nel X secolo, i segni dell'autonomia dei principi si moltiplicano: i conti e i duchi si sono presi le funzioni pubbliche e i diritti fino ad allora riservati al re: costruiscono delle torri e dei forti, e veri e propri castelli in pietra che dominano un territorio che è caduto nelle mani di un signore che conia proprie monete con la loro effige e il loro nome che prende sotto la loro protezione il clero e controlla le investiture episcopali.
[38]  Constitutio de feudis – Editto emanato dall’imperatore Corrado II il Salico col quale si riconobbe l’ereditarietà dei feudi minori a un secolo e mezzo di distanza dal capitolare di Quierzy del 877. Promulgato in occasione della discesa di Corrado II in Italia, dove valvassori e mercanti si erano ribellati contro il vescovo di Milano Ariberto, alleato dei grandi feudatari laici ed ecclesiastici, rappresentò il tentativo di sgretolare il fronte feudale e di coalizzare al fianco dell’imperatore le forze della nobiltà minore. Confermando un orientamento diffuso, l’editto ebbe applicazione anche fuori d’Italia e accelerò il processo di disgregazione del sistema feudale, specie nelle zone in cui più vivace era il processo di rinascita delle città.
[39] Curtis - La corte è quell'insieme di villae e di edifici dove il signore soggiornava ed espletava le sue funzioni di controllo sul territorio.
Già alla fine del II secolo i grandi possidenti terrieri nell'area dell'Impero Romano, tendevano ad organizzarsi economicamente, creando latifondi più o meno estesi. Causa la notevole pressione fiscale esercitata dalla tributaria, molti piccoli e medi coltivatori diretti, preferivano mettersi alle dipendenze di questi signori proprio per sfuggire agli oneri di natura economica contratti verso lo stato. Gli stessi grandi imprenditori, accettavano ben volentieri di assumere questi ultimi - vista la scarsa reperibilità di schiavi - in qualità di colono, dando loro in usufrutto singoli lotti di terreno su cui usufruivano di una certa percentuale della rendita dei campi. La grande proprietà diventò inevitabilmente un polo di attrazione non soltanto per i contadini, ma anche per gli artigiani, commercianti nonché per piccoli borghi che si venivano a trovare all'interno del fondo. I grandi esponenti di questa classe dirigente riuscirono anche ad ottenere delle agevolazioni da parte imperiale, ad esempio quella dell'immunitas ovvero: il diritto a non pagare certe tasse e di respingere dal proprio territorio qualsiasi agente - compreso quello del fisco - di nomina statale. Il signore quindi, diventava il vero e proprio arbitro della situazione, esercitando direttamente sul suo possedimento un certo controllo in ambito fiscale, giuridico, militare e politico. Le cosiddette ville rustiche tesero sempre di più ad attuare un'economia di sussistenza e ad organizzarsi non più verso il senso dell'estetica quanto verso la funzionalità e la difesa. Queste cellule ormai autonome presero ad essere sorvegliate da delle milizie personali pagate dal signore, i cosiddetti buccellari, che divennero un piccolo esercito privato.
Dopo le grandi invasioni barbariche e il conseguente spopolamento delle città, i latifondi divennero un polo di attrazione per la popolazione urbana: la città non essendo più in grado di esercitare nessun controllo politico e direttivo per il territorio circostante, venne sempre di più lasciata a se stessa. I Germani, si trovano di fronte al problema di come controllare i territori conquistati. Visto lo stato pessimo delle grandi vie di comunicazione e la contrazione dei centri urbani, delegarono la nobiltà delle prerogative di controllo, che altrimenti sarebbero state appannaggio dello stato. Ai nobili fu concesso in usufrutto un feudo: ovvero, una parte del territorio sotto la sovranità del signore, con il quale il nobile poteva finanziarsi e qualificare l'attività che era tenuto a svolgere per conto del sovrano. La vecchia aristocrazia di stampo latino e senatoriale fu completamente spazzata via dopo la calata dei Longobardi di re Alboino, nel 568. I vecchi possedimenti passarono quindi di padrone: dai Latini ai Germani.
La corte dell'Alto e quella del Basso Medioevo si distinguevano fortemente: la prima altro non era che l'erede della villa romana, dominata da un signore o da un cavaliere che esercitavano un potere delegato dal concessore delbeneficium e che tendevano a rimanere piuttosto isolati dai vicini; la seconda sviluppatasi nell'età feudale propriamente detta era caratterizzata da un maniero centrale sorto durante l'età dell'incastellamento ed era retta da un signore dotato d'autorità di banno e legittimato a lasciare in eredità il beneficium ai figli. La corte di questo periodo possedeva l'aspetto di un piccolo stato dotato di un proprio esercito, di un tribunale e di un sovrano (il feudatario).
La curtis riproponeva le stesse caratteristiche e costanti edilizie nelle diverse zone dell'Italia centro-settentrionale, nella valle del Rodano in Francia ed in Germania. La corte era il centro del feudo, ed era composta dagli edifici dove il signore risiedeva ed esercitava il controllo del territorio. L'interno era composto dal maniero del grande proprietario del fondo, dalle stalle e i granai, dalle casupole dei servi e spesso vi era installato anche un mulino. Non mancava anche una piccola cappella privata dove si svolgevano i battesimi e le messe. Solitamente, di fianco al maniero era costruita l'abitazione del fattore o balivo. Costui non era solo la persona delegata alla ripartizione e allo stoccaggio nei magazzini delle derrate alimentari, ma era anche colui che esercitava la giustizia per conto del signore, all'interno del feudo.
Esistevano varie tipologie di corti nel bacino del Mediterraneo e nell'Europa centro-settentrionale ed orientale. Le tenute organizzate in curtis si distinguevano dal numero di mansi cui erano sottoposte: nell'Italia del nord, in Germania e in Francia, vi erano corti vastissime a più mansi ed altre meno estese che potevano a stento approvvigionare i padroni e la servitù. Spesso i mansi erano situati anche molto distanti gli uni dagli altri, trovandosi in territori retti da diversi feudatari o vassalli.
I cittadini dei borghi sub-urbani facevano riferimento prevalentemente alle città più grandi presenti sul territorio ove risiedevano i grandi margravi o adibite a sedi vescovili. I locatari dei piccoli e medi fondi che si trovavano prevalentemente nelle zone rurali, avevano come referente la villa signorile ed in seguito il castello. All'interno di questi latifondi i borghi situati nella parte tributaria erano difesi solo da uno steccato o completamente privi di sistemi difensivi, mentre il centro indominicato, si incastellava ed era circondato da poderose mura difensive.
Dall’XI secolo, il sistema economico-sociale del feudalesimo entrò in crisi e già con il Capitolare di Quierzy si riconobbe l'ereditarietà dei fondi ai vassalli maggiori. Con la Constitutio de feudis poi abbiamo la quasi definitiva frantumazione di questo sistema. Con queste nuove normative, si riconosceva l'ereditarietà dei feudi anche ai vassalli minori. Nonostante le nuove innovazioni in campo agricolo (aratro pesante, rotazione triennale delle colture etc.) i piccoli fondi non riuscivano a produrre quanto richiesto e i grandi signori preferirono inurbarsi ed investire sul commercio e sui prestiti a interesse. Ma il colpo definitivo alla grande proprietà lo diedero le crociate. I cavalieri, per finanziarsi le spedizioni in Terrasanta, dovettero vendere parte dei loro feudi a delle nuove classi dirigenti che aspiravano al monopolio attraverso l'utilizzo della moneta. Piccoli centri quindi, che in principio erano stati appendice dei latifondi, si trasformarono in cittadine di 30.000 abitanti o anche più.
[40]Economia curtense - L'economia curtense, era, generalmente, di sussistenza, si tendeva cioè a produrre il più possibile all'interno del feudo in un'ottica di autoconsumo. Anche i prodotti di natura non agricola, come le manifatture e gli attrezzi da lavoro, erano fabbricati all'interno del fondo utilizzando i materiali a disposizione. Si cercava inoltre di sopperire alla mancanza di alcuni beni producendone di simili, ma di qualità più bassa.
Spessissimo, perfino tra gli storici, si è considerata questa economia come completamente chiusa, priva di sbocchi verso l'esterno. Questo è errato, poiché alcune manifatture più rifinite ed altri approvvigionamenti dovettero essere necessariamente acquistati in altre zone. Ad esempio i nobili, potevano permettersi di comprare il vino da altri signori, così come in periodi di carestia, quando i servi della gleba pativano la fame, dovettero procedere all'acquisizione di derrate alimentari all'esterno. Non bisogna dimenticare, poi, che le città, sebbene ridotte di dimensioni, rimasero comunque dipendenti dalle campagne e dovettero sempre importare da esse i prodotti agricoli.
Un fattore importante per la notevole estensione di questo genere economico, fu la penuria di denaro liquido e lo stato delle grandi vie di comunicazione. Il più delle volte, gli scambi avvenivano tra beni in natura, tramite il baratto, ma non è del tutto vero che la moneta scomparve completamente. Ad esempio, il bisante d'oro continuò a circolare e quando si attuavano questi scambi, e i contadini dovevano vendere i loro prodotti, ci si rifaceva sempre ad un ipotetico valore monetario. La moneta corrente d'argento, poi, il soldo, continuò a circolare e la sua continua svalutazione fa comprendere che si dovette adattare alle crisi dell'economia.
Molte volte poi, le proprietà organizzate in curtis, si trovavano a contatto con altri fondi di natura ecclesiastica o regia e persino con residui di appezzamenti di terreno allodiali coltivati direttamente da alcuni contadini liberi. Ciò si verificava, poiché i feudi, almeno nell'Alto Medioevo, non costituivano piccoli staterelli dai confini ben definiti, ma, nella maggior parte dei casi, piuttosto come un insieme di proprietà diffuse sul territorio, tanto da far sì che alcuni villaggi fossero addirittura divisi tra diversi feudatari. Come si vede quindi, le possibilità di scambio furono necessariamente prese in considerazione.
Grazie alla sua natura autarchica che faceva nascere lunghissimi periodi di relativa pace, ed a una più razionale organizzazione agricola, si andarono a formare delle eccedenze nella produzione che dovevano trovare sbocco - sia pure a livello modesto e intermittente- in un mercato regionale. Il fatto è confermato dagli ultimi ritrovamenti di magazzini, sopratutto nei grandi monasteri i quali, essendo ancora in possesso delle antiche tecniche di agronomiadi natura classica/romana producevano in abbondanza e potevano permettersi di vendere i loro surplus.
Una piccola rivoluzione si verificò, quando, con l'aumento del costo degli equipaggiamenti guerreschi, i feudatari furono costretti a pretendere dai contadini tributi in denaro. Ciò fece sì che i piccoli coltivatori fossero costretti ad affiancare alle attività agricole anche quelle mercantili e di piccolo artigianato. La moneta, così, cominciò a circolare con più diffusione e gli orizzonti mercantili, prima più ristretti (sebbene, a differenza di quanto creduto dalla vecchia storiografia, non assenti), ad allargarsi.
[41] Servi della gleba – Il termine indica i contadini dipendenti dalla terra, sia medievali che moderni.
Distinti dagli schiavi romani in virtù di un legame con la terra più forte di quello con un padrone onnipotente, si sarebbero sviluppati in simbiosi con il passaggio dal sistema sociale e di produzione antico a quello feudo-signorile fondato sul controllo delle risorse economiche e politiche connesse alla terra.
Il termine è parzialmente erroneo se applicato al Medioevo, perché mette troppo l’accento sui legami tra contadino e territorio, lasciando da parte sia il complesso sviluppo di una stratificazione giuridica e sociale inerente agli strati dominanti della società, sia il passaggio della dipendenza contadina da un ambito reale (la terra) a un ambito personale (il signore).
Dal IX secolo le trasformazioni della più importante struttura produttiva rurale, la villa, in Italia curtis, da azienda fondata su una riserva centralizzata il cui sfruttamento era devoluto a schiavi ad azienda basata sull’utilizzo di manodopera estranea alla riserva e radicata sul massaricio (manso), portarono a uno spostamento di manodopera che ebbe importanti conseguenze giuridico-sociali. Certo lo schiavo del massaricio tendeva così ad assimilarsi agli altri massari liberi, ma al contempo lo sviluppo di legami con una categoria priva di qualsiasi diritto giuridico e sociale contribuì a trasformare buona parte dei liberi contadini, in servi alla mercé del loro signore fondiario e territoriale.
Dopo il X secolo, con lo sviluppo della signoria rurale come base dell’attività sociale ed economica, la stragrande maggioranza delle vittime del banno signorile si trovò costretta a subire oneri reali e personali (taglia, testatico,corvée) che ne proclamavano lo status servile.
Alla fine dell’antico regime il termine aveva assunto una dirompente forza simbolica, tale da far coincidere, nella Rivoluzione francese, l’abolizione della servitù della gleba con la fine del regime feudale in Europa.
[42] Corvées - Prestazione d’opera obbligatoria consistente in alcune giornate di lavoro che il colono residente nella pars massaricia doveva prestare gratuitamente sulla pars dominica della villa. Dal diritto feudale la corvée passò al diritto pubblico regio in relazione a lavori di manutenzione e di difesa. Abolita in Francia con la Rivoluzione, sopravvisse in Europa orientale fino agli inizi del XIX secolo.
[43]Istituto del maggiorasco – Il diritto di maggiorasco (in latino majoratus) era, nell'antico sistema successorio, il diritto del primogenito di ereditare tutto il patrimonio familiare.
Connesso solitamente al diritto di primogenitura, il maggiorasco era un istituto proprio del diritto successorio feudale in base al quale un patrimonio veniva trasmesso integralmente al parente di grado più prossimo all'ultimo possessore e, in caso di pari grado, a quello più anziano. Comunque, il maggiorasco aveva una sua logica:
·         la maggiore ricchezza era la terra la quale, se troppo frammentata, non produce più ricchezza.
·         il figlio maggiore era anche quello che prima degli altri era in grado di difendere il feudo e la proprietà.
Il diritto di maggiorasco dunque mirava a perpetuare in qualche modo il potere e il patrimonio familiare.
Gli altri figli, se maschi, potevano combinare buoni matrimoni, darsi alla Cavalleria o al clero, se non preferivano il brigantaggio o la prostituzione.
[44] Cavalleria medievale - La cavalleria medievale seguì l'evoluzione che la società, l'economia e la tecnica bellica ebbero nel medioevo.
Fu una evoluzione lenta ma costante, ma sempre coerente con i cambiamenti del contesto socioeconomico che ne era il supporto.
Un cavaliere non si improvvisava, veniva addestrato fin dalla fanciullezza e, quindi, armato con un equipaggiamento il cui costo poteva superare quello di 20 buoi, in pratica una piccola proprietà terriera.
Si formò spontaneamente un gruppo elitario, separato e autoreferente che si autocelebrava anche attraverso il racconto delle proprie imprese ed attraverso una vera e propria liturgia dell'iniziazione e dell'accettazione o cooptazione in un circolo sempre più chiuso. La letteratura epica si incaricherà di idealizzarne e celebrarne gli aspetti eroici, il più delle volte usurpati.
Lentamente si consolidò una fraternitas, la cavalleria medievale, con regole sempre più rigorose che subiranno continue eccezioni.
La separazione dal mondo dei rustici aumentò sempre di più ed il solco iniziale divenne una voragine. Da una parte pochi eletti, dall'altra la massa disprezzata e sfortunata degli inermi o pauperes che avevano una sola possibilità di riscatto: mettere la propria vita in gioco nei campi di battaglia al servizio di qualche Senior.
Era un mito quello che il cavaliere medievale coltivava, esaltandolo in quelle fraternitas che daranno luogo ad una vera e propria classe sociomilitare particolarmente rigida ed impermeabile alla cui base c'era lo spirito di gruppo e di corpo.
La storia concorrerà all'affermazione di questa nuova classe di guerrieri, separandola sempre di più dal resto della società, gli inermes, subordinati e sottoposti a quei bellatores equestri che costituivano la base del potere.
Certo il servizio militare, oltre ai rischi, offriva notevoli vantaggi a quei soggetti che ne sapevano approfittare. Le opportunità di arricchimento a seguito delle azioni belliche erano grandi, sia attraverso i bottini rapinati sia attraverso il riscatto dei prigionieri. Ciò costituiva un valido compenso per il rischio di perdere la vita.
Il miraggio era quello di passare dal servizio presso altri alla formazione di una propria dinastia, ed acquisire una propria signoria o conquistare un proprio regno. Fu quello che seppero fare i Normanni, signori che prima aiutavano e che poi ad essi si sostituirono approfittando della favorevole situazione politico-militare di quel residuo morente contesto bizantino. I Normanni riuscirono non solo a sostituirsi ai loro datori di lavoro, ma a fondare, oltre che un regno, una dinastia dai cui lombi discese una progenie destinata alla dignità imperiale. L'avventura dei cavalieri normanni prima nel meridione dell'Italia continentale e successivamente in Sicilia è fantastica ed affascinante. È impressionante vedere come un manipolo di uomini decisi, costretti a lasciare le loro terre di origine, riuscirono a inserirsi nelle lotte intestine di quel che restava del Ducato di Benevento e del declinante Impero Bizantino nell'Italia meridionale e a prendere il sopravvento. Vi fu anche il fortunato gioco di circostanze favorevoli che contribuirono alla loro affermazione politico-militare. I Normanni ottennero il riconoscimento del loro potere e delle loro conquiste dal papa Niccolò II prima di lanciarsi alla conquista della Sicilia: questo riconoscimento papale legittimò un puro atto di violenza
Si svilupparono nuove tecniche militari sotto la spinta delle milizie di fanti che non erano più quella massa incoerente di contadini armati di forcone contro cui la carica della cavalleria aveva avuto sempre successo. Le milizie cittadine si proposero come strutture sempre meglio organizzate e coese, gare che avevano sviluppato non solo lo spirito d'emulazione ma lo spirito civico rendendo i cittadini combattenti consapevoli, decisi e temibili. Questi uomini che svolgevano nella vita quotidiana altri compiti, che non le arti marziali, esprimevano, nel momento del combattimento, sotto il gonfalone civico, tutta la loro determinazione bellica, frutto del rancore contro l'aristocrazia militare: essi trascuravano quell'aspetto ludico che era stato una caratteristica del combattimento dei cavalieri. Questi cittadini nel combattimento erano micidiali, le loro picche e le loro quadrelle non lasciavano scampo.
Le nuove armi vincenti erano le picche, l'arco e la balestra, che costituivano per i cavalieri un ostacolo quasi sempre letale. Il cavallo che era stato un'arma vincente si trasformò in un gravissimo punto di debolezza ed impedimento. In questo nuovo modo di combattere il cavallo soccombette sotto i colpi di coltello del fante che lo sventrava, in un'azione inconcepibile per il cavaliere e per il suo codice deontologico: al cavaliere rinchiuso nella sua pesante corazza d'acciaio non rimaneva che fuggire o morire. Queste nuove battaglie si concludevano in un'orgia di sangue, in un tripudio di vendette e di rivalse da parte dei rustici contro il mondo feudale, che ormai volgeva alla fine.
Era un mondo impregnato di valori, che sopravvivrà solo nelle chansons. I cavalieri andranno lietamente a farsi scannare da rozzi bottegai e cupi artigiani che combattevano solo per affermare la loro esistenza civile, la loro capacità economica e la necessità di continuare a sviluppare liberamente quelle attività economico-commerciali dal cui successo derivavano rilevanza sociale e forza politica.
Per queste gentes novae, la guerra non era un gioco, una festa in cui mettere in mostra le proprie virtù cavalleresche magari per gloriarsene agli occhi di una dama o nel caso fortunato per appropriarsi di un bottino e di un ricco riscatto, bensì un mortale e costoso incidente che metteva a rischio le conquista economiche acquisite, oltre che la loro stessa sopravvivenza.
Laddove il cavaliere vedeva nel cavaliere nemico un confratello in campo opposto, il mercante che combatteva vedeva nel cavaliere solo un soggetto che interrompeva la sua attività facendogli perdere denaro e rischiare la vita e perciò lo doveva eliminare, cioè uccidere.
Il mercante combatteva libero da qualsiasi deontologia militare e sotto lo stimolo dell'urgenza di tornare presto ai propri affari sospesi.
Tutto ciò era vissuto come scandaloso dai cavalieri: guai al cavaliere che incontrava sul campo di battaglia qualche macellaio armato che non aveva remora alcuna a fare altrettanto prima col cavallo e poi con il cavaliere.
Il momento magico dei cavalieri medioevali fu l'avventura delle Crociate trascorso il quale iniziò la loro crisi lentamente per continuare, poi, sempre più rapidamente, crisi che culminerà nella battaglia degli Speroni d'Oro a Courtrai, 1302. In questa battaglia le truppe formate da mercanti ed artigiani delle Fiandre massacrarono i cavalieri francesi facendo mucchi dei loro speroni dorati.
Fu il tramonto della cavalleria anche se le sopravvisse quell'etica che era stata alla base della fraternitas, cui una stessa mentalità ed aspirazione di vita aveva legato i cavalieri.
Questa specie di internazionale cavalleresca perse davanti alle nuove fanterie comunali la propria funzione militare lasciando un'eredità di valori e di miti che sarebbero durati nei secoli successivi.
Era lo spirito cavalleresco con la sua carica di leggenda che sopravviveva rappresentando valori che i posteri avrebbero esaltato, per non dire creato.
Questo spirito sopravvisse anche grazie agli ordini cavallereschi che ebbero una funzione reale fintanto che svolsero un'attività politico-militare ma che successivamente o scomparvero come i Templari ad opera di Filippo IV di Francia o si trasformarono in istituzioni puramente simboliche.
[45] I vescovi conti - Ottone I favorì il clero per creare un contrappeso alla potenza dei grandi feudatari laici, che avevano ottenuto l'ereditarietà dei feudi maggiori.
Già dall’età carolingia e nel periodo dell'anarchia feudale, i vescovi avevano assunto anche nel campo della vita civile un’importanza che crebbe rapidamente quando la disgregazione dell'impero li rese stabili elementi d'unione e di coesione sociale, anche per il fatto che risiedevano stabilmente nelle città ed erano eletti dal popolo.
Non sempre i poteri civili dei vescovi ebbero formale riconoscimento; in sostanza, tuttavia, il potere dei conti si circoscrisse nelle campagne, mentre nelle città i nuovi compiti amministrativi indussero i vescovi a giovarsi della collaborazione dell'elemento laico: primo passo verso la resurrezione della vita municipale e verso l'ascesa di nuove forze che si preparavano alla conquista di una sempre maggiore e marcata autonomia anche nei confronti dei vescovi.
[46] Il monastero di Cluny – Il monastero di Cluny fu sotto la direzione di uomini come Oddone (morto nel 943) o Odilone di Mercoeur (morto nel 1043) che la comunità monastica visse il momento di maggior splendore.
Il monachesimo nato con la riforma di Cluny diede al Cristianesimo un'impronta fondamentale. La Congregazione cluniacense fu una delle più profonde riforme dell'Ordine benedettino. Sue caratteristiche furono:
·         il pronunciato ritualismo,
·         la norma del silenzio ed un accentuato spiritualismo,
·         gli ideali di libertà del sistema feudale laico ed episcopale,
·         il centralismo operante attraverso l'organizzazione del priorato e il diritto di visita dell'abate maggiore nelle varie abbazie,
·         la stretta unione con Roma che garantiva l'indipendenza dei cluniacensi dal sistema feudale civile ed ecclesiastico e soprattutto la perfetta pratica delle virtù monastiche.
Da Cluny partì il rinnovamento della Chiesa. Per i monaci cluniacensi la vita di questo mondo era il vestibolo dell'eternità. Tutto doveva essere sacrificato a fini ultraterreni. La salvezza dell'anima era tutto e non si poteva raggiungere che attraverso la Chiesa, che doveva essere assolutamente pura da ingerenze temporali. Ovvio che queste concezioni si scontrassero con gli interessi imperiali e con quelli dei vescovi più collusi col potere dell'Impero. Non si trattava di aborrire l'alleanza ai fini del buongoverno tra Chiesa e Stato, ma di subordinare completamente l'uomo e la società alla Chiesa, vera, unica intermediaria tra lui e Dio in campo spirituale.
La diffusione della riforma di Cluny fu assai profonda e assai ampia, soprattutto in Francia, Germania, Italia centrale e meridionale, Spagna settentrionale e Inghilterra.
Facilitarono la diffusione della Congregazione la necessità di riforma di molte comunità benedettine, gli statuti ben definiti e l'efficiente organizzazione internazionale, ma anche i mezzi coattivi e disciplinari usati a volte, soprattutto dopo l'XI secolo, contro monasteri non riformati.
Nel periodo di maggiore splendore di Cluny si ebbero, secondo calcoli provvisori, 1629 case riformate e 1450 case annesse. L'organizzazione della Congregazione era fondata sull'autorità del prior abbas di Cluny e dei definitori; da Cluny dipendevano i cinque priorati più antichi, da cui dipendeva direttamente a sua volta un certo numero di priorati, il gruppo delle abbazie incorporate, quelle poste sotto la sorveglianza della Congregazione e infine quelle affidate temporaneamente ai cluniacensi per essere riformate; il prior abbas aveva il diritto di visita di ciascuna abbazia dipendente e convalidava l'elezione di ciascun abate.
Grande fu l'influenza, soprattutto religiosa, della riforma di Cluny; svolse un ruolo di enorme importanza nell'ambito della lotta per le Investiture (1073-1122). Minore importanza ebbe l'influenza culturale, limitata all'architettura; molto notevole fu invece l'influsso sulla liturgia per la magnificenza dei riti, l'istituzione di particolari devozioni come la commemorazione dei defunti, l'intensificazione del culto della Santa Croce e della Vergine. Da Cluny uscirono i papi Urbano II e Pasquale II; pur senza avervi appartenuto, Gregorio VII ne adottò e ne propagò lo spirito.
[47] Scisma – Atto di ribellione che porta alla separazione di una parte dei fedeli dalla comunione della propria Chiesa, sottraendosi all'obbedienza in materia di disciplina, ma non rinnegandone il credo.
Tre sono i maggiori scismi che hanno lacerato la Chiesa cattolica: il donatismo, lo scisma d'Oriente e il Grande scisma d'Occidente.
[48] La questione del Filioque - del filioque nel Credo Niceno nell'ambito della Chiesa Romana, atto definito non canonico dalla Chiesa Orientale, anche perché in violazione allo specifico comando del Concilio di Efeso (il Credo può essere cambiato solo per consenso conciliare). La controversia circa il filioque sembra essersi originata nella Spagna Visigota del sesto secolo, laddove l’eresia ariana era particolarmente diffusa: gli ariani affermavano che la prima e la seconda persona della Trinità non sono coeterne ed uguali. Per rafforzare la teologia tradizionale, il clero spagnolo introdusse il filioque nel Credo Niceno ("Credo nello Spirito Santo, [...] che procede dal Padre _e dal Figlio_ [filioque, appunto], e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato"): all'Oriente teologicamente sofisticato tale inserzione parve affettare non solo il credo universale, ma anche la dottrina ufficiale della Trinità.
[49]La questione dei Patriarcati - Tutti i cinque Patriarchi della Chiesa indivisa concordavano sul fatto che il Patriarca di Roma dovesse ricevere onori più elevati degli altri, ma non erano in accordo se questi avesse autorità sugli altri quattro e, se gli fosse spettata, quanto ampia potesse essere tale autorità.
[68] La questione liturgica - Alcune pratiche liturgiche occidentali che l'Oriente cristiano interpretava come innovazione: un esempio ne sia l'uso del pane azzimo per l'Eucaristia. Le innovazioni orientali, come l'intinzione del pane consacrato nel vino consacrato per la Comunione, erano state condannate molte volte da Roma ma mai in occasione dello scisma.
[50] Giurisdizione – In latino iurisdictio da ius dicere, è la potestà di applicare la legge (interpretandone la portata e rendendola operante nel caso concreto) attribuita ai giudici allorché risolvono controversie in posizione di indipendenza rispetto alle parti e di indifferenza rispetto all'esito delle medesime.
[51] Cesaropapismo - Sistema di relazioni tra potere civile e religioso in forza del quale il primo si attribuisce il diritto di intervenire in ogni ambito della vita religiosa.
Manifestatosi già con Costantino con l'assunzione della vecchia carica imperiale di pontifex maximus da parte degli imperatori romano-cristiani, si diffuse nel mondo bizantino, dove i sovrani si definirono uguali agli apostoli. Questa teoria e prassi politica fu poi fatta propria dagli zar di Russia.
Contro il cesaropapismo combatté la Chiesa cattolica, in particolare con Gregorio VII, Innocenzo III e Bonifacio VIII, che gli contrapposero, a loro volta, soluzioni teocratiche.
[52] Enrico IV e l'umiliazione di Canossa - Il governo di Enrico fu caratterizzato dal tentativo di rafforzare l'autorità imperiale. In realtà si trattava di trovare un difficile equilibrio, dovendo assicurarsi da una parte la fedeltà dei nobili, senza perdere l'appoggio del pontefice dall'altra. Mise in pericolo tutte e due le cose quando, nel 1075, decise di assegnare la diocesi di Milano, divenuta vacante. Ciò fece scoppiare un conflitto con papa Gregorio VII, conflitto che è passato alla storia come lotta per le investiture. Il 22 febbraio 1076 il papa scomunicò Enrico e lo dichiarò decaduto. Precedentemente era stato Enrico a dichiarare decaduto il papa, perché la sua nomina sarebbe stata irregolare, avendo il Re dei Romani il diritto di intervenire nell'elezione del papa.
Per giungere alla revoca della scomunica, Enrico e sua moglie si recarono in penitenza a Canossa, per incontrare Gregorio VII. Per tre giorni, dal 25 al 27 gennaio 1077, rimase in attesa di fronte all'ingresso del castello, e il 28 gennaio il papa decise di revocare la scomunica, soprattutto grazie alla mediazione di Matilde di Canossa, signora del castello.
Gregorio revocò la scomunica a Enrico, ma non la dichiarazione di decadenza dal trono. Enrico IV nomina un antipapa ed attacca direttamente il papa in Roma, con l'assedio in Castel S.Angelo. Il papa è liberato dal normanno Roberto il Guiscardo. Si ha l'esilio del papa a Salerno.