Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

lunedì 26 agosto 2013

Storia sociale della cultura dal Medioevo verso la Modernità (Classe III)

Verso una nuova civiltà: la nuova società urbana.
1. Il Basso Medioevo (secoli XI - XV) – Il secolo XI mostra una svolta nella storia d’Europa: ha inizio in quell’epoca un progresso che – a differenza dei parziali e temporanei tentativi di rinascita per opera di Giustiniano e di Carlo Magno, tentativi cui segui­rono nuovi periodi di declino – durò quasi ininterrottamente fino ai tempi moderni.
Nell’Alto Medioevo si possono distinguere nell’Europa cinque aree culturali:
· bizantina
· musulmana
· scandinava
· slava
· europea.
Mentre il centro dell’iniziativa poli­tica e di propulsione della cultura europea dall’VIII all’XI secolo risiedeva nel regno dei Franchi e nella Germania occidentale, dopo l’XI secolo, la nuova cultura si esprime attraverso più centri e, diversamente da quella feudale, abbastanza omo­genea, si differenzia notevolmente.
Dall’XI secolo inizia il basso Medioevo in cui si manifestano tanti segni di cambiamento radicale nella società, nell’economia, nella cultura, nel modo di vivere e di pensare, che molti studiosi hanno adottato l’espressione autunno del Medioevo per indicare un lungo periodo che si presenta come il lento tramonto dell’età medievale che si concluse molto dopo, con la nascita dell’Europa moderna.
Per molti aspetti, infatti, il Medioevo non è finito:
· il sistema feudale, per quanto in crisi ed in trasformazione, rimane alla base dell’organizzazione sociale, militare e agricola;
· la cultura delle masse rimane ancorata alla visione cristiana del mondo;
· molti valori ideali, morali, artistici che si sono affermati nei secoli dopo la caduta dell’Impero romano restano costanti.
Altri fattori storici mostrano l’inizio di un’epoca più dinamica, con mutamenti più rapidi:
· la crisi delle concezioni universalistiche, secondo le quali il Papato e l’Impero sono le due entità politiche e spirituali in cui tutti i cristiani hanno la loro collocazione naturale.
· lo sviluppo delle attività produttive di carattere manifatturiero, dei commerci e dalla nascita di una grande attività bancaria, sostituisce la chiusa economia medievale.
· le città diventano i motori della crescita, anche demografica, dell’Europa.
Nei primi tre secoli del secondo millennio, le premesse culturali, lentamente elaborate nell’alto Medioevo, danno in ogni campo i loro frutti. Ne deriva una grande civiltà, articolata e coerente nelle sue varie manifestazioni, dalle forme politico-sociali a quelle dell’arte e del pensiero.
Nel basso medioevo l’area culturale latina, la cosiddetta Cristianità, si ampliò ulteriormente e sottrasse al dominio musulmano la Sicilia, gran parte della penisola iberica e, per qualche tempo, anche Gerusalemme e la Terrasanta e il centro di gravità di questo mondo culturale è costituito dalla Francia, dalla Germania re­nana e dall’Inghilterra meridionale. Ivi si trovano i centri di cultura più famosi, come Chartres, Parigi, Orléans, Oxford, Colonia. Ivi, per oltre due secoli, si affer­mano i pensatori prima che altrove e la nuova poesia in volgare.
Successivamente la nuova cultura si espresse attraverso più centri e, diversamente da quella feudale, ancora abbastanza omogenea, andò notevolmente differenziandosi soprattutto nel XIII e nel XIV secolo si manifestarono tanti segni di cambiamento radicale nella società, nell’economia, nella cultura, nel modo di vivere e di pensare, che molti studiosi hanno adottato l’espressione autunno del Medioevo per indicare il lungo periodo che, partendo proprio dal Duecento, si presenta come il lento tramonto dell’età medievale che si concluderà molto dopo con la nascita della società moderna in Europa.
Occorre segnalare la crisi definitiva delle concezioni universalistiche, cioè di quelle idee secondo le quali il Papato e l’Impero potevano e dovevano costituire le due entità politiche e spirituali al cui interno avevano la loro posizione naturale tutti i cristiani.
Nel corso del Trecento il Papato dovette rinunciare definitivamente ad esercitare un controllo sul potere politico che, contemporaneamente, andava assumendo un carattere nuovo e moderno negli Stati nazionali, retti da monarchie, che si formarono in Francia e Inghilterra. Il nome di Impero sopravvisse, ma senza nessun carattere universale, solo per indicare l’insieme di regni, di principati e di città dell’area tedesca ed austriaca che riconoscevano il titolo di imperatore ad un principe che era eletto.
L’altro fattore innovativo fu l’enorme sviluppo delle attività produttive di carattere manifatturiero, dei commerci e dalla nascita conseguente di una grande attività bancaria, segno che l’economia medievale non era più un’economia chiusa, caratterizzata da uno scarso bisogno di moneta e dalla sua limitata circolazione. Le città diventano i motori della crescita, anche demografica, dell’Europa.
L’età compresa tra l’XI ed il XV secolo rappresenta per l’Italia, più vistosamente nelle sue regioni centrosettentrionali, uno dei momenti di maggior splendore, una delle sedi privilegiate, dove si manifestarono più vigorosamente i cambiamenti economici e sociali che portarono all’emergere di nuove istitu­zioni politiche, di nuove forme di attività commerciale, di vita religiosa, di arte e letteratura: in questo periodo la letteratura italiana nacque e fondò saldamente la propria tradizione; questo processo ebbe un punto di svolta decisivo e del tutto eccezionale con la comparsa di tre grandi autori, Dante, Petrarca e Boccaccio che, con le loro opere, superarono molto le esperienze che li precedeva­no e crearono modelli tanto forti che è possibile affermare che con loro nacque la tradizione letteraria italiana con i caratte­ri che la distinguono dalle altre.
A metà del Trecento (1347-48) l’intera Europa fu sconvolta da un’epidemia di peste che falcidiò la popolazione, fino a dimezzarla in alcune regioni; questo avvenimento spezzò in due il secolo XIV, determinando una crisi, oltre che economica, anche morale, politica, religiosa. Il 1348, secondo moltissimi studiosi, rappresentò tuttavia l’anno del concepimento dell’uomo dell’età moderna: fu la peste a mettere in moto il cambiamento d’epoca che segnò la fine del Medioevo ed aprì le porte al Rinascimento.
Come ha dimostrato David Herlihy, dopo il 1348 non fu più possibile mantenere i modelli culturali del XIII secolo. Le gravissime perdite in vite umane causarono una ristrutturazione della società che, a lungo termine, avrebbe avuto effetti positivi. Herlihy definisce la peste "l'ora degli uomini nuovi": il crollo demografico rese possibile ad una percentuale significativa della popolazione la disponibilità di terreni agricoli e di posti di lavoro remunerativi. I terreni meno redditizi furono abbandonati, il che, in alcune zone, comportò l'abbandono di interi villaggi. Le corporazioni ammisero nuovi membri, cui prima si negava l'iscrizione. I fitti agricoli crollarono, mentre le retribuzioni nelle città aumentarono sensibilmente. Per questo un gran numero di persone godette, dopo la peste, di un benessere che in precedenza era irraggiungibile. L'aumento del costo della manodopera favorì un'accentuata meccanizzazione del lavoro. Così il tardo Medioevo divenne un'epoca di notevoli innovazioni tecniche. David Herlihy cita l'esempio della stampa. Fino a quando i compensi degli amanuensi erano rimasti bassi, la copia a mano era una soluzione soddisfacente per la riproduzione delle opere. L'aumento del costo del lavoro diede il via a una serie di esperimenti che sfociò nell'invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg. Sempre Herlihy ritiene che l'evoluzione della tecnica delle armi da fuoco sia da ricondurre alla carenza di soldati. La Chiesa, cui moltissime vittime dell'epidemia avevano lasciato in eredità i loro beni, uscì dalla peste nera più ricca, ma anche meno popolare di prima. Non era riuscita a dare una risposta soddisfacente al perché Dio avesse messo alla prova l'umanità in maniera tanto dura, né era riuscita ad essere vicina al proprio gregge, quando questo ne aveva maggior bisogno. Il movimento dei flagellanti aveva messo in discussione l'autorità della Chiesa. Anche dopo che questo movimento tramontò, molti cercarono Dio in sette mistiche e in movimenti di riforma, che alla fine distrussero l'unità spirituale dei cristiani.
Secondo alcuni storici della cultura, tra cui in particolare Egon Friedell, la peste nera causò la crisi delle concezioni medievali di uomo e di universo, scuotendo le certezze della fede che avevano dominato fino ad allora, e vede un rapporto causale diretto tra la catastrofe della peste nera e il Rinascimento.
La seconda parte del Trecento è un periodo in cui l’Europa, dopo un momento di regresso, come stordita dal grave colpo subito, faticosamente cominciò a risollevarsi, ma le condizioni erano talmente cambiate che la ripresa dello sviluppo determinò la rottura degli equilibri precedenti e il baricentro economico e finanziario, fino allora localizzato nell’Italia centro-settentrionale, comincia a spostarsi lentamente verso i paesi del centro-nord dell’Europa.
La morte appare come fine naturale di una vita tutta naturale. Negli uomini di questa età c'è un'angoscia che il mondo medioevale risolveva religiosamente: svalutando la vita corporea in vista dell'aldilà, si svalutava anche la morte che diveniva un passaggio ad una vita migliore. Per i moderni la morte è invece la fine di tutto.
Questo senso della morte così inteso si ritrova nelle raffigurazioni pittoriche delle danze macabre. Nelle danze macabre sono raffigurati gli scheletri, personificazione della morte, mentre gli uomini sono solitamente abbigliati in modo da rappresentare le diverse categorie della società dell'epoca, dai personaggi più umili, come contadini e artigiani, ai più potenti, come l'imperatore, il papa, principi e prelati. Il soggetto ha la funzione di memento mori e, rispetto ai soggetti apocalittici più diffusi nell'alto medioevo, come le rappresentazioni del giudizio universale, esprime una visione più individualistica della morte e talvolta anche una certa ironia nei confronti delle gerarchie sociali dell'epoca. È importante notare che con il tempo la figura della Morte come agente della volontà divina scompaia, lasciando iconograficamente soltanto i cadaveri, simboli del conturbante richiamo dell'aldilà, laicizzando l'ideale della morte stessa. Questa parentesi però durò poco: a breve, componimenti come La Danza macabra delle donne e La Danza dei ciechi riconsegnano il tema della Danza Macabra al moralismo ed alla sfera religioso-sacrale cristiana.
La diffusione del tema, assieme ad un certo compiacimento nella rappresentazione di scheletri e di morti, è stata messa in relazione con la grande peste del 1348, che infuriò in tutta Europa e che rese la morte un fenomeno familiare nei vari paesi europei. Alberto Tenenti sottolinea come il senso di pietà per la propria sorte e l'ironia tragica, tipica di questi componimenti, siano stati passaggi fondamentali per liberare l'uomo dall'ideale cristiano della morte.
I dipinti dedicati a questo tema sono visitabili in varie località d'Europa: qui vengono rappresentate tutte le classi sociali in ordine gerarchico e ciascuno dei ballerini dà la mano a uno scheletro e tutti insieme intrecciano una danza. Questo non vuol dire semplicemente che la morte eguaglia tutti gli uomini senza tener conto della loro condizione sociale, ma vuole far intendere soprattutto che la vita è sullo stesso piano della morte. La vita e la morte si danno la mano e insieme ballano perché tutto è futile e senza senso come una danza dove si procede senza una meta precisa, senza uno scopo se non quello di danzare. La vita come un ballo, una giravolta vertiginosa che finisce quando la musica tace e si spengono le luci.

2. La crisi del sistema feudale e la riorganizzazione politica dell’Europa – Gli Stati attuali derivano dal processo di riorganizzazione dell’Europa che segue al disfacimento del regime feudale. Si tratta di un’organizzazione molto instabile, con guerre frequenti al suo interno e incapace di esprimere un’autorità unica ed un ordine generale.
La massima autorità è l’Imperatore. Il territorio è suddiviso in feudi, ciascuno dei quali è assegnato ad un feudatario, scelto dall’Imperatore. Feudatario ed Imperatore sono legati soltanto da un vincolo personale di fedeltà e lealtà, ma un simile legame è insufficiente a garantire l’unità di potere politico su un territorio tanto vasto. Ciò spiega le frequenti guerre dell’Imperatore contro i feudatari ribelli, per sottometterli alla sua autorità, dei feudatari contro l’Imperatore, per acquistare indipendenza, e dei feudatari fra loro stessi, per sopraffarsi a vicenda.
Inoltre, l’autorità imperiale è contestata dal Papa, che anch’egli cercava di affermare la propria supremazia, nella secolare vicenda della lotta per le investiture [[1]]. La posta in gioco è il potere di scegliere i feudatari e quindi la loro dipendenza dall’Imperatore o dal Papa.
L’Europa si sgretolava così in tanti poteri locali più o meno indipendenti che, nel corso di più secoli e procedendo dal basso, danno un nuovo ordine all’Europa.
L’assenza di un’autorità politica capace di garantire l’ordine permetteva le scorrerie di bande violente che rendevano insicura la vita nelle campagne e nei cen­tri urbani. Allora, un capobanda imponeva con la forza il proprio dominio su un territorio, garantendo la sicurezza e l’amministrazione della giustizia. In cambio, però, esigeva obbedienza ed il pagamento di tributi. In questo modo, si affermava un piccolo centro di potere, capace di garantire quell’ordine che il regime feudale non è in grado di assicurare. Tante signorie, nel corso dei secoli dal XIII al XV, nacquero così, da un capobanda che si imponeva in una città o in contado. Affermata la sua autorità, il nuovo signore contrattava la sua fedeltà con l’Imperatore, strappandogli l’investitura feudale, insieme a poteri e privilegi. L’autorità dell’Imperatore è così umiliata, dovendo egli subire il fatto compiuto.
La stessa cosa avvenne con altri poteri che si venivano affermando localmente. Talora sono le città che si davano un proprio governo libero, spesso dominato dalle corporazioni delle arti e dei mestieri o dei mercanti, oppure sono i grandi monasteri che si arrogavano compiti da feudatari.
L’Europa presentava così una miriade di situazioni diverse, di signorie, di città, di monasteri, di corporazioni che formalmente rispettavano l’Imperatore ma che, sostanzialmente, ne sono indipendenti.
Nel sistema feudale mancavano i tre caratteri propri dell’organizzazione statale (sovranità, impersonalità e giuridicità):
· nessun potere sovrano è in grado di imporsi ai numerosi poteri particolari;
· i rapporti di potere sono di tipo personale;
· sebbene esistesse un complicatissimo sistema di regole giuridiche che determinavano la posizione dei feudatari rispetto all’Imperatore e agli abitanti dei feudi, contavano di più i puri e semplici rapporti di forza.
Proprio da questa situazione comincia la storia della formazione dello Stato moderno. L’ordinamento feudale fu formalmente abolito nel 1648 con la pace di Westfalia, quando fu sancita la fine dell’Impero e del Papato, come autorità politiche europee, e si riconobbe l’autorità suprema dei diversi sovrani nelle loro terre. Ma questa data è solo la presa d’atto di un processo in corso già da molto tempo.

La ripresa dell’agricoltura – La rinascita dopo il Mille – l’anno del terrore per la temuta fine del mondo – prende l’avvio da una decisa ripresa dell’agri­coltura:
· ricerca di nuove terre da coltivare strappandole alle selve e alle paludi;
· maggiore razionalità nelle colture, grazie anche ad una maggior organicità ed efficienza dei grandi complessi fondiari, soprattutto quelli dei monasteri e delle Chiese, ma anche quelli regi e quelli dei grandi feudatari.
La grande contesa per la terra, scatenatasi tra i signori secolari e tra questi e i vescovi e gli abati non contrasta questo risveglio, anzi lo favorisce: la perdita di alcune proprietà spesso spingeva a compensare guadagnando nuove terre alle colture.
La crescita demografica, che ne è a sua volta favorita, contribuisce inoltre ad accelerare il fenomeno: si tratta sia di un au­mento assoluto di popolazione che crea nuovi insediamenti in terre già incolte, sia di spostamenti o concentrazioni.
L’aumento della popolazione ed il migliore tenore di vita nelle curtes signorili e nei mo­nasteri favorirono lo sviluppo della produzione di manufatti e la formazione di schiere più numerose e diversificate di artigiani, cui spettava il compito di fornire prodotti più raffinati e più funzionali alla vita dei castelli, delle abbazie e dei vescovadi; artigiani alla cui opera è tra l’altro affidata la costruzione, l’arredamento e l’abbellimento delle nuove dimore e delle chiese.

I mercanti - Uno dei segni del cambiamento economico-sociale è l’emergere, a metà dell’XI secolo, di una nuova classe, i mercanti che occuparono nella società un posto sempre più rilevante. Inizialmente sono soprattutto negozianti girovaghi che vanno a rifornirsi della merce dov’è abbondante, per portarla dove sapevano di trovarne l’acquirente. Successivamente i mercanti preferiscono appog­giarsi alle fiere che si tenevano periodicamente, quasi sempre in concomitanza con ri­correnze religiose presso monasteri e città.
L’attività del mercante è molto remunerativa, ma gravosa e rischiosa. Per questo i mercanti si univano in gruppi, viaggiava­no in carovane, mettevano in comune dei capitali. Si tratta dapprima di associazioni temporanee, che successivamente danno luogo a istituzioni stabili: nel Nord le gilde e le anse, in Italia le corporazioni.

La ripresa della città - Sotto lo stimolo della generale ripresa economica e di quella degli scambi commerciali che si sono manifestate nella società rurale alla fine del millennio rinasce la città grazie:
· ad una maggiore disponibilità di beni;
· ad una maggiore sicurezza e facilità di trasporti e comunicazioni;
· ad una maggiore circolazione monetaria.
Il processo di fuga, che porta al disperdersi della scarsa popolazione in isolati centri nelle campagne, nei pressi delle abbazie e dei castelli, si inverte.
Le città che hanno rico­struito le mura per far fronte alle razzie degli Ungari, diventano un ricercato luogo di rifugio. I contadini che vi accorrevano vi trovavano inoltre anche la possibilità di un’elevazione sociale ed economica: l’esercizio di un mestiere, oltre a liberarli dalla servitù della gleba, permetteva loro di acquistare benessere e ricchezze. Anche i nobili feudali, principalmente i minori, i valvassori, lasciano i castelli per cercare nella città una forma di vita più confortevole, una partecipazione più diretta alla vita politica, e, nell’associa­zione con i propri consorti, una più forte capacità di resistenza alle richieste dei vassalli maggiori.
La chiusa economia curtense, fondata quasi esclusivamente sul baratto, cede il posto ad un’economia più varia e ricca, caratterizzata dallo scambio mercantile, in base alla quale si produce non più solo per consumare, ma per vendere, e dalla presenza del denaro. Tutto ciò si ripercuote favorevolmente sulle città, che diventano sempre più popolose e più ricche.
Diversamente dalla città romana occidentale, la città medioevale, è un attivo centro di produzione e di commercio e il suo governo è funzionale alle esigenze che ne derivano ed alle quali sono subordinate quelle della campagna.
La ripresa economica riporta la città al centro dell’iniziativa politica.

La società urbana - La rivoluzione economica, conseguente ad una più consistente produzione di beni e ad un commercio sempre più esteso ed articolato, mette in crisi l’or­dinamento sociale preesistente, lo sconvolge, per dar luogo ad una nuova composizione sociale.
La società cittadina è molto più articolata di quella feudale:
· i nobili, riuniti in consorterie;
· il popolo grasso, al di sotto dei nobili, raccolti attorno al vescovo come suo consiglio, costituiva la ricca borghesia, organizzato in arti maggiori che ben presto, sommergendo la vecchia classe feudale, prese nelle sue mani il governo della città per realizzare una politica espansionistica che garantisca la sicurezza delle vie commerciali. I nobili e il popolo grasso sono designati, nel loro insieme, come i magnati;
· il popolo minuto degli artigiani e dei bottegai, riunito nelle arti minori che raramente partecipa alla vita politica della città;
· i nullatenenti, i salariati che restano sempre esclusi da ogni attività politica.

Una nuova istituzione politica: il Comune - I cittadini, divenuti più numerosi, più ric­chi, più istruiti, non accettano più di essere soggetti al vescovo-conte o al feudatario nel cui territorio la città sorge: vogliono prendere il governo nelle loro mani.
Per difen­dere gli interessi comuni contro le pretese del vescovo o del feudatario, si riuniscono in una società giurata, il Comune.
I modi in cui nasce e si sviluppa questa istituzione politica, questa nuova forma di governo repubblicano della città, sono quanto mai vari.
In generale, però, il Comune nasce quale organizzazione privata, quale società giurata, ad opera di nobili minori – i valvassori – che si raccolgono attorno al vescovo-conte, dapprima per coadiu­varlo e successivamente per sostituirlo nel governo della città. È un’associazione che si propone la difesa degli interessi comuni contro le pretese del signore feudale, ricorren­do, se necessario, anche alle armi.
Più tardi entrarono a far parte della società anche i borghesi, a cominciare dai più influenti – commercianti, mercanti, banchieri, notai, me­dici e speziali, ecc. – e l’istituzione si ampliò a poco a poco, assumendosi la responsabi­lità degli interessi di tutta la città, in nome anche di coloro che, di fatto, non partecipavano al governo.
Come uno Stato, il comune si arroga ed esercita i diritti so­vrani:
· fare guerra e pace;
· battere moneta;
· amministrare la giustizia;
· arruolare uomini;
· riscuotere imposte.
Sono diritti che spettavano all’Imperatore che però è troppo lontano e troppo debole per impedirne l’usurpazione.
Le istituzioni comunali si presentarono dapprima nelle città marinare, dove la vita economica rifiorì prima che altrove: Venezia, Genova, Pisa, Amalfi; poi, dalla pri­ma metà del secolo XI, nelle città della Lombardia, del Veneto e della Toscana.
In Italia il Comune restò sempre un’istituzione propria del settentrione e del centro. Nel Meridione, tranne rare eccezioni, la forza del feudalesimo normanno prima e angioino poi non le lasciò spazio per svilupparsi.
a) Le Corporazioni medioevali – Col nome di Arti si indicarono nel Medioevo le Corporazioni [[2]] degli artigiani, dei mercanti e in genere di lavoratori raggruppati per categorie.
Sorte attorno alla metà del XII secolo all’interno dei Comuni, le Corporazioni, sono associazioni che riuniscono le varie categorie di artigiani o di borghesi in un solo corpo, dapprima come espressione economica e giuridica di coloro che esercitano le arti e i mestieri, successivamente come strumento politico per esprimere e tutelare i loro interessi nel governo della città. I cittadini, infatti, partecipano alla vita del Comune e alla sua direzione politica non individualmente, ma tramite l’arte di cui sono membri.
Le Arti si davano costituzioni o statuti[3]  che regolano:
· l’esercizio di un’arte o mestiere
· la produzione dei beni, i prezzi, le ore di lavoro, i salari, la qualità dei prodotti,
· l’ascesa, all’interno della stessa arte, dai livelli più bassi (apprendista, garzone) al più elevato (maestro),
· le norme sulle caratteristiche del prodotto e ne fissano il prezzo.
Esse hanno propri magistrati, che facevano da arbitri nelle controversie fra i soci e talvolta rappresentano l’Arte nel governo cittadino.
Quasi sempre le norme delle costituzioni hanno finalità di difesa degli interessi di tutta la Corporazione costituiti a danno di quelli emergenti, e mirano ad ostacolare la concorrenza, creando situazioni di monopolio [[4]].
Chiunque voglia esercitare un mestiere deve registrarsi alla relativa Corporazione, prima come apprendista per imparare il mestiere; poi come socio del padrone dell’azienda; e infine come maestro, ovvero padrone di un’azienda sua personale.
Solitamente le arti si distinguono in
· arti maggiori che raccolgono la cosiddetta borghesia grassa: industriali, ricchi mercanti, banchieri, giudici, notai, medici;
· arti minori costituite da semplici artigiani.
In alcune città le arti maggiori hanno presto parte e privilegi nel governo del Comune, ma in seguito acquistano influenza anche le arti minori, che in alcuni casi, come a Milano alla fine del secolo XII e a Firenze negli ultimi decenni del XIII, rimuovono dal potere le arti maggiori.
Le corporazioni medioevali non sono un fenomeno esclusivamente italiano: esse, infatti, si trovano, con nomi diversi (ad esempio gilde, anse) in tutti i Paesi europei che hanno raggiunto un alto sviluppo economico.
b) Le magistrature comunali - Il Comune dà luogo ad una sua struttura politica che, pur diversificandosi nei particolari da città a città, può essere così schematizzata:
· il potere esecutivo è nelle mani dei consoli – che variano di numero a seconda della città – cui compete il fare pace o guerra e lo stipulare alleanze e trattati;
· il potere legislativo tocca ai consigli, costituiti dai cittadini più autorevoli, e, di solito sono due, il consiglio maggiore o generale per gli affari generali e il consiglio minore o di credenza per gli affari riservati;
· il parlamento o arengo, l’assemblea generale di tutti i cittadini, ha il compito di eleggere i magistrati, tra cui i consoli e i consiglieri, e di ratificare le decisioni dei consoli.
Questa struttura originaria si evolve nel senso di ridurre l’importanza dell’assemblea dei cittadini che finisce con lo sparire, lasciando le sue competenze al consiglio maggiore, e di aumentare il numero dei consigli e, in ogni consiglio, dei consiglieri.
La vita dei Comuni è travagliata da perenni lotte interne tra nobili, popolo grasso e popolo minuto, e anche da lotte tra le famiglie più potenti strette in consorterie tra loro nemiche che si appoggiano all’una o all’altra classe. Per mettere fine a queste lotte, ai consoli si sostituisce un podestà, un cittadino chiamato da altra città perché sia al di sopra delle fazioni. Più tardi gli si affianca un capitano del popolo, col compito di tener testa ai nobili e di tutelare gli interessi dei popolani, o, per essere più precisi, delle arti maggiori che ne riuniscono la parte più ricca, il popolo grasso.
In alcuni casi, come a Firenze, esautorati tanto il podestà che il capitano del popolo, il governo è assunto direttamente dalle arti attraverso un collegio di rappresentanti delle organizzazioni artigiane, i priori delle arti.

La risposta dell’Occidente all’Islam: le Crociate - Lo sviluppo economico ed in particolare commerciale delle città e, con esso, lo sviluppo delle nuove istituzioni comunali, sono favoriti da un’importante impresa che segna anche un’estrema occasione per il mondo feudale cavalleresco di conquistare gloria, ricchezza e potere: le Crociate.
Esse sono una tra le più vistose manifestazioni della ripresa del mondo cristiano, che è stato asserragliato in ristretto territorio dall’avanzata araba e che ora, dopo averla bloccata – in Oriente a Costantinopoli nel 718 ed in Francia a Poitiers nel 732 – passava al contrattacco contro l’Islam, rappresentato dai Turchi sostituitisi agli Arabi; e, nel contem­po, favorirono esse stesse questa ripresa, dando incremento ai commerci.
Ne traggono profitto, in particolare, le città marinare italiane: Venezia, Genova, e, sia pure in misura minore, Amalfi, nel frattempo inglobata nel Regno normanno e Pisa. Quando, infatti, i crociati vittoriosi dei Turchi costituiscono in Terra Santa degli stati feudali, le città marinare hanno l’opportunità di stabilirvi eccellenti basi commerciali.
Tutto ciò non deve far dimenticare che le Crociate sono anche l’espressione di un vivo sentimento religioso che fanatizza intere folle, spingendole ad affrontare fatiche immani e rischi. Col procedere del tempo la componente religiosa va scemando e prevalgono gli interessi commerciali e politici.
La più importante delle Crociate è indubbiamente la prima (1096-1099). Essa è bandita da Papa Urbano II per liberare il Santo Sepolcro, l’accesso al quale è divenuto difficile per i pellegrini a causa dell’intolleranza dei Turchi che, nel 1076, si sono sosti­tuiti agli Arabi in Gerusalemme. Alla Crociata partecipano, sotto la guida di Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, alcuni grandi feudatari ed uno stuolo di feudatari minori. Sconfitti i Turchi in un seguito di battaglie in Asia Minore, i crociati, nel 1099, liberano Gerusalemme, e fondano nei territori conquistati una serie di stati feudali. La ripresa dei Turchi, che riescono a strappare progressivamente i territori conquistati dai Cristiani, giungendo a rioccupare Gerusalemme nel 1187, dà luogo alle successive Crociate.
Le crociate fallirono il loro scopo originario, la liberazione dei Luoghi Santi dai musulmani. Restano tuttavia un fenomeno storico della massima rilevanza non solo religiosa, ma politica, economico-sociale, culturale.
Politicamente, impegnarono i musulmani contenendone e ritardandone l’avanzata in Europa, e ciò permise lo sviluppo degli Stati centro-occidentali. L’Impero bizantino, a sua volta, pur avendo ostacolato, e non senza ragioni, le crociate, grazie ad esse poté sopravvivere più a lungo, in quanto i Turchi erano il nemico comune suo e dei crociati.
Dal punto di vista sociale, le crociate offrirono infinite occasioni di affermazione ad una feudalità, specialmente minore, che in Occidente tendeva a esaurirsi in una vita angusta e rissosa, senza prospettive di migliori posizioni materiali e spirituali: la cavalleria trovò in Oriente il suo più severo e valido banco di prova. La borghesia, infine, e con essa i ceti più modesti, vide aprirsi dalle armi dei crociati gli orizzonti di un’attività commerciale e di un arricchimento senza precedenti, che costituirono le basi della sua potenza politica. La borghesia delle Repubbliche marinare italiane fu tra tutte la maggior beneficiaria delle crociate: Pisani, Genovesi, Veneziani si assicurarono basi commerciali, privilegi, monopoli e quartieri, logge e fondachi in tutto l’Oriente sempre meno controllato da Bisanzio; fieramente rivali tra loro, si divisero in certo modo le rispettive zone d’influenza, ma non esitarono mai a violarle, in vista del predominio assoluto.
Ai rapporti militari e commerciali si accompagnavano naturalmente i rapporti culturali in senso lato: con le merci (soprattutto merci pregiate: spezie, seterie, metalli preziosi, gemme) passarono dall’Oriente bizantino e musulmano all’Occidente anche codici di classici greci e testi arabi, sia originali, sia derivati da antichi testi greci che in Europa erano sconosciuti o erano andati perduti.
Anche nel campo religioso, gli incontri tra fedi diverse contribuirono a un’apertura più larga e predisposero alla reciproca comprensione e alla tolleranza. E pure rilevanti furono l’allargamento delle conoscenze geografiche e l’ambizione di accrescerle, con nuove e imprevedibili esperienze. Per questi motivi fondamentali, e per molti altri ancora, le crociate, al di là delle intenzioni dei loro protagonisti, furono portatrici di stimoli fecondi allo sviluppo della civiltà europea nel suo complesso e costituiscono quindi una componente essenziale della sua storia.

I Normanni nel Mezzogiorno – L’unificazione del Meridione, che è politicamente diviso tra Bizantini – Calabria, Basilicata e Puglia – Longobardi – ducato di Benevento, poi frazionato nei due principati di Benevento e Salerno e nella contea di Capua – ed Arabi – Sicilia occupata dall’827 al 902, e stanziamenti temporanei in Puglia –, è opera dei Normanni, che, chiamati come truppe mercenarie nelle contese fra i vari stati, nel giro di cento anni (1030-1130), dopo essersi costituito un proprio feudo, riescono ad unificare l’Italia meridionale e la Sicilia, prima in due regni distinti, e infine, con Ruggero II, in un unico regno detto Regno di Sicilia nel 1130.
Nel 1030 il capo normanno Rainolfo Drengot ottenne dal duca di Napoli, per il quale aveva combattuto, la signoria di Aversa, cui si aggiunse quella di Gaeta.
Roberto il Guiscardo, della famiglia degli Hauteville (Altavilla), dopo un periodo di lotta con il Papato, culminato nella vittoria di Civitate nel 1056, ne divenne il principale alleato, sostenendolo militarmente nella lotta per le investiture contro l’Impero. Roberto il Guiscardo conquistò Puglia, Calabria e Campania, mentre il fratello Ruggero, al termine di una guerra durata dal 1061 al 1091, tolse la Sicilia agli emirati arabi di Palermo. Fallì invece il suo tentativo di espansione verso l’Impero bizantino poiché, sbarcato a Corfù e a Durazzo, fu costretto a tornare in Italia per domare una rivolta scoppiata in Puglia e per salvare il papa Gregorio VII da Enrico IV nel 1084.
Nel 1130, ad opera di Ruggero II (1095-1154), nipote del Guiscardo, fu costituito il Regno di Sicilia, che riuniva tutto il Mezzogiorno nelle mani dei Normanni.
Ruggero II emanò una legislazione valida per tutto il territorio, rispettando però anche le norme locali. Il Regno fu diviso in diverse circoscrizioni (giustizierati), ognuna retta da due funzionari (un giustiziere e un camerario) di nomina regia. I maggiori dignitari del Regno, con funzioni di giurisdizione, si riunirono attorno al re nella Magna Curia, primo nucleo di un’amministrazione centrale.
Alla morte del re Guglielmo II nel 1189, alla dinastia normanna subentrò quella sveva, quando l’Imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II, sposò l’erede dei Normanni, Costanza d’Altavilla (1146-1198).

I Comuni e l’Impero degli Staufen [[5]] – Il risveglio delle città ed il costituirsi dei liberi Comuni è stato favorito dalla debolezza dell’Impero di nazionalità germanica dopo la morte di Ottone III nel 1002 ed è stato rafforzato dalla crisi in cui precipitò la Germania che, fu lacerata da un’aspra contesa fra due opposte fazioni a sostegno di due casate rivali.
Si chiamavano Ghibellini i fautori della Casa di Svevia, essi si proclamavano difensori dell’onore dell’Impero perché affermavano la superiorità dell’imperatore sul Papa, sostenuta dal Privilegium Othonis. Si chiamavano Guelfi i sostenitori della Casa di Baviera, fautori della libertà della Chiesa romana, e quindi favorevoli al Concordato di Worms.
a) Federico Barbarossa - Quando, nel 1152, è eletto re di Germania Federico I della casa di Svevia, detto il Barbarossa, il suo programma di restaurazione dell’autorità imperiale trova un ostacolo proprio nei Comuni italiani, gelosi delle autonomie conquistate.
Ristabilita la pace in Germania, Federico decide di ripristinare l’autorità imperiale in Italia, infatti, le difficoltà dell’Impero avevano consentito ai comuni italiani di sottrarsi, di fatto, al controllo politico dell’Imperatore.
Nel 1154 scese in Italia per farsi incoronare imperatore e convocò la Dieta di Roncaglia per condannare la rivendicazione di sovranità dei comuni. È naturale che i Comuni trovino appoggio nel Papato, che vede nell’Impero l’antagonista di cui deve contenere la potenza per mantenere la propria supremazia. Nel 1158 Federico scende una seconda volta e distrugge Crema e Milano che si erano ribellate. Con la distruzione di Milano, dopo un duro assedio nel 1162, i Comuni lombardi si coalizzano a Pontida nel 1167 nella Lega Lombarda,   insieme di 36 città che nella battaglia di Legnano del 1176 sconfiggono il Barbarossa. Con la pace di Costanza nel 1183 tra l’Imperatore da una parte ed il Papa ed i Comuni della lega lombarda dall’altra, sono i momenti cruciali di questa vicenda: i Comuni videro riconosciuta la loro sovranità.
b) Federico II – La lotta tra Papato e Comuni da una parte, ed Impero dall’altra, si ripresenta con Federico II, nipote del Barbarossa. È l’ultimo tentativo di restaurazione imperiale: i Comuni, costi­tuitisi in una nuova Lega lombarda, sono dapprima battuti nel 1237 a Corte­nuova, poi sconfissero a loro volta le truppe imperiali a Parma nel 1248 e a Fossalta nel 1249, dove è catturato lo stesso figlio di Federico, Enzo.
L’imperatore non rinunciò a preparare la propria rivincita, ma morì improvvisa­mente proprio mentre stava riunendo un grande esercito in Puglia nel 1250.
c) Guelfi e ghibellini – Alle lotte tra i Comuni e l’Impero si intrecciano, a creare uno stato quasi permanente di guerra, le lotte per assicurarsi le vie di traffico e il monopolio dei mer­cati. A queste lotte esterne si accompagnarono, a rendere più inquieta e turbolenta la vita cittadina, le contese interne tra opposte fazioni, rappresentanti di interessi diversi: nobili e cives (= mercanti, borghesi), magnati e arti minori, ceti privilegiati e popolani esclusi dal governo.
La lotta tra Papato e Impero fornisce alle parti avverse la possibilità di scegliersi un alleato tra i due grandi contendenti per prevalere sugli avversari. Questo è l’effettivo significato della contrapposizione tra guelfi (sostenitori del Papa) e ghibellini (sostenitori dell’Impero) che caratterizza le lotte del XIII e XIV secolo.
La scomparsa di Federico II non riportò la pace, in quan­to la lunga lotta tra impero e Comuni aveva esasperato i contrasti tra le città e tra le opposte fazioni dei guelfi e dei ghi­bellini, che continuarono a combattersi, cercando l’appoggio ora del papato, ora dell’impero.
d) La crisi dell’Impero I tempi sono cambiati: quando, 60 anni dopo la morte di Federico II, Dante auspica la restaurazione dell’Impero ad opera di Enrico VII, «il grande Arrigo», esso in realtà è finito per sempre: l’unità politica europea su cui si fondava la pretesa di universalità dell’Impero cede il posto ad una pluralità di forti Stati nazionali, che vanno costituendosi sotto la guida di monarchie assolute come Francia, Spagna e Inghilterra.
Il fallimento dell’impresa di Enrico VII, sceso in Italia nel 1308 per porre pace e restaurarvi l’autorità imperiale e la sua morte nel 1313, sono l’espressione concreta del definitivo declino di questa istituzione medioevale, che tuttavia durerà, almeno formalmente, fino al 1806.

La teocrazia di Innocenzo III – Nella lotta con l’Impero, il Papato ha rafforzato la sua posizione politica: lo Stato della Chiesa, che ha avuto le sue modeste origini dalla donazione di Liutprando, è divenuto un vasto territorio che tagliava a metà la penisola, estendendosi dall’Adriatico al Tirreno.
a) Innocenzo III – Con l’ascesa al soglio papale di Innocenzo III (1160-1216) riafferma il potere papale, affermandosi come teorico della teocrazia pontificia, in linea con le idee di Gregorio VII che voleva il papato al di sopra di qualsiasi autorità politica esistente. Promosse la IV Crociata nel 1202, stimolò la cristianizzazione nei Paesi baltici, favorì la riscossa degli Stati cristiani della Spagna.
Condusse una politica di arbitrato della Chiesa in Francia con Filippo II Augusto, in Spagna, Portogallo, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Svezia e Danimarca. In Germania riconobbe imperatore Ottone di Brunswick, ma in seguito lo scomunicò, dichiarandolo deposto dalla sua carica ed eleggendo al suo posto il pupillo Federico, figlio del defunto imperatore Enrico VI. Scomunicò anche Giovanni Senza Terra, re d’Inghilterra, alleato di Ottone, ma in seguito lo investì del trono inglese come di un feudo papale.
In campo religioso iniziò la riforma della Curia romana, curò la formazione dei vescovi e ne rafforzò l’autorità, promosse la riforma dei monasteri, favorì il sorgere di nuovi ordini dediti alla cura dei poveri e dei malati e seguì con favorevole interesse il sorgere dell’ordine domenicano e dell’ordine francescano, promulgò una vasta e importante legislazione canonica. Fu anche autore dell’importante trattatello mistico De contemptu mundi, dello scritto De sacro altaris mysterio e di numerosi Sermones.
b) Le nuove eresie medievali – Al rafforzamento politico del Papato si accompagna un’azione decisa contro le eresie che possono minare l’unità del mondo cattolico. Innocenzo III si mostra inflessibile verso i movimenti ereticali, lottò in Francia contro i valdesi, i catari, gli albigesi (1208) contro i quali bandì una crudele crociata.
Gli Albigesi, diffusi in Provenza, che sono oggetto di una vera e propria Crociata che porta, fra il 1209 ed il 1229, distruzione e morte in quel fiorente paese. Lo stesso Innocenzo III si avvale, per combattere gli eretici, dell’Inquisizio­ne, un tribunale ecclesiastico che, per la crudeltà dei mezzi adottati, è rimasto tristemente famoso.
Nel 1215 convocò a Roma il IV Concilio Lateranense (XII Ecumenico), che condannò il catarismo e precisò la dottrina dei sacramenti.
c) I nuovi ordini religiosi – Con altri mezzi, più consoni allo spirito religioso, cercano di reagire alle eresie e contribuiscono al rafforzamento della fede i fondatori di due ordini religiosi, San Francesco d’Assisi (1182-1226) e San Domenico di Guzmàn in Spagna (1170-1222), che, con la predicazione e l’esempio di una vita cristiana improntata all’amore per il prossimo, cercano di fronteggiare la violenza che insanguinava le città, travagliate da continue guerre e da lotte intestine.
d) I domenicani – L’ordine di frati predicatori (Ordo Praedicatorum) fu fondato da San Domenico nel 1206. I domenicani si posero fin dall’inizio come compiti principali quelli della predicazione e dello studio; la loro attività culturale e d’insegnamento è stata ed è accuratamente organizzata e di notevole livello. Approvato da papa Onorio III nel 1216, l’ordine prese forma definita in due Capitoli Generali (supremo organo legislativo dell’ordine) tenutisi a Bologna nel 1220 e 1221; rapidamente le comunità domenicane si moltiplicarono in tutta Europa, estendendosi presto anche all’Asia. Durante il Medioevo l’ordine, organizzatosi presso la maggioranza delle università, fornì molti fra i maggiori pensatori europei; l’adattamento delle dottrine di Aristotele alla filosofia cristiana fu compito svolto in misura notevole dai domenicani, e particolarmente da Sant’Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino. Il papato affidò ai domenicani compiti di grande rilievo, come la predicazione delle Crociate, la riscossione dei tributi, il compimento di missioni diplomatiche; generalmente erano membri dell’ordine a formare i tribunali della Inquisizione.
e) I francescani – Ordine religioso mendicante (Ordo fratrum minorum, abbreviazione O.F.M.), fu fondato nel 1209 da Francesco d’Assisi che dettò per esso una breve regola, approvata verbalmente nel 1210 da papa Innocenzo III e ufficialmente da Onorio III nel 1223. A questo primo ordine si affiancarono contemporaneamente il secondo ordine femminile delle clarisse e il terzo ordine dei laici, o terziari francescani. Il fondamento ideale dell’ordine era costituito dalla vocazione a una vita di povertà evangelica e di predicazione, secondo il modello di Gesù e degli apostoli: non solo ogni singolo membro dell’Ordine dei Frati Minori Francescani doveva essere povero, ma, a differenza dei più antichi ordini monastici, l’ordine stesso nel suo complesso doveva rinunciare a ogni possesso. Una stabile organizzazione venne elaborata secondo un rigido schema gerarchico: un generale (minister generalis, eletto ogni 12 anni) alla guida dell’ordine; alle sue dipendenze i provinciali (ministri provinciales, sovrintendenti alle province) e sotto di questi i custodi (sovrintendenti alle custodie, in cui si ripartirono le province) e i guardiani (superiori dei conventi). Resa stabile da una tale saldezza organizzativa, la diffusione dei francescani fu molto rapida in ogni parte d’Europa: nel 1217 già erano presenti in Francia e dal 1221 in Germania, mentre, con l’avvento dell’età moderna, presero parte in misura assai rilevante alle missioni cattoliche. Tipico della diffusione dell’Ordine dei Frati Minori Francescani fu, a differenza dei precedenti ordini monastici, l’insediamento prevalentemente urbano. Altro fenomeno importante fu la presenza francescana nel mondo della cultura medievale, in specie nelle maggiori università europee, come quelle di Parigi e di Oxford: tra il sec. XIII ed il XIV si svilupparono scuole teologiche francescane cui spetta un posto di grandissimo rilievo nella storia della filosofia scolastica, e che ebbero quali esponenti del proprio pensiero filosofi come, Bonaventura di Bagnoregio, Ruggero Bacone, Giovanni Duns Scoto, Guglielmo di Occam.

Il declino del Papato - Dopo la morte di Federico II nel 1250, il Papa, favorendo il fratello del re di Francia, Carlo d’Angiò, nella conquista del regno di Sicilia nel 1266, regno che comprendeva anche l’Italia meridionale, sventa il rinnovarsi del pericolo che ha rappresentato per lo Stato pontificio l’unione della corona imperiale e di quella di Sicilia nella persona di Federico II.
Nonostante questo successo politico, anche il Papato, come già l’Impero, vede declinare la supremazia che sembrava aver conseguito ai tempi di Gregorio VII (1073-1085) ed Innocenzo III (1198-1216). Inutilmente Bonifacio VIII Caetani (1294-1303) riafferma la supremazia del pontefice nella Bolla Unam Sanctam.
La stessa ragione che ha portato al declino dell’Impero segna quello del Papato: il costituirsi di nuove forze politiche, le monarchie nazionali, alle quali le due istituzioni che hanno dominato la scena nel Medioevo non sono più in grado di tener testa.
a) Bonifacio VIII – Bonifacio VIII fu un intransigente sostenitore del primato spirituale e temporale dei papi alle soglie di un periodo che avrebbe segnato al contrario la decadenza della Chiesa medievale. Alle aspirazioni di rinnovamento religioso delle correnti escatologico-spiritualistiche oppose dapprima una politica di repressione e quindi di integrazione. In Italia sostenne la propria supremazia con diverse intromissioni nei conflitti che agitavano Stati e città della penisola, interventi destinati comunque al fallimento o ad effimeri successi.
Lo scacco della politica di Bonifacio VIII apparve evidente e definitivo sulla scena internazionale, in particolare nella lotta che lo oppose a Filippo IV di Francia: al divieto di tassare gli ecclesiastici imposto dal papa, Filippo rispose con un rifiuto e, al rinnovato appello del papa all’obbedienza, il re francese oppose la deliberazione degli Stati Generali per la prima volta riuniti nel 1302 che negarono la supremazia pontificia sulla monarchia. La bolla Unam sanctam del 1302 di Bonifacio VIII, dove è tra l’altro affermata la necessità della soggezione al papa per l’ottenimento della salvezza, fu l’ultimo, vano tentativo di ristabilire l’assoluta supremazia temporale del papato: nel 1303 Guglielmo di Nogaret, inviato di Filippo, arrestò di Bonifacio VIII ad Anagni e, per quanto una sollevazione popolare ottenesse l’immediata liberazione del papa, che un mese dopo moriva, questo episodio segnò l’effettiva sconfitta delle pretese di Bonifacio VIII e, con esse, dell’ideologia teocratica medievale ormai superata dall’affermarsi della nuova realtà degli Stati nazionali.
b) La Cattività avignonese – La subordinazione del pontefice al re di Francia e il trasporto della sede pontificia da Roma ad Avignone con Clemente V de Got nel 1305, per sottrarla ai disordini che travagliavano la città, sono l’espressione più vistosa di questo declino.
La Cattività avignonese dura fino al 1377. I sette papi di questo lasso di tempo furono tutti francesi. Nel 1367, Urbano V riportò la sede papale a Roma, ma solo per un breve lasso di tempo. Tre anni dopo si era di nuovo ad Avignone. Fu eletto Gregorio XI. Gregorio fu l’ultimo papa francese e avignonese: con lui il 17 gennaio del 1377 la sede papale tornò stabilmente a Roma.
c) Il Grande scisma d’occidente – Alla morte di Gregorio, ebbe luogo il Grande scisma d’occidente: mentre in Francia il papa era Clemente VII, a Roma c’era Urbano VI. Nei successivi concili, il problema non fu risolto; e anzi, dopo quello del 1409 di Pisa, i papi diventarono addirittura tre. Solo al termine del concilio di Costanza (1414-1418) in cui furono ritenuti non validi i tre papi esistenti, e durante il quale sarà eletto Martino V nel 1417 si avrà un papa solo per tutta la cristianità, e non più due o tre.

Il Mezzogiorno angioino – L’instaurarsi della dinastia angioina nel Sud segna sulla distanza il declino del Mezzogiorno, che, sotto gli Arabi, i Normanni e gli Svevi, ha conosciuto momenti di grande floridezza e splendore.
Palermo, che Federico II ha scelto come sede della sua corte, è, come già sotto la dominazione araba, una delle città più ricche e colte d’Europa.
Nel 1250 muore Federico II lasciando erede dell’impero, del Regno di Sicilia e di Gerusalemme il figlio Corrado IV; vicario in Sicilia e in Italia il figlio naturale Manfredi. Essendo Corrado IV impegnato in Germania nel tentativo di farsi riconoscere imperatore, Manfredi amministrò l’Italia in modo autonomo ed alla morte di Corrado IV nel 1254 e alla notizia falsa, della morte dell’erede al trono Corradino, si fece proclamare re di Sicilia nel 1258).
Il 26 febbraio 1266 Manfredi fu sconfitto a Benevento da Carlo d’Angiò che, s’impadronì di tutto il Mezzogiorno e vi insediò feudatari francesi. Incoronato re di Napoli Carlo d’Angiò spostò la capitale da Palermo a Napoli la vecchia capitale sarebbe stata per lui troppo decentrata.
Carlo d’Angiò sempre assillato dal bisogno di danaro fu costretto ad imporre imposte e balzelli. Essendo esenti dalle nuove imposte nobili, provenzali ed ecclesiastici, il peso di questo regime fiscale finiva col cadere quasi completamente sulle spalle del ceto medio e del popolo generando malcontento e causando tumulti come la rivolta dei Vespri siciliani del 1282 e la guerra ventennale che ne segue, la Sicilia passa alla casa d’Aragona, restando l’Italia meridionale agli Angioini con la pace di Caltabellotta del 1302.
A Carlo I successe Carlo II, e a questi il figlio Roberto che fu chiamato “il più saggio tra i cristiani” e il “pacificatore d’Italia”. Roberto, capo del partito guelfo ebbe interessi nel campo letterario ed artistico che lo spinsero a contornarsi delle migliori menti del suo tempo ed a chiamare a Napoli gli artisti più quotati, i letterati e gli scienziati più famosi per lo Studio Generale.
L’egemonia in Italia della casa d’Angiò guidò anche la politica del re Roberto d’Angiò (1309-1343) che si presentò come il sostenitore delle forze nazionali contro le interferenze tedesche, come il pacificatore della penisola, ottenendo il consenso di artisti, poeti e studiosi. La corte di Napoli divenne sotto di lui, uomo sensibile e colto, un fiorente centro di attività intellettuale. Vi si formò un’importante scuola giuridica, vi operarono pittori come Giotto e Simone Martini, vi soggiornarono poeti e scrittori come Petrarca e Boccaccio.
Questa fastosa apparenza tuttavia celava una grave crisi interna. Il potere della corona era limitato dalle tendenze anarchiche dei baroni, tendenze che Roberto d’Angiò si sforzò di contrastare concedendo altre terre, detratte dal patrimonio demaniale, e altri privilegi, con il risultato di diminuire le entrate e le prerogative della monarchia.
D’altronde questa non aveva la possibilità di appoggiarsi sul ceto borghese, debole economicamente e compresso nei privilegi della nobiltà e del clero. Nel regno di Napoli avveniva allora un processo inverso a quello che era in atto negli stati europei: la corona anziché combattere la nobiltà con l’aiuto della borghesia aveva scelto la via del compromesso; in questo modo fra il XIV secolo e la fine del XV secolo la feudalità ben lungi dall’essere un’articolazione periferica del potere statale, come era al Nord, era una classe potente e ricca, che deteneva nelle proprie mani la vita economica di paesi e villaggi.
Un altro motivo di crisi del Regno era rappresentato dalla massiccia presenza nella sua vita economica di forestieri, in particolare Fiorentini e Catalani, che si accaparrarono ogni tipo di posti e di favori, facendo spesso prevalere interessi estranei a quelli locali.
Una rigida struttura feudale, importata dalla Francia invece di creare condizioni adatte all’affermarsi di attività mercantili e finanziarie e dello svilupparsi della borghesia, andava soffocando e spegnendo quei centri e quelle correnti di attività commerciale e marinara che dal tempo delle repubbliche marinare, fino in pratica all’insediamento degli Angioini avevano assicurato al Mezzogiorno della penisola una notevole prosperità economica. Questo processo di diffusione del feudalesimo sotto il dominio angioino avveniva proprio nel periodo in cui le città dell’Italia centrale e settentrionale erano le protagoniste del grande sviluppo commerciale e finanziario realizzato dall’Europa centro-occidentale. Si creava così una situazione di arretratezza della parte meridionale della penisola italiana rispetto a quella centrale e settentrionale, una frattura fra questa e quella, nello sviluppo economico e politico che si sarebbe sempre più definita ed aggravata nei secoli successivi.
La crisi del Regno di Napoli si manifestò pienamente alla morte di Roberto d’Angiò cui successe la nipote Giovanna. Fu sotto il regno di Giovanna I (1343-1382) che lo stato napoletano apparve in piena disgregazione in balìa di forze e sovrani stranieri, lacerato dai contrasti e dall’anarchismo della feudalità. Per lunghi anni arse un’aspra guerra tra Angioini e Durazzeschi. Nella guerra entrò a far parte ad un certo momento Alfonso V d’Aragona, re di Aragona, Sardegna e Sicilia.

Le Signorie – Nella seconda metà del XIII secolo quasi ovunque gli ordinamenti comunali si trasformarono in signorie, cioè l’effettivo esercizio del potere passò nelle mani di un solo individuo (il dominus o signore) che inizialmente fu il rappresentante delle forze borghesi che si erano affermate vittoriosamente. Il passaggio al regime signorile si attuò diversamente nelle varie realtà cittadine italiane ed in alcune non rappresentò che un episodio saltuario.
Le Signorie fecero la loro comparsa dap­prima nell’Italia settentrionale, e precisamente nel Veneto e nella Lombardia, dove più precoce e ricca era stata la fioritura dei Comuni.
a) Il sorgere delle Signorie Le lotte intestine tra fazioni opposte (nobili-popolani; guelfi-ghibellini), che dilaniavano quasi ininterrottamente le città, portarono alla morte delle istituzioni comunali e della libertà.
Il desiderio di ordine e di pace favorisce l’ascesa di uno dei nobili appartenenti alle famiglie con maggior seguito, al quale si affidò il governo, la Signoria, della città, dapprima per un tempo determinato (di solito per un anno, a volte anche per cinque), poi a vita.
Si sostituiva così, ad una repubblica corporativa, una dittatura personale, anche se in più casi continuavano a sopravvivere formalmente intatte le magistrature comunali, che il signore affidava ai suoi fedeli, ed il cui compito si riduceva alla ratifica dì quanto egli ha già deciso.
b) La Signoria e lo Stato moderno La Signoria, se può essere considerata un’involuzione perché segna la scomparsa della partecipazione dei cittadini al governo, rappresentò senz’altro un progresso per più versi. La concentrazione dei poteri in mano di un solo pose fine alle lotte intestine con van­taggio della prosperità economica. È favorita, per la stessa ragione, la capacità espan­sionistica degli stati cittadini più forti, che riescono così a costituire degli stati regionali in grado di fronteggiare, almeno inizialmente, le monarchie nazionali che si vanno formando fuori d’Italia. Infine, mentre nel Comune i cittadini godevano di una diversa capacità politica secondo la classe o la corporazione di appartenenza, di fronte al si­gnore essi sono tutti eguali, benché tutti sudditi sprovvisti di potere politico. Il signore è, in ultima analisi, un sovrano assoluto che assomma nelle sue mani tutto il potere e la cui volontà è la fonte di tutte le leggi.
In questo senso esso è la prima appa­rizione in Europa dello stato moderno, cioè dello stato che non riconosce al di sopra di sé nessun’altra volontà o condizionamento, a differenza dello stato feudale in cui il sovrano è limitato dal potere superiore della Chiesa e dalle immunità dei feudatari.
c) MilanoDopo la battaglia di Cortenuova a Milano si affermò Pagano della Torre, feudatario appartenente a una famiglia da tempo residente nella città. L’arcivescovo Ottone Visconti, che guidava l’opposizione nobiliare ghibellina, sconfisse i Della Torre in battaglia nel 1277 e si fece proclamare signore. Il nipote Matteo (1250-1322) estese i domini milanesi al Monferrato aprendo nuove possibilità ai mercanti e agli artigiani e trasformando Milano in una grande città manifatturiera e commerciale.
Il potere fu ripreso dai Della Torre nel 1302 e i Visconti lo riconquistarono stabilmente nel 1329 e primeggiarono nelle figure dell’arcivescovo Giovanni (1290-1354) e di Gian Galeazzo (1347-1402). Nella prima metà del XIV secolo cominciò l’espansionismo della Signoria viscontea. Dopo la lotta contro Mastino della Scala, i Visconti ottennero Brescia che si aggiunse ai domini su Como, Vercelli, Pavia, Lodi, Piacenza, Cremona, Crema e Bergamo. Giovanni Visconti (1349-1354) si impadronì di Parma, Alessandria, Tortona, Bologna e Genova. I suoi nipoti Galeazzo, Bernabò e Matteo persero Genova e Bologna.
d) FirenzeNel XIII sec. Firenze era uno dei maggiori centri economici italiani ed europei i cui mercanti esercitavano soprattutto il commercio della lana ma erano spesso impegnati anche in attività bancarie (nel 1252 fu coniato il fiorino d’oro, che si affermò come moneta per i mercati internazionali). In campo amministrativo assunse importanza sempre maggiore la borghesia delle arti (vi erano 7 arti maggiori, 5 medie e 9 minori). Nel 1282 si costituì il governo dei Priori delle arti, formato da sei priori che affiancarono e poi sostituirono i magistrati precedenti. Nel 1292 gli Ordinamenti di giustizia, voluti da Giano della Bella, esclusero i magnati dal governo riservando le magistrature e i consigli solo agli appartenenti alle arti minori o mediane. In seguito fu concesso ai magnati di partecipare all’amministrazione cittadina purché si iscrivessero a un’arte (fu il caso di Dante Alighieri che si iscrisse all’arte dei medici e speziali).
Tra il XIII e il XIV sec. i regimi signorili furono soltanto transitori.
Firenze fu percorsa da lotte intestine tra famiglie rivali, ordinate negli schieramenti guelfo e ghibellino. Dopo transitori periodi di regime signorile Firenze entrò in conflitto con lo Stato Pontificio per non aver aderito alla Lega antiviscontea, conflitto che ebbe ripercussione sulla vita civile, portando al cosiddetto tumulto dei ciompi (dal nome dei cardatori di lana detti ciompi) nel 1378. I ciompi (scardassatori e lavoratori dell’industria laniera) si sollevarono contro la borghesia e nominarono un loro gonfaloniere, Michele di Lando. La classe dirigente dovette costituire nuove arti (tintori, farsettai, ciompi) ed ammettere al governo i loro rappresentanti. Indeboliti internamente dalla defezione dei tintori e dei farsettai e abbandonati da Michele di Lando, i ciompi furono estromessi dal potere che passò nelle mani di poche famiglie di grandi commercianti e banchieri, come gli Albizzi e gli Strozzi, per passare nella seconda metà del XV sec. in quelle della famiglia de’ Medici.
e) VeneziaDiversamente che a Firenze, a Venezia le arti non ebbero mai funzione politica; inoltre non era mai esistita nemmeno una nobiltà feudale che potesse contrastare i mercanti. Il problema dei mercanti veneziani fu quello di limitare i poteri del doge, il magistrato di origine bizantina, e nello stesso tempo di impedire l’ascesa di nuove classi. Dopo aver creato organi che limitavano il potere del doge ed eliminato l’assemblea popolare, nel 1297 (la cosiddetta “serrata del Maggior Consiglio”) fu stabilito che potessero fare parte del Maggior Consiglio (l’organo che dal 1172 eleggeva il doge e aveva funzioni legislative) solo coloro che vi avevano fatto parte negli ultimi 4 anni o appartenessero a famiglie i cui membri ne avessero fatto parte (l’aggregazione di nuove famiglie fu permessa secondo rigide norme di procedura). Due tentativi di instaurare la Signoria furono facilmente stroncati e si istituì il “Consiglio dei Dieci”, col compito di prevenire ogni attentato all’oligarchia.
f) Altre Signorie Nelle altre città italiane alcune Signorie si formarono su base podestarile, altre come vicariato imperiale, altre ancora per dedizione a un signore forestiero. Le principali sorsero a Verona (Della Scala), a Padova (da Carrara), a Ferrara (d’Este), a Mantova (Gonzaga), a Treviso (da Camino), a Ravenna (da Polenta), a Urbino (da Montefeltro).
g) Le compagnie di ventura – L’ascesa del signore, che di norma si appoggiava alle forze popolari per contrastare e spazzare l’opposizione dei nobili suoi avversari, gelosi delle proprie prerogative, è favorita dall’uso invalso di ricorrere a soldati mercenari, le co­siddette compagnie di ventura, per combattere le continue guerre, alle quali i cittadini cercavano di sottrarsi. Per svolgere indisturbati le proprie attività produttive, per non correre i rischi del combattimento e per sottrarsi alle fatiche e ai disagi della vita militare, essi preferivano pagare un tributo, con il quale il Comune prima e il signore poi assoldavano milizie mercenarie.
Queste, in mano al signore, costituiscono un poten­te strumento per realizzare una politica indipendente dal consenso dei cittadini e, per fronteggiare la loro eventuale opposizione e tenere a freno i malcontenti.
Nei confronti delle compagnie di ventura, considerata una delle piaghe del tempo, si leva­rono voci di politici e anche di poeti, come Petrarca.
h) La polverizzazione politica della penisolaIn Piemonte non sorsero Signorie di rilievo: è il campo di espansione dei Visconti, mentre si protraevano forme feudali di governo grazie alla potenza dei Savoia che hanno inco­minciato ad estendere i loro domini in Italia, e dei marchesi di Saluzzo e del Monferrato.
Nelle città marinare le forme di governo comunale si mantennero più a lungo.
Nell’Italia centrale, mentre Firenze si manteneva a Comune sino a quando, nel 1434, Cosimo de’ Medici ne divenne di fatto il signore, pur senza modificare l’ordinamento preesistente, si costituiscono numerose piccole Signorie, quando la lontananza del pontefice, rifugiatosi ad Avignone, favorisce il disgregarsi dello Stato pontificio.
È una situazione di vera e propria polverizzazione politica cui si sot­traeva soltanto il Meridione che manteneva ancora una certa unità, anche dopo il di­stacco della Sicilia dal regno di Napoli.
Tale condizione di frazionamento è aggravata dal fatto che anche le Signorie o le Repubbliche maggiori, come Milano e Firenze, non presentavano un’unità territoriale, e spesso le città soggette passavano da un signore all’altro nella ricerca di una migliore difesa dei loro interessi o in connessione con il prevalere di una fazione politica al loro interno. Ne conseguiva uno stato permanente di guerra, in cui i fronti e le alleanze mutavano continuamente.

Le monarchie nazionali - Mentre in Italia si sviluppavano gli Stati cittadini comunali che, evolvendosi in principati, davano luogo a Stati regionali con la conseguente divi­sione politica della penisola, in FranciaSpagna ed Inghilterra si costruivano forti mo­narchie che crearono Stati nazionali unitari [6]. Ciò costituì un elemento di forza che con­sentì loro dì assumere quella posizione di preminenza politica sino ad allora tenuta da­gli Stati italiani.
In Francia l’unificazione nazionale è opera della monarchia capetingia [[7]], iniziata nel 987, ed è il risultato di un lungo processo di smantellamento della grande feudalità francese. La lotta tra monarchia e feudatari è resa più difficile dal fatto che il maggiore dei grandi feudatari è lo stesso re d’Inghilterra, vassallo del re di Francia in quanto duca di Normandia. I sovrani che maggiormente portarono avanti il processo di unificazione sono Filippo II, che a Bouvines  [[8]] nel 1214 sconfisse il re d’Inghilterra Giovanni Senza Terra, e Luigi IX il Santo. La Francia corse il pericolo maggiore quando, all’estinzione del ramo primogenito dei Capetingi [[9]] nel 1328, il re d’Inghilterra Edoardo VIII vantò diritti sul trono francese. Ne segue la guerra dei Cento anni [[10]] (1337-1453) che, dopo alterne vicende, in cui la monarchia francese si vede sull’orlo della sconfitta nella battaglia di Azincourt, del 1415, si concluse con l’integrale riscatto del ter­ritorio nazionale, ad eccezione di Calais rimasta in mano agli Inglesi. Nel momento più grave della lotta è risolutivo a risollevare gli animi dei francesi e le sorti della nazione l’intervento di Giovanna d’Arco, una pastorella che, cinte le armi e dicendosi chiamata da Dio, riuscì a battere gli Inglesi. Fatta da loro prigioniera, è condannata e arsa co­me eretica.
Il processo di unificazione è portato avanti poi da Luigi XI [[11]] (1461-1483) e da Carlo VIII [[12]] (1470-1498). Sotto quest’ultimo re, la Francia è lo Stato più forte dell’Europa del tempo.
Lo Stato unitario spagnolo è il risultato della lotta dei regni cristiani di Spagna contro i Mori, la cosiddetta Reconquista [[13]]. L’atto finale dell’unificazione è il matrimonio di Isabella, regina di Castiglia, con Ferdinando II il Cattolico, re d’Aragona, che, uniti, hanno ragione dell’ultima resistenza musulmana a Granada nel 1492.
Dall’unificazione della penisola iberica restava escluso il regno del Portogallo.
Lo Stato unitario inglese ha le sue origini nella conquista dell’Inghilterra ad opera di Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia nel 1066. Si è già detto delle lotte dei re d’Inghilterra contro i re di Francia di cui sono vassalli. La sconfitta subita da Giovanni Senza Terra a Bouvines dà forza alla nobiltà feudale inglese che riuscì a strappare al re un insieme di limitazioni del potere regio fissate nel documento noto co­me Magna charta libertatum del 1215. Questa concessione sarà il punto di partenza per la conquista di quelle libertà che portarono successivamente alla costituzione di un Parla­mento diviso in Camera dei Lord, i rappresentanti della nobiltà feudale, e Camera dei Comuni, i rappresentanti delle città.
È la prima apparizione, sia pure in forme limita­te, di una monarchia costituzionale, cioè dì una monarchia in cui il potere del sovrano è condizionato da quello dei rappresentanti dei sudditi.
La guerra delle Due Rose che contrappose per ragioni di successione la casa di York alla casa dei Lancaster con i rispettivi sostenitori, dissanguò la nobiltà feudale e re­se possibile una svolta assolutistica con la dinastia dei Tudor. Il processo di liberalizzazione riprenderà soltanto nel secolo XVII.
L’Austria, sorta sulle rovine del Sacro Romano Impero di nazio­nalità germanica cui si è cercato di porre fine con la riforma dell’Impero [14], è un altro Stato che, alla fine del Medioevo, acquistò un ruolo di primaria importanza a fianco di Francia, Spagna ed Inghilterra. La sua comparsa nel numero delle grandi potenze si ha con Massimiliano d’Asburgo [[15]], arciduca d’Austria e Imperatore del Sacro Romano Impero (1493-1519).

L’invenzione della polvere da sparo e della stampa – La vivacità della vita intellettuale e l’ampliarsi degli orizzonti dell’uomo europeo in questo periodo sono testimoniati an­che da alcune invenzioni destinate ad avere una straordinaria importanza nel futuro: l’invenzione della polvere da sparo e quella della stampa.
L’invenzione della polvere da sparo è dovuta a un monaco tedesco, Bertoldo Schwartz, e risale ai primi anni del XIV secolo. In realtà la polvere, una miscela detonante di zolfo, carbone e salnitro, è già nota ai Cinesi e agli Arabi, che l’usavano, i primi per i fuochi d’artificio, i secondi per spaccare le rocce. L’invenzione consistette nella costru­zione di armi appositamente progettate per lanciare, grazie alla forza dirompente di ta­le miscela, dei grossi proiettili a grande distanza. L’efficacia di queste armi tardò a far­si sentire; ma quando, nel secolo XVI, esse divennero più precise e sicure, portarono alla scomparsa della cavalleria feudale pesantemente armata per lasciare posto a fante­rie armate d’archibugio e alla cavalleria leggera. Le innovazioni introdotte dalle armi da fuoco favorirono le monarchie assolute nelle loro lotte contro la nobiltà feudale, perché possono disporre dei maggiori mezzi finanziari richiesti dalla costruzione delle artiglierie e dal mantenimento dei reparti che dovevano usarle. Pertanto la scoperta delle armi da fuoco contribuì, alla lunga, ad accelerare la decadenza politica del mon­do feudale.
L’invenzione della stampa risale al tedesco Giovanni Gutenberg che, verso il 1454, pub­blicò a Magonza dei volumi stampati per la prima volta con caratteri mobili. Questo procedimento facilitava e rendeva più economica la stampa e permetteva di sfruttare meglio, per la riproduzione in molteplici esemplari, la carta che già dal secolo XII ha cominciato a fabbricarsi anche in Europa, portatavi dagli Arabi che ne hanno ap­presa la tecnica dai Cinesi. La combinazione di queste due invenzioni, la carta e la stampa a caratteri mobili, facilitò la diffusione della cultura: i libri non sono più il privilegio dei conventi, degli ecclesiastici e dei principi, ma poterono essere acquistati anche dalla borghesia, rafforzando il processo già in atto della laicizzazione della cultu­ra e contribuendo alla circolazione delle idee.

Le scoperte geografiche - In questo periodo la conoscenza che l’uomo europeo ha del­la Terra si amplia con eccezionale rapidità. Fino alla fine del secolo XIII si può dire che per l’uomo europeo la terra abitata andava dal lontano, nebuloso e quasi mitico Catai, la Cina, o dal Cipango, il Giappone, di cui ha avuto notizia da alcuni missionari o mercanti (Giovanni dal Pian del Carpine tra i primi, Marco Polo tra i secondi), allo stretto di Gibilterra.
La stessa Africa, al di là delle coste settentrionali, è scono­sciuta. La spinta ad ampliare la conoscenza del mondo non venne, come si poteva pensare e come l’episodio dell’Ulisse dantesco suggeriva, da un desiderio di pura conoscenza, ma dall’esigenza dei mercanti europei di trovare una via per l’Oriente (indi­cato genericamente col nome di Indie) che non soggiacesse al monopolio degli Arabi, che controllavano le grandi strade carovaniere attraverso l’Asia Minore.
I primi progetti in questo senso consistettero nella ricerca di una via che circumnavigas­se l’Africa. Su questa strada si sono messi i genovesi fratelli Vivaldi che hanno ol­trepassato lo stretto di Gibilterra nel 1291 ed altri navigatori genovesi che, nel secolo successivo, sono giunti sino alle Canarie e alle Azzorre. Però le iniziative più organi­che sono opera di Portoghesi, sotto lo stimolo del loro re Enrico il Navigatore (1426-1460). Sullo slancio delle prime spedizioni in questa direzione, Bartolomeo Diaz doppiò il Capo di Buona Speranza nel 1486, e Vasco de Gama arrivò a Calcutta nel 1498.
Però quest’ultimo successo parve allora sminuito dal fatto che sei anni prima (12 ottobre 1492) Cristoforo Colombo, al servizio dei re di Spagna, ritenne di essere per­venuto alle Indie per una via totalmente diversa: la via d’Occidente. Convinto della sfe­ricità della Terra grazie agli studi di un geografo italiano, Paolo Toscanelli, egli ha pensato che, veleggiando verso occidente attraverso l’Atlantico, sarebbe giunto al Catai. E quando, dopo un viaggio di circa dieci settimane arrivò all’isola di Guanahànì, nei Caraibi, egli ritenne di essere giunto nell’arcipelago del Giappone; in realtà ha sco­perto un nuovo continente, come dimostrarono i viaggi successivi di Giovanni Caboto, di Vasco Nunez de Balboa e di Amerigo Vespucci dal quale il nuovo continente prese il nome di America (terra Americi, come scrisse allora un cartografo tedesco sul suo atlante).
Già con questi ultimi viaggi, alla spinta originaria (ricerca della via per le Indie) ne è subentrata un’altra: quella di esplorare le nuove terre e di fondarvi colonie, cioè scali commerciali e punti di raccolta delle materie prime. Presto seguirà il disegno di conqui­stare vasti territori per assoggettarli alla madrepatria europea: nasceranno così i grandi imperi coloniali.
Il desiderio di esplorazione guidò alcuni anni più tardi (1519-22) Ferdinando Magellano in un viaggio di circumnavigazione del globo. In poco più di 120 anni l’uomo europeo ha superato le vietate colonne d’Ercole, e acquisito la conoscenza di quasi tutta la Terra.
La scoperta dei nuovi continenti da parte delle potenze europee – dapprima Spagna e Portogallo, poi Olanda, Inghilterra e Francia – deve avere conseguenze di eccezio­nale portata nella storia successiva.
L’europeizzazione del mondo, con la compressione o addirittura la scomparsa delle altre civiltà, ne è una delle più vistose. Le ricchezze che le potenze europee traggono dalle colonie consentirono loro di rafforzare il dominio sulle popolazioni extraeuropee riducendole a quelle condizioni di sudditanza e di subalternità che ancora ai nostri giorni non sono state del tutto rimosse. Il processo di decolonizzazione è stato il primo momento di tale rimozione.
Per l’Italia la scoperta di nuovi continenti segna la fine della posizione di centralità di cui ha goduto fino ad allora.

La rottura dell’unità del mondo cristiano: la Riforma - Frutto dello spirito critico caratterizzante questo periodo è anche la Riforma protestante, il vasto e profondo movi­mento religioso che staccò dalla Chiesa di Roma le popolazioni germaniche e anglosas­soni. Con ciò venne meno un altro dei fondamentali caratteri del Medioevo: l’unità del mondo cristiano.
Il movimento di ribellione partì da un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero (1483-1545), il quale rivendicò al credente il diritto di interpretare le Sacre Scritture se­condo coscienza e non secondo i dettami della gerarchia ecclesiastica.
La predicazione di Martin Lutero potè avere successo e portare al distacco di mezza Europa dalla Chiesa di Roma perché ha l’appoggio dei principi tedeschi. Essi vi trovarono l’occasione politica per contrapporsi all’Imperatore, nei cui confronti volevano affermare la propria autonomia, e, nel contempo, un pretesto per incamerare i grandi beni degli or­dini religiosi che sono soppressi; e infine un modo per interrompere il flusso di denaro che lasciava i loro Stati diretto a Roma, sotto forma di decime e di acquisto di indulgenze.
Il popolo segue i principi e i riformatori perché vede nella riforma l’affermazione della na­zionalità germanica contro quella latina, e perché sperava che il rinnovamento religioso comportasse un rinnovamento sociale, con la costituzione di una società più giusta.
È questa la base della rivolta dei cavalieri (lo strato più basso della classe nobiliare) e di quel­la dei contadini, rivolte che sono entrambe duramente represse dai principi, con l’appro­vazione di Lutero.
Al distacco della Germania da Roma per opera di Lutero seguirono il distacco della Danimarca, quello della Svezia, della Norvegia e dei Paesi Bassi, e, ad opera di Zwingli e di Calvino, di buona parte della Svizzera, e infine dell’Inghilterra ad opera del suo re Enrico VIII.
La riforma protestante riceve notevole impulso dal francese Giovanni Calvino (Noyon, Piccardia 1509 - Ginevra 1564), che con l'Istituzione della religione cristiana del 1536 pose la base dottrinale del calvinismo, centrata sull'idea della sovranità assoluta di Dio, il quale concede la grazia e la salvezza ai prescelti al di là dei loro meriti e secondo criteri insondabili dall'uomo, la cosiddetta dottrina della predestinazione; i prescelti si riconoscono per la fede assoluta e fiduciosa in Dio e nella sua provvidenza e per la severa integrità di vita.
A Ginevra, dove si trasferì, istituì una teocrazia per garantire una rigorosa coerenza tra i principi religiosi e la condotta morale, la cui osservanza doveva essere controllata da membri scelti dalla comunità tra i fedeli di onesta condotta. La Chiesa è la comunità degli eletti, che riuniva i predestinati di Dio alla salvezza e vi sono riconosciuti quattro ministeri (i pastori, i dottori, gli anziani e i diaconi), ai quali è affidato il governo della comunità ecclesiale e civile.
È da rilevare che si staccarono dal cattolicesimo proprio alcune nazioni, come l’Inghilterra e i Paesi Bassi, che, per un concorrere di circostanze favorevoli, svolgeranno un ruolo di primo piano nella storia moderna e in quella contemporanea, mentre alcune tra le nazioni rimaste cattoliche, come ad esempio la Spagna e l’Italia, sono destinate a conoscere nel futuro un periodo di declino.
Di particolare importanza sarà il fatto che la colonizzazione inglese, che darà origine agli Stati Uniti d’America, avverrà ad opera di riformati.

La fine della libertà italiana – Le Guerre d’Italia furono una serie di otto conflitti, combattuti prevalentemente in Italia dal 1494 al 1559, che avevano come obiettivo finale la supremazia in Europa. Furono inizialmente avviate da alcuni sovrani francesi, calati in Italia, per far valere i loro diritti ereditari sul Regno di Napoli e poi sul Ducato di Milano. Da locali le guerre divennero in breve tempo di scala europea, coinvolgendo oltre alla Francia, soprattutto la Spagna e il Sacro Romano Impero. Al termine delle guerre la Spagna si affermò come la principale potenza continentale, ponendo gran parte della penisola italiana sotto la sua dominazione diretta (Regno di Napoli, Ducato di Milano, Stato dei Presidii) o indiretta; gli unici stati italiani che seppero mantenere una certa autonomia furono la Repubblica di Venezia e il Ducato di Savoia (legato alla Francia), mentre il Papato, pur autonomo, risultava perlopiù legato alla Spagna dalla comune politica di far prevalere in Europa la Controriforma cattolica.
a) La calata dei Francesi di Carlo VIII – Nel 1492, con la morte di Lorenzo il Magnifico, venne meno il delicato equi­librio politico che egli aveva saputo abilmente conservare tra gli Stati italiani. Ludovico il Moro, resosi di fatto signore di Milano, cercò fuori d’Italia un appoggio militare contro Ferrante d’Aragona, re di Napoli, che minacciava di reintegrare con la forza nei suoi diritti Gian Galeazzo, sposo di una sua nipote ed erede legittimo del ducato di Milano.
E precisamente a Carlo VIII di Francia si rivolse Ludovico il Moro, poiché questo ambiziosissimo sovrano, come erede degli Angiò, poteva vantare qualche pretesa sul regno di Napoli.
Assicuratosi, con ampie concessioni territoriali, la neutralità di Spagna, Inghilterra e dell’impero germanico, nel 1494 Carlo VIII varcò le Alpi con un esercito forte di 30.000 uomini e attraversò, senza alcuna opposizione, tutta la penisola: a Firenze addirittura Piero II Medici consegnò al re straniero le chiavi della città. Giunto nell’Italia meridionale, Carlo non trovò neppure qui alcuna resistenza e si impadronì del regno di Napoli, mentre il re Ferrante II fuggiva.
Solo a questo punto gli Stati italiani parvero rendersi conto del pericolo: si formò una lega alla quale aderirono lo stesso Ludovico il Moro, il papa, Ve­nezia, l’imperatore e il re di Spagna. Il piano era di sbarrare la via alle milizie francesi, impedendone il ritorno in patria: l’esercito della lega affrontò i Fran­cesi nel 1495, mentre stavano valicando l’Appennino, a Fornovo, sul fiume Taro. In questa sanguinosa battaglia, la prima in cui si impiegarono largamen­te le artiglierie, Carlo VIII subì gravi perdite, ma riuscì ugualmente a fuggire e a raggiungere, con gran parte del suo esercito, attraverso le Alpi, la Francia.
b) Francesi e Spagnoli si contendono l’Italia – L’iniziativa del sovrano francese era dunque fallita. Ma per l’assoluta man­canza di un’organizzazione politica e statale unitaria del nostro paese, l’im­presa di Carlo VIII era destinata a ripetersi.
Nel 1499, infatti, il suo successore sul trono di Francia, Luigi XII (1498-1515), calò in Italia, questa volta avanzando pretese sul ducato di Milano, dato che tra i suoi diretti antenati vi era una principessa della casa dei Visconti.
Di fronte alle pretese di Luigi XII e al suo esercito, Ludovico il Moro, ab­bandonato da tutti gli altri Stati italiani preoccupati di non compromettersi con un rivale tanto forte, fu costretto alla fuga.
Impadronitosi del ducato di Milano, Luigi XII si accordò con il re di Spagna Ferdinando il Cattolico per la conquista e la spartizione dell’Italia meridionale; i due potenti eserciti stranieri dilagarono nei territori del regno di Napoli, che cadde interamente nelle loro mani. A vittoria ottenuta, si accese però tra le due potenze, circa la divisione dei territori, un conflitto che durò dal 1501 al 1503 e terminò con la vittoria degli Spagnoli, che si assicurarono così il possesso di tutto il regno di Napoli.
Agli inizi del Cinquecento, due dei maggiori Stati italiani, il ducato di Milano a nord e il regno di Napoli a sud della penisola, cadevano dunque sotto la dominazione straniera.
c) Francesco I - Quando Luigi XII morì, nel 1515, gli succedette sul trono di Francia il giovane Francesco I, il quale si mise subito in luce per il suo coraggio e per le sue capacità militari.
Appena incoronato, egli scese in Italia, dirigendosi rapidamente alla volta della Lombardia, dove gli Svizzeri, cacciato Luigi XII, erano rimasti a difesa del ducato; a Marignano, in un’accanita battaglia durata due giorni e due notti, gli Svizzeri furono sconfitti e costretti a ritirarsi, ma sulla via del ritorno si impadronirono di un lembo del ducato di Milano, e precisamente del territorio denominato Canton Ticino, che da allora in poi fece parte della Confederazione. Forte di questa vittoria, Francesco I strinse patti di pace con i suoi avversari: in particolare, accogliendo una richiesta di papa Leone X dei Medici si impegnò a non contrastare la signoria dei Medici che intanto era stata restaurata a Firenze; con la Spagna, sua principale avversaria, Francesco I concluse nel 1516 il trattato di Noyon, che confermava il possesso della Lombardia ai Francesi e del regno di Napoli agli Spagnoli.
d) Carlo V – Per una felice combinazione di eredità, intanto, si preparava un avvenimento che avrebbe cambiato il volto dell’Europa e avrebbe infranto l’equilibrio che s’era venuto a creare tra Francia e Spagna, confermato dal trattato di Noyon. Nel 1516 moriva Ferdinando il Cattolico, lasciando la corona di Spagna, con gli sterminati possedimenti americani ed i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, al nipote Carlo d’Asburgo, che già aveva ricevuto dal padre Filippo il Bello i Paesi Bassi, cioè il territorio attualmente diviso tra Belgio, Olanda e Lus­semburgo, e la Franca Contea.
Tre anni dopo, nel 1519, per la morte dell’im­peratore Massimiliano, suo nonno paterno, Carlo ereditava anche le terre de­gli Asburgo e i diritti alla corona imperiale, che cinse col nome di Carlo V.
La concentrazione di domini così vasti nelle mani di Carlo V sconvolse l’equi­librio politico europeo e allarmò le altre potenze: più di tutte la Francia, che trovatasi completamente circondata dai possedimenti dell’imperatore, sentì minacciata la sua stessa sicurezza e indipendenza.
L’unica possibilità che aveva la Francia di rompere l’accerchiamento era la guerra: essa si protrasse tra alterne vicende per quasi quarant’anni e all’inizio fu combattuta soprattutto in Italia.
e) La guerra fra Francesco I e Carlo V – Le ostilità furono aperte nel 1521 da Francesco I, ma Carlo V, respinti gli at­tacchi dell’avversario, riuscì ad impadronirsi del ducato di Milano, il cui pos­sesso gli permetteva di unire la Germania alla Spagna attraverso il porto di Genova. Accorso in Italia con il suo esercito, Francesco I fu sconfitto a Pavia nel 1525 e fatto prigioniero. Tradotto in Spagna, fu liberato l’anno seguente solo dopo aver rinunciato a ogni pretesa sul ducato di Milano.
Ma appena tornato libero, il re francese rinnegò l’accordo. Stretta un’al­leanza, lega santa di Cognac, con il papa Clemente VII dei Medici, con Venezia e con i Medici, preoccupati di perdere la propria indipendenza di fronte al di­lagare della potenza spagnola in Italia, Francesco I tentò la rivincita; ma Carlo V inviò in Italia un forte esercito, che, oltre a valorosissimi soldati spa­gnoli, comprendeva i lanzichenecchi, mercenari tedeschi avidi di saccheggio. Sbaragliate, presso Mantova, le forze della lega comandate da Giovanni dalle Bande Nere, nel 1527 l’esercito imperiale prese d’assalto Roma e la mise a sacco. Il pontefice si salvò rifugiandosi in Castel Sant’Angelo e subito do­po si ritirò dalla lotta, seguito in questo da tutti gli altri Stati italiani. 
La guerra continuò ancora per altri due anni tra Francesi ed imperiali fino a quando, nel 1529, preoccupato per la situazione creatasi in Germania a causa della Riforma di Lutero e per l’avanzata turca nei Balcani, l’imperatore de­cise di accordarsi con Francesco I con la pace di Cambrai.
Carlo V si riconciliò poi anche con il Papa dal quale ottenne la promessa dell’incoronazione imperiale; in cambio si impegnò a restaurare a Firenze la Si­gnoria dei Medici abbattuta dal popolo nel 1527, approfittando della situa­zione di debolezza in cui era venuta a trovarsi la famiglia medicea, alla no­tizia del sacco di Roma.
Carlo V poteva così scendere in Italia per raccogliere il frutto delle sue vittorie e, dopo aver ricevuto l’atto di sottomissione di tutti gli Stati italiani, si faceva incoronare imperatore a Bologna a febbraio del 1530.
Di fatto la pace di Cambrai fu solo una tregua di sei anni, dopo di che le ostilità tra Francia e Spagna ricominciarono e si protrassero quasi ininterrottamente sino al 1544.
Dopo che Carlo V ebbe domato l’Italia, la guerra tra Francia e Spagna si allargò. I conflitti di questo periodo furono caratterizzati dal coinvolgimento di altre potenze che diedero loro una portata europea. Francesco I, re cristiano, riuscì ad avere come alleati i Turchi – che con la loro flotta infestavano il Me­diterraneo, spargendo il terrore tra gli abitanti delle coste spagnole e italiane – ed i principi tedeschi della Lega di Smalcalda – alleanza conclusa durante l’omonimo congresso tra sette principi e undici città protestanti della Germania, sotto la guida di Giovanni di Sassonia e di Filippo d’Assia. L’alleanza con i Turchi e quella con i principi tedeschi, luterani dimostrò come il Medioevo, con la sua idea unitaria di cristianità, fosse definitivamente tramontato.
Nel 1544, con la pace di Crépy, si concluse questo periodo di lotte; tre anni dopo Francesco I morì, dopo una vita spesa nell’impegno di opporsi al dilagare della potenza spagnola.
Gli succedette sul trono il figlio Enrico II, ma siccome le condizioni della Francia continuavano ad essere quelle di una potenza chiusa in una morsa dai domini di Carlo V, Enrico II riprese la politica del padre, alleandosi, come già aveva fatto il padre, con i Turchi e i principi protestanti dell’impero. Anche questa volta le ostilità tra la Francia e Carlo V si intrecciarono con la lotta dei principi tedeschi, ribellatisi all’imperatore per difendere la loro libertà religiosa.
La guerra si trascinò ancora per alcuni anni senza che tuttavia una parte o l’altra riuscisse a trionfare definitivamente.
Alla pace si giunse per la decisione di Carlo V di accordarsi coi principi luterani, concedendo loro ampie libertà religiose con la pace di Augusta del 1555 e di dividere, abdicando, i possessi degli Asburgo: al figlio Filippo II andarono i domini di Spagna e i Paesi Bassi già degli Aragonesi; e al fratello Ferdinando I il titolo imperiale e i possedimenti austriaci.
Nel 1556, logorato dalle malattie e affaticato dalla continue guerre, Carlo V lasciava il trono e si ritirava a vivere in un convento in Spagna, dove morì qualche anno dopo. Crollava così da una parte per la tenace opposizione della Francia, dall’altra per la ribellione dei suoi stessi sudditi protestanti e per l’ascesa dell’impero ottomano, il sogno imperiale di Carlo V di unire sotto il suo scettro tutto il continente europeo.
Convinto che la causa prima di tante guerre era stata l’immensità del suo dominio, Carlo V, prima di ritirarsi, divise l’impero in due parti: lasciò i pos­sedimenti degli Asburgo e la corona imperiale al fratello Ferdinando; la corona di Spagna con i territori americani al figlio Filippo II, al quale anda­vano anche i Paesi Bassi e i domini italiani.
Spezzato così l’accerchiamento della Francia, si poté giungere alla definitiva pace di Cateau-Cambrésis del 1559, che conferì all’Italia un assetto che durò praticamente immutato per circa 150 anni.


La cultura e la letteratura medioevali
1. L’età della scolastica (1000-1200) – I fatti più importanti di questo periodo che abbraccia due secoli, di cui uno è preparazione dell’altro, sono i seguenti:
·                     La lotta delle investiture, fra Chiesa e Impero, terminata nel 1122 col concordato di Worms;
·                     Il sorgere e lo svilupparsi dei Comuni (dalla seconda metà del secolo XI);
·                     Le Crociate che portano come conseguenza diretta nuovi rapporti fra l’Occidente e l’Oriente anche nel campo della cultura;
·                     La diffusione del sistema feudale aveva fatto sorgere gradualmente nuovi bisogni culturali [[16]] in ceti sociali, come i ca­valieri e la piccola nobiltà, che si espandevano per il frazionamento dei feudi maggiori;
·                     Le Università o Studi Generali [[17]] che diventano, accanto ai conventi, depositarie della cultura e, particolarmente, della cultura specializzata; laica, anche se non in opposizione, bensì sotto gli auspici della Chiesa;
·                     Le nuove correnti filosofiche come la Scolastica [18], i contatti con la cultura araba e il contrastato trionfo dell’aristotelismo.
Dominatore della cultura, sebbene l’elemento laico si fac­cia più vivo e presente, è sempre il clero, quello soprattutto dei conventi e delle scuole episcopali e monacali, dove il pro­gramma di studio si va man mano allargando, né solo nella teologia o nelle arti del trivio, ma anche in quelle del quadrivio, nella filosofia e nel rinato amore dei classici antichi, di cui, particolarmente nel secolo XII, le copie si moltiplicano, arricchite di glosse e di commenti talora d’importanza assai notevole.
Come centri di attività culturale, accanto ai conventi famo­si, sorgono le Università: in Italia la medicina si continua a col­tivare nel famosissimo centro di Salerno, già noto nel se­colo IX che fu certamente il primo a sorgere in Europa ed è in questo periodo illustrato da Costantino Africano (m. 1087) maestro di grande fama e traduttore di molte opere mediche dal greco e dall’arabo; a Bologna fioriscono gli studi giuridici fino dal secolo XI, ed Irnerio (1100-1130) ne aumenterà la fama nel secolo seguente che vede pure la protezione data allo Studio da Federico Barbarossa. E fiorenti scuole di diritto civile sorgono altresì, prima della fine del secolo XII, a Reggio Emilia, a Modena e a Ravenna.
Fuori d’Italia, a Parigi predomina lo studio della logica e particolarmente della dialettica; a Montpellier nel secolo XII quello della medicina e del diritto; ad Orléans si studiano gli auctores, cioè i classici latini, il cui culto sempre più si diffonde, suscitando innumerevoli imitatori; mentre in Inghilterra Oxford si modella su Parigi e può contare alla fine del secolo XII ben tremila studenti.
Siamo quindi di fronte ad una grandiosa esplosione cul­turale e letteraria che culmina nel secolo XII ed è più vasta e più universale della stessa cosiddetta rinascenza carolingia. Veramente, com’è stato detto, il XII secolo è stato una iuventus Mundi, o meglio la giovinezza della civiltà umana dell’Europa occidentale. La produzione è abbondantissima. Inutile ricordare che in questi secoli, specialmente nel XII, la letteratura latina coesiste con le varie letterature nazionali, soprattutto in Francia. Però per il momento è ancora la cultura latina quella predominante.

La civiltà comunale all’origine del risveglio culturale – La civiltà comunale costituisce il momento più originale, ed uno tra i più vivi, di tutta la nostra storia. È un periodo di gran­de slancio economico: l’aumento della produzione artigianale, dei commerci e, con i com­merci marinari, delle costruzioni navali, determina un aumento di ricchezza dei ceti citta­dini, ne innalza il tenore di vita e favorisce il lusso. Effetto, e quasi simbolo, di questo svi­luppo nel campo economico, è la nascita di una nuova attività, quella bancaria. A questo rigoglio economico si accompagna un’eccezionale ripresa nel campo intellettua­le.
È il momento in cui, tanto nell’architettura che nella scultura e nella pittura, si assiste al nascere di forme originali, libere dall’imitazione dell’arte bizantina. Sorgono nuove città, e le antiche rinnovano completamente il loro volto, arricchendosi non solo di cattedrali ma anche di edifici civili quali i palazzi comunali sedi dei consigli, dei consoli e delle altre magistrature; di palazzi, residenze delle più potenti famiglie, dominati da torri difensive, mentre nelle mura di cinta si aprono porte in pietra decorate di sculture; si lastricano le strade; si costruiscono canali per portare le acque nei fossati delle mura. Lo stile che caratterizza il periodo più splendido dell’età comunale (XII – XIII secolo) è quello romanico, cui si sostituirà quello gotico dalla seconda metà del secolo XIII.
In letteratura, a questo fermento di creazione originale, corrisponde l’affermarsi del volgare, che ben pre­sto si esprime nelle più grandi figure della nostra cultura: San Francesco, Jacopone, Cavalcanti, Dante, Petrarca, Boccaccio.
Sul piano intellettuale espressione delle nuove strutture politiche e sociali sono le Università che liquidano il prestigio delle scuole monastiche, rimaste isolate dalla nuova evoluzione sociale e legate alle vecchie strutture feudali.

L’unità culturale nel Medio Evo - La cultura del Medioevo, almeno fin verso i secoli X e XI, non aveva avuto carattere nazionale, ma si era manife­stata unitaria in tutti quei Paesi d’Europa che avevano fatto parte dell’Impero romano ed erano stati segnati dalla sua civiltà; su di loro, successivamente, aveva esercitato la sua influenza, orientandone gli interessi e gli ideali, l’altra grande struttura universale: la Chiesa cattolica.
Espressione di tale unità culturale era la lingua in essi usata, il latino, che, diffuso dai Romani conquistatori, aveva avuto ulteriore incremento ed avallo dal fatto di essere stato assunto dalla Chiesa come lingua ufficiale propria.
Certo, quello medioevale non era più il latino di Cicerone o di Livio; era un latino che nel­la sintassi, nel lessico, si era andato progressivamente allontanando dai modelli classici e che si era anche adeguato all’esigenza di esprimere modi nuovi di pensare e di sentire, mantenen­dosi in tal modo strumento di comunicazione attuale e vitale.
Ma anche quando le varie comunità etniche cominciarono a definirsi ed a differenziarsi, ol­tre che politicamente, anche linguisticamente, ed, accanto al persistente latino, andarono affermandosi in ambito letterario le varie lingue romanze, nei paesi dell’ex impero romano non venne tuttavia meno il senso dell’appartenenza a una cultura comune. Perciò nelle università che erano venute sorgendo dal XII secolo nei vari Paesi d’Europa affluivano maestri e discepoli a raggio europeo. L’università teologica di Parigi, quella giuridica di Bologna, quella medica di Salerno, costituivano veri e propri punti d’incontro culturali dell’Europa romanza.
Analogamente, in quegli importanti centri cul­turali che furono i conventi, spesso forniti di ricchissime biblioteche, convenivano, sotto la stessa «regola», monaci di differente origine etnica.
Quanto all’Italia e alla sua letteratura, è proprio in conseguenza dell’unità culturale che lega fra loro i Paesi romanzi che, ad esempio, le imprese di Carlo Magno celebrate in lingua d’oïl nelle Canzoni del Ciclo carolingio (sec. XI) trovano ascolto da noi, e vengono riprese in componimenti epici (i poemi franco-veneti) scritti in un dialetto Veneto ricco di elementi francesi. Allo stesso modo i poemi d’amore e d’armi del Ciclo bretone intorno alle gesta di re Artù, anch’essi composti in lingua d’ oïl, vengono da noi tradotti e rielaborati, e costituiscono la raffinata lettura delle nostre corti feudali. Così pure i componimenti amorosi composti in lingua d’oc dai trovatori provenzali offrono temi e tecniche alla prima poesia d’arte italiana, quella della «scuola siciliana».
Il rapporto culturale unitario che lega l’Europa romanza è così stretto che la barriera delle Alpi non sempre costituisce un confine linguistico. Alcuni trovatori italiani poetano in lingua provenzale, che non sentono per nulla come straniera. Ed il fiorentino Brunetto Latini «maestro – a detta di un cronista contemporaneo, il Villani – in digrossare i fiorentini e farli scorti in bene parlare», (che cioè sviluppò e affinò quella cultura fiorentina di cui doveva alimentarsi il genio di Dante), compone in lingua d’ oïl il Trésor, enciclopedia del sapere del tempo. E Marco Polo (1254-1324) detta in lingua d’oil il suo Milione.

La visione teocentrica del mondo – Non meno unificante della tradizione romana fu, co­me si è accennato, l’influenza esercitata sui Paesi europei dalla Chiesa, che vi diffuse una comune interpretazione cristiana del mondo e del destino umano.
Secondo la concezione di cui la Chiesa era portatrice, l’universo è retto da Dio, che, im­mobile nella sua perfezione, governa provvidenzialmente la realtà inanimata e animata (cose, animali, uomini), dotandola di una tensione che l’attira a sé ed alla quale solo l’uomo può sottrarsi perché dotato di ragione e di libero arbitrio; in tal caso dannandosi, giacché in Dio sta l’unica salvezza.
Di conseguenza la vita terrena, i beni della terra, perdono il valore assoluto che aveva loro attribuito la civiltà pagana; e l’esistenza in questo mondo diventa un momento di passaggio, un banco di prova nel quale, col suo agire, l’uomo conquista o perde la vita vera, cioè la vita eterna.
L’eroe di quest’epoca non è più, come già nel mondo classico e più tardi in quello rinascimentale, colui che sa affermarsi nella conquista del potere, della gloria, ecc., ma il santo, cioè l’uomo che, con totale e coerente rinuncia, subordina la vita terrena a quella ultraterrena.
Certo, si tratta di posizioni teoriche che, come spesso avviene, non hanno impedito che, nella vita concreta, si verificassero atteggiamenti con esse discordanti o addirittura ad esse antitetici. E, infatti, il Medioevo, se fu età di grandi ascetismi, fu anche età «di sangue e di crucci», in cui si scatenarono violenti appetiti terreni e passioni feroci. Ma gli uni e le altre furono giudicati, nella riflessione morale del tempo, e anche nella comune opinione, come forme devianti dalla retta strada segnata all’uomo da Dio.
Se teocentrica è la concezione del mondo, cristocentrica è quella della storia. La storia ve­ra, cioè, comincia con l’avvento del Cristo; e le vicende che lo hanno preceduto sono state ad esso funzionali. Così, per esempio, l’impero romano è stato voluto da Dio perché, unificando territori e popoli, avrebbe spianato la via alla diffusione del Cristianesimo.
Su tali premesse poggia anche una diffusa concezione teocratica della politica, secondo la quale il papa, perché esponente di Dio sulla terra, è anche il legittimo detentore di ogni autorità, ivi compresa quella politica, che può esercitare direttamente o dele­gandola all’autorità politica vera e propria, cioè all’imperatore; che quindi rimane a lui subordinato. Teoria questa che non fu però accettata da tutti pacificamente, e a cui se ne contrappose una antitetica che subordinava il potere religioso a quello politico, e un’altra (che sarà anche quella di Dante) che sosteneva la reciproca autonomia dei due poteri.

Teocentrismo e cultura – La concezione teocentrica del mondo ebbe per tutto il Medioe­vo coerenti applicazioni in campo culturale.
La teologia, la scienza delle cose divine che poggia sulla «rivelazione» contenuta nei testi sacri e che alla luce di essi interpreta la realtà, è considerata la scienza per eccellenza, la scienza regina e ad essa sono subordinate le altre scienze quasi sue ancelle: ancillae theologiae, come si diceva.
Di conseguenza la speculazione filosofica deve cedere il passo alla teologia, là dove l’indagine razionale si scontra con le verità rivelate che devono essere accettate per fede; le scienze naturali, anziché indagare autonomamente i fenomeni del reale, partono dalle affermazioni contenute nei Libri sacri come da premesse indiscutibili; funzione della politica è di guidare gli uomini verso la giustizia terrena, che è premessa al raggiungimento dell’eterna beatitudine; e già abbiamo visto come sia religioso anche il metro di valutazione della storia.

La funzione pedagogica dell’arte – Quanto all’arte, essa si giustifica solo se indirizzata alla glorificazione di Dio o all’educazione morale e religiosa degli uomini.
Perciò le arti figurative si muoveranno per tutto il Medioevo per gran parte nell’ambito del sacro: dal secolo XI fiorirà in Europa la severa armonia delle cattedrali romaniche o la tensione verticale di quelle gotiche; la pittura ritrarrà vicende e immagini religiose; la scultura ornerà con figurazioni sacre le facciate, i portali, i capitelli, le nicchie delle chiese.
Quanto alla letteratura e alla poesia, esse sono considerate strumenti inutili, quan­do non fuorvianti e di perdizione, se non guidino gli uomini verso il bene e la verità, cioè verso la verità religiosa di cui abbiamo parlato. Nasce da questa esigenza pedago­gica della letteratura l’uso della allegoria, una specie di simbolico sovrasenso attribuito alle cose e vicende concrete rappresentate, e che, proponendo nascosti significati etico-religiosi, si sovrappone al significato letterale del testo e lo trascende. Così ad esempio il viaggio nell’Oltremondo descritto da Dante nella Divina Commedia rappresenta allegoricamente l’itinerario dell’anima che, smarritasi nel peccato, cerca e raggiunge la salvezza in Dio (Paradiso) riflettendo sulle conseguenze eterne (Inferno) e temporanee (Purgatorio) del peccato stesso. Ma all’interno di questa fondamentale allegoria, nella Commedia ne sono proposte molte altre particolari, su cui torneremo più avanti.

La persistenza nel Medioevo della tradizione classica – Se nel Medioevo la concezione cristiana della vita si contrappone antiteticamente a quella pagana dell’età classica, tuttavia la cultura classica non viene del tutto meno.
Respinta in un primo tempo dalla Chiesa che la considerava fonte di errore, viene poi progressivamente dalla Chiesa stessa cautamente recuperata, e assimilata almeno nella misura e nelle forme in cui non contrasta e può conciliarsi con lo spirito del Cristianesimo. Così la «retorica» medioevale, le norme cioè del bello scrivere, ricalca quella classica; nelle scuole medioevali è mantenuto il corso di studi che era stato in vigore nelle scuole ellenistico-romane, e che consisteva nelle discipline del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia); il diritto romano continua a far testo nelle controversie private e pubbliche; San Tommaso si propone nelle sue opere di integrare il pensiero del filosofo greco Aristotele con quello cristiano.

La filosofia – La dissoluzione dell’Impero romano aveva portato con sé la crisi del sistema scolastico. Nell’Alto Medioevo, l’istruzione è legata per lo più alle scuole cattedrali e alle scuole dei monasteri, dove il clero e i monaci venivano educati alla lettura della Bibbia, dei testi liturgici e dei Padri della Chiesa. Soltanto con Carlo Magno e Alcuino, e con la scuola palatina da loro organizzata, lo stato riprende l’iniziativa formulando un progetto educativo coerente: attraverso la formazione di maestri poi inviati nei vari centri episcopali e monastici, la scrittura - da parte di Alcuino  – di  veri  e  propri ‘manuali’  per  gli studenti  dedicati  all’ortografia,  alla  grammatica,  alla retorica, la codificazione dell’esegesi biblica. È però soltanto a partire dalla fine dell’XI secolo che iniziano a formarsi quelle scuole cittadine che prenderanno il nome di Università. Si tratta di scuole specialistiche consacrate allo studio e al perfezionamento di discipline come la giurisprudenza, la medicina,  la  teologia.  E  si  tratta  di  scuole  in  cui,  per  la  prima volta,  la  componente laica è importante tanto quanto quella ecclesiastica: per esempio, molti degli insegnanti di diritto bolognesi sono laici che, costituitisi in libere associazioni, decidono la natura e il calendario dei corsi. I nuovi modi di organizzazione e trasmissione del sapere influenzano anche la  tecnica della ricerca scientifica. Nasce un nuovo metodo scolastico articolato in due fasi: il maestro propone la quaestio, cioè un interrogativo  che viene  esaminato in ogni suo  aspetto  attraverso l’analisi degli  argomenti favorevoli o contrari ad una data soluzione. E gli allievi si esercitano nelle disputationes, cercando di affermare il proprio punto di vista nella discussione di un problema proposto dal maestro.
b) La Scolastica – È all’interno di questo nuovo sistema del sapere, le università, che vivono e operano i maggiori intellettuali del periodo qui considerato: e il nome di scolastica deriva appunto
dallo stretto legame che unisce la produzione scientifica del tempo alla scuola: se prima gli uomini
di pensiero, i maestri, scrivevano per esortare e persuadere rivolgendosi ai confratelli, o al pubblico
incolto  dei  fedeli,  ora  essi  hanno  di  fronte  – proprio  come  i  docenti  odierni  – degli  allievi  che debbono  essere  istruiti.  Ne  deriva  una  forte  sistematizzazione  del  sapere:  cioè  la  scrittura  di summae,  commenti,  raccolte  di  sentenze  (celebri  quelle  di  Pietro  Lombardo,  una  sorta  di
enciclopedia teologica) che forniscono allo studente tutte le informazioni necessarie circa lo stato di
una determinata questione attinente la teologia, il diritto, la medicina, la retorica e le altre discipline
professate all’università.
c) La traduzione e il commento delle opere di Aristotele – Due sono i problemi cruciali per i filosofi medievali:  quello  del  rapporto  col  pensiero  pagano e  quello  del rapporto  tra ragione  e fede. Quanto  al  primo,  nel  corso  dell’XI  e  del XII secolo si  avvia in Europa la traduzione  delle opere di Aristotele in latino e il loro commento da parte degli intellettuali cristiani: inizia così, con
quello che viene definito il philosophus per eccellenza, un dialogo che influirà profondamente sia sul metodo sia sulla sostanza del pensiero tardo-medievale. Tale dialogo venne ostacolato dal fatto
che Aristotele giunge all’Occidente non per via diretta bensì filtrato dalle traduzioni e dall’esegesi dei filosofi arabi: Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198), i quali valorizzano la componente razionalistica  del sistema  aristotelico, svalutando  invece  quella meditazione sulla metafisica  e su
Dio che poteva accordarsi con le verità cristiane. Nella sua interpretazione di Aristotele, Averroè nega l’immortalità dell’anima individuale e afferma l’eternità del mondo, cioè esclude la creazione: due tesi inaccettabili per un cristiano. La storia della ricezione di Aristotele nei secoli XIII e XIV è perciò una storia molto accidentata, fatta di ammirazione e devozione, e tentativi di inquadrare la sua  filosofia  pagana  nell’ambito  della  fede,  ma  anche  di  divieti  e  censure:  più  volte,  l’autorità ecclesiastica  proibì  lo studio  di  alcuni  o  di  tutti  gli scritti  aristotelici  nelle  università  in  quanto contrari alla dottrina cristiana.
d) La traduzione e il commento delle opere di Platone – Più vicina alla metafisica cristiana è la dottrina delle idee di Platone, il filosofo che con Aristotele ha più influito sullo svolgimento del pensiero  occidentale. Di fatto,  elementi  platonici sono  ben  presenti  nelle  opere  del maggiore  dei padri  della  Chiesa,  Agostino,  nel  cui  solco  procederà  tutta  la  speculazione  cristiana  fino  alla Scolastica. Durante il secolo XII, mentre cresce il numero delle traduzioni (particolare importanza riveste il Timeo, il testo-chiave della metafisica platonica, che viene accostato al libro biblico della Genesi), lo studio  di Platone si  affianca  a  quello  di Aristotele. Particolarmente  vivace, in  questo senso,  è  la scuola  di  Chartres,  nella  quale  viene  elaborata, soprattutto  da  parte  di  Guglielmo  di Conches e Gilberto Porrettano, la nuova metafisica platonico-cristiana.
e) Il problema del rapporto tra filosofia e fede: Anselmo d’Aosta – Il secondo problema, quello dell’equilibrio tra ragione e fede, è parte, naturalmente, di quello appena toccato: avvicinarsi ai filosofi classici significa allontanarsi dalla fede, perché essi non conobbero il vero Dio; tuttavia il cristiano  non  è  costretto  al sacrificio  dell’intelletto:  ciò  che  occorre  è  invece  definire  i rispettivi domini e ruoli, e proprio in quest’opera s’impegnano gli scolastici. La figura più importante del sec. XI  è  quella  di  Anselmo  d’Aosta,  monaco  benedettino  vissuto  in  Normandia  e  in  Inghilterra,  a Canterbury. In una lunga serie di opere, tra cui si ricordino almeno il Monologion e il Proslogion, egli  si  propone  di  indagare  razionalmente  il  problema  dell’esistenza  di  Dio:  fides  quaerens intellectum  (‘la  fede  che  cerca,  e sollecita,  l’intelletto’)  e credo  ut  intelligam (‘credo  al  fine  di comprendere’) sono i due motti che illustrano il programma anselmiano di spiegare per mezzo della ragione ciò che il cristiano sa già per fede.
f) Pietro Abelardo – Nel secolo successivo, l’importanza di Pietro Abelardo risiede, piuttosto che nell’originalità del pensiero, nell’elaborazione di quello che modernamente si definisce ‘metodo scolastico’: il Sic et non offre infatti al lettore gli strumenti per l’esegesi di qualsiasi testo attraverso
l’uso accorto della filologia (comprensione letterale del testo) e della logica (esame incrociato degli
argomenti favorevoli o contrari ad una determinata tesi: a ciò fa riferimento il titolo del Sic et non:
dove si mettono a confronto le opinioni dei padri della Chiesa su una serie di questioni teologiche
con ciò che dice la Bibbia). Oltre a un’imponente opera teorica sui tre grandi domini in cui si divide
la filosofia medievale (la teologia, la logica e l’etica), Abelardo ci ha lasciato anche una delle prime
autobiografie della tradizione occidentale, l’Historia calamitatum (‘Storia delle mie disgrazie’). È un’autobiografia scritta  per  dare  conto  di  un singolare  e  tragico  destino. Nato  nel  1079  vicino  a Nantes,  in  Francia,  Abelardo  dimostrò sin  da giovanissimo  un  talento  e  una  cultura  eccezionali; prima insegnò all’Università di Parigi, poi come ‘libero maestro’ in una scuola da lui stesso fondata. A  Parigi  conobbe  Eloisa,  figlia  del  canonico  Fulberto,  se  ne  innamorò  ed  ebbe  con  lei  una relazione: scoperto dal padre della ragazza, fu  evirato. La storia d’amore tra Abelardo ed Eloisa, ricostruibile anche grazie ad un carteggio fra i due (anche Eloisa era un’intellettuale, dotta di latino, in un’epoca in cui una simile competenza, per una donna, era molto rara) divenne leggendaria.
g) Pietro  Lombardo – Emblematica  di quest’epoca dedita ai sistemi e all’organizzazione del sapere  è  l’opera  di  un  contemporaneo  di  Abelardo,  Pietro  Lombardo:  i  suoi  quattro  libri  di Sentenze (1150-52) ebbero uno straordinario successo durante il Medioevo, e furono ripetutamente
commentati perché mettevano a disposizione degli studiosi tutte le nozioni necessarie relative alla dottrina  cattolica.  Pietro  non  compone  un’opera  originale ma  allinea  in  modo  chiaro  e  ordinato, come  in  un  manuale,  le  affermazioni  (Sentenze,  appunto)  della  Bibbia  e  dei  padri  della  Chiesa (Agostino  su  tutti) in materia di fede: dal mistero della Trinità a quello dell’incarnazione,  dal problema del peccato al significato dei sacramenti, alla genealogia dei vizi e delle virtù.
h) La Scolastica nel Duecento: Alberto Magno – Il Duecento è il secolo di maggiore splendore per la filosofia scolastica. Si completa, in questo periodo, la traduzione delle opere aristoteliche, si perfeziona il sistema universitario, la vita culturale si arricchisce grazie all’apporto degli ordini mendicanti,  che  prestano  all’università  i  loro  migliori  maestri:  di fatto,  i  più  insigni filosofi  del secolo sono domenicani e francescani. Quasi tutti insegnano per un periodo della loro vita a Parigi, che rimane il centro più importante per gli studi teologici. Il problema cui si accennava in precedenza, quello dell’assorbimento di Aristotele nel pensiero cristiano, è affrontato dal tedesco Alberto Magno (1193-1280).  Egli  può  distinguere  rigidamente  la  filosofia  dalla  fede  perché, seguendo la lezione di sant’Agostino, ha prima distinto i domini dell’una  e dell’altra  attribuendo
alla prima la ratio inferior e alla seconda la ratio superior, cioè la parte superiore dell’anima che si
occupa dell’essenza delle cose e non dei semplici fenomeni. Ma, quanto a questi, le speculazioni di Aristotele debbono essere meditate anche dagli intellettuali cristiani, e il ruolo di Alberto Magno fu
proprio quello di ‘tradurre’, attraverso i suoi commenti all’Etica, alla Fisica e alla Politica, il sistema filosofico e scientifico aristotelico - la sua interpretazione del mondo terreno, della natura, non dell’oltremondo - in un linguaggio che potesse essere accetto all’ortodossia cattolica.
i) Tommaso d’Aquino – Ad ascoltare Alberto Magno a Colonia c’era tra gli altri, negli anni 1248-1252, Tommaso  d’Aquino (1221-74),  certamente il maggiore filosofo del secolo e, con Agostino,  il  più  importante  di  ogni  tempo  per  la  codificazione  della  dottrina  cristiana.  Come Alberto, anch’egli insegnò a Parigi e – secondo la consuetudine propria dei frati mendicanti di non soggiornare mai a lungo in una stessa città – nelle principali università europee: Colonia, Bologna,
Napoli. E come in Alberto, anche nella concezione di Tommaso la fede non soppianta la filosofia bensì la completa, illuminando tutto ciò che i filosofi pagani avevano dovuto ignorare. Da questa contaminazione nasce la nuova ‘sistemazione’ della metafisica cristiana che Tommaso offre nella Summa theologica, un’opera immensa nella quale, in forma di quaestiones, vengono vagliati tutti i
problemi che possono sorgere nell’interpretazione della dottrina cattolica. Nonostante la resistenza
da parte della Chiesa di Roma a recepire alcune delle tesi tomiste – sentite come troppo vicine ad Aristotele e ai suoi seguaci averroisti, molto attivi a Parigi alla metà del Duecento -, la Summa sarà,
nei tre secoli successivi, il  punto  di riferimento fondamentale  per tutto il  pensiero  cristiano (una
corrente ‘neotomista’ si è potuta individuare anche nell’ambito della filosofia novecentesca).
l) I francescani: Bonaventura – Se Alberto e Tommaso sono i massimi filosofi domenicani del Duecento, Bonaventura  da Bagnoregio fu il più insigne tra i francescani, ed ebbe un ruolo di grande rilievo nella vita dell’Ordine: scrisse quella che sarebbe diventata la biografia ufficiale di san
Francesco, fu generale dell’Ordine e ne redasse le costituzioni; inoltre, nonostante gli impegni legati
all’insegnamento, svolse per tutta la vita una assidua attività di predicatore, che fece di lui l’oratore
più apprezzato del suo tempo. Le sue due opere maggiori sono l’una un commento alle Sentenze di
Pietro  Lombardo,  in  cui  difende  l’interpretazione  tradizionale  della  dottrina  cristiana  contro  le concessioni  ad Aristotele  che  andavano facendo  i maestri  domenicani;  l’altra  un  caposaldo  della mistica medievale: l’Itinerarium mentis in Deum (‘Itinerario della mente verso Dio’ - 1259),  che illustra i sei gradi dell’ascesa al divino attraverso l’amore di Dio e la preghiera e, insieme, attraverso la  rinuncia  agli  strumenti  della  ragione:  una  via  che  lo  allontana,  per  esempio,  dal  rigoroso intellettualismo di Tommaso.
m) Il crepuscolo della Scolastica nel Trecento: Occam – Dopo l’età dei grandi sistemi filosofici elaborati dagli scolastici, la filosofia cristiana vive, nel corso del Trecento, una crisi profonda. Nelle
università si acuisce il conflitto tra la gerarchia cattolica che sorveglia sull’ortodossia e il pensiero
dei  maestri  più  liberi  e  spregiudicati,  che  hanno  ormai  assorbito  completamente  la  lezione  di Aristotele  e  degli  altri filosofi  antichi. La  vita  del maggiore  pensatore  del secolo,  il francescano inglese  Guglielmo  da  Occam,  è,  sotto  questo  profilo,  emblematica.  Perché,  colpevole  di  aver difeso tesi ritenute  eretiche, venne scomunicato  e  dovette rifugiarsi  a Monaco  e mettersi sotto la protezione dell’imperatore Ludovico il Bavaro,  cui prestò la propria opera di polemista nella sua lotta antiecclesiastica e antiteocratica. La filosofia di Occam porta alle estreme conseguenze, e con ciò dissolve, il razionalismo che era stato caratteristico dei filosofi scolastici. Ragione e fede – egli sostiene  – debbono  essere  distinte  perché  le  verità  di  fede  non  possono  essere  conquistate,  e tantomeno spiegate, per via razionale. Se ciò da un lato garantisce alla teologia una sfera autonoma, fondata sulla Rivelazione e indipendente dalle speculazioni dei filosofi antichi e moderni, dall’altro libera  la  ragione  dai  vincoli  della  fede.  Di  qui  l’abbandono  dei  concetti  fondamentali  della metafisica e della logica tradizionali a vantaggio di un approccio più empirico e – se non suonasse anacronistico  – ‘laico’  ai  problemi  della  conoscenza:  l’interesse  per  l’individuo  e  non  per  gli universali, per il sapere sperimentale piuttosto che per la speculazione astratta, per la fisica piuttosto che per la metafisica. Questo nuovo orientamento logico-scientifico avrà grande influenza nei secoli successivi: e mentre esso confina ai margini del discorso filosofico le istanze ‘umanistiche’ legate alla metafisica e all’etica (ciò che provocherà la protesta di un intellettuale come Petrarca contro i logici e gli scienziati imperversanti nelle università), prelude a quel rigore e a quella concretezza di metodo che saranno propri della scienza di Galileo.

Le arti
a) Le nuove creazioni dell’architettura: la cattedrale e il palazzo pubblico – Nel lungo arco di tempo compreso tra l’anno Mille e l’inizio dell’Umanesimo, alla fine del XIV secolo, il paesaggio artistico  italiano  muta  in  maniera  radicale.  Lo  sviluppo  delle  città  porta  infatti  con  sé  la realizzazione  di  due  nuove  grandi strutture  architettoniche, l’una religiosa, l’altra  civile. Si tratta
della chiesa cattedrale, sede del vescovo, e del palazzo in cui ha sede il governo cittadino. A questi
due generi di costruzioni, simbolo dell’unità e dell’identità popolare, non lavora un solo architetto
ma un’ampia schiera di ingegneri, artigiani e operai; e vi è coinvolta anzi l’intera città, e non per lo
spazio  di  pochi  anni, ma  per  generazioni:  sicché  questi  monumenti  non  rispecchiano  un  unico momento  dell’arte, ma documentano,  nella loro  composita fisionomia, l’evoluzione secolare delle tecniche e degli stili.
La mappa dei più significativi edifici religiosi e laici corrisponde in sostanza a quella delle città che tra l’XI e il XIV secolo furono al centro della storia politica italiana: le più grandi, le più importanti dal punto di vista strategico, le più vivaci nel commercio, dunque quelle che  avevano  più  risorse  da  impiegare  nella  realizzazione  di  opere  così  dispendiose  – Milano (Sant’Ambrogio,  secc.  IX-XII;  il  celeberrimo  Duomo,  massimo  esempio  italiano  del  cosiddetto gotico internazionale, iniziato alla fine del Trecento); Modena (la cattedrale, edificata all’inizio del sec. XII da Lanfranco); Venezia (San Marco, iniziata  nel  1063; il Palazzo Ducale, terminato  nel 1400);  Firenze  (il  battistero  di  San  Giovanni,  sec.  XI;  San  Miniato  al  Monte,  secc.  XI-XII;  il Duomo;  il  Palazzo  della  Signoria, sec.  XIV),  e  poi  Pisa,  Siena,  e  molti  altri  comuni soprattutto centro-italiani.
b) Romanico  e  gotico – Legate  strettamente  alla  cattedrale  e  al  palazzo  pubblico – quindi raramente autonome – sono le arti plastiche e visive: la scultura è per lo più decorazione, nei portali
e  nelle facciate  delle  chiese,  o  negli  elementi  architettonici  interni (pulpiti, fonti  battesimali);  la pittura illustra o racconta, negli affreschi a parete, soggetti sacri, a beneficio del pubblico dei fedeli.
Questa sinergia delle arti resta costante nei due periodi nei quali si è soliti suddividere l’epoca qui
considerata: il romanico, in cui gli edifici sono caratterizzati da forme semplici e compatte, povere
di decorazioni, che si svolgono in orizzontale piuttosto che in verticale (secoli XI-XII); e il gotico, in  cui  gli  edifici,  anche  grazie  al  perfezionamento  delle  tecniche  costruttive,  tendono  invece  a sviluppi verticali, con altissimi piloni e archi a sesto acuto, fittissime decorazioni e guglie (secoli XIII-XIV).             
c) Scultura e pittura – Gran parte delle sculture e delle pitture medievali ci è giunta anonima: non si trattava del resto di opere autonome bensì, generalmente, di parti dell’apparato decorativo del palazzo o della chiesa. Tra gli scultori di cui resta traccia nella documentazione meritano di essere ricordati Wiligelmo, che fu attivo a Modena all’inizio del secolo XII, e può essere considerato il caposcuola della scultura romanica emiliana (rilievi con le Storie della Genesi e dei Profeti sulla facciata del Duomo di Modena), e soprattutto Nicola Pisano e il figlio Giovanni.
Nicola (attivo tra il 1248 e il 1284), probabilmente di origini pugliesi, è l’artista che introduce il nuovo gusto gotico nel centro Italia: opera soprattutto a Pisa, dove scolpisce i pulpiti del Battistero e del Duomo, e a Perugia  (Fontana  maggiore).
Giovanni (circa  1245-1314)  collabora  prima  col  padre  a  Pisa  e Perugia, poi realizza in proprio il pulpito di Sant’Andrea a Pistoia, quindi lavora come capomastro alla fabbrica del Duomo di Siena, una delle grandi imprese scultoree  architettoniche del secondo Duecento.
Per quanto riguarda la pittura, l’età pre-giottesca vede all’opera, in Toscana, due grandi maestri.  Il  primo  è  Cimabue (attivo  nella  seconda  metà  del  sec.  XIII),  che  opera  tra  Firenze (Maestà oggi al Louvre, Crocifisso di Santa Croce), Roma (dove esegue varie opere – tutte perdute – su commissione di papa Niccolò III), Assisi (decorazione con scene tratte dalla storia sacra della Basilica superiore) e Pisa (mosaico di San Giovanni Evangelista in Duomo). Il secondo è il senese Duccio  di  Buoninsegna,  che  collabora  col  maestro  Cimabue  a  Firenze  (Maestà  Rucellai)  e  ad Assisi, ma opera soprattutto nella città natale (Maestà per l’altare maggiore del Duomo).
d) Artisti polivalenti. Giotto e gli inizi della pittura laica – I maggiori artisti riuniscono insieme, per altro, competenze diverse: di costruttori, scultori, pittori. È il caso di Bonanno (tra l’XI e il XII sec.),  che  progetta  la  torre  di  Pisa  e  lavora  ai  portali  bronzei  della  cattedrale;  di  Benedetto
Antelami (tra  il  XII  e  il  XIII sec.),  architetto  e scultore  nel  duomo  di Fidenza,  nella  chiesa  di Sant’Andrea a Vercelli e soprattutto in uno dei capolavori del gotico italiano, il battistero di Parma; di Arnolfo di Cambio (morto nel 1302), cui si attribuiscono i progetti di Santa Croce e Santa Maria del  Fiore  a  Firenze (1295-96)  e  a  cui si  debbono  alcuni  tra  i  primi  e  più  alti  esempi  di scultura profana: la statua di Carlo d’Angiò  ora in Campidoglio  e quella di Bonifacio VIII  per il Duomo fiorentino; e infine e soprattutto di Giotto (1266-1337), il quale, oltre a progettare e avviare i lavori per il campanile di Santa Maria del Fiore, rivoluzionò la pittura italiana ed europea con il grande ciclo di affreschi per la Basilica di San Francesco ad Assisi e con quello altrettanto grandioso per la cappella degli Scrovegni a Padova (1303-5). Con Giotto e i suoi successori, la pittura passa da uno stadio primitivo, influenzato dai modelli bizantini (le tavole di questo periodo sono i cosiddetti fondi oro, perché le figure sacre, fortemente stilizzate, galleggiano su una superficie dorata che non dà alcuna impressione di realismo), ad una fase più matura: le vicende e i personaggi che troviamo negli affreschi assisiati e padovani ci appaiono reali, sentimentalmente veri, colti nella loro qualità individuali e non rappresi in tipi, così come accadeva nella tradizione precedente. Questo sforzo di realismo avrà tra i suoi effetti quello di aprire la strada ad un’arte non più legata soltanto ai temi biblici  o  all’agiografia ma  aperta  alla  cronaca ‘laica’.
Simone Martini (Siena  1284  – Avignone 1344), allievo di Duccio, affianca alle pitture di soggetto tradizionalmente religioso (affresco della Maestà nel Palazzo Pubblico di Siena, 1315), opere su soggetto ‘civile’ (San Ludovico da Tolosa incorona Roberto d’Angiò re di Napoli, 1317; il ritratto equestre di Guidoriccio da Fogliano, 1328).
E alla fine degli anni Trenta del Trecento, Ambrogio Lorenzetti ci offre, nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, il primo grande esempio di pittura politica della tradizione italiana: gli  affreschi con le Allegorie del buono e del cattivo governo.

La lirica – Il panorama della lirica in Italia si presenta assai diversificato e ricco di esperienze
a)      La poesia religiosa – Entro confini più ristretti e con un’influenza decisamen­te minore sui futuri sviluppi della lirica, rimane la poesia reli­giosa, anche se il sentimento religioso nel Medioevo è all’origine di una vasta produzione letteraria che ebbe i suoi centri nell’Italia settentrionale, specie in Lombardia, e ancor più nell’Italia centrale, in Umbria. Dal XII secolo, col risvegliarsi di un’aspettativa di rifondazione della Chiesa, si sentì l’esigenza di accompagnare il culto non più col canto in la­tino, ma in volgare, a testimonianza di una fede che si contrapponeva a quella espressa dalla liturgia ufficiale. All’area umbra appartengono numerose «laudi» o lodi, cioè componi­menti in onore di Dio, della Vergine e dei Santi; e sempre umbri sono i maggiori esponenti del­la poesia religiosa medioevale, come San Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi. Una prova del tutto eccezionale di poesia religiosa scritta per la preghiera è il Cantico delle creature che San Francesco d’Assisi [[19]] (1181-1226) compose in volgare umbro. Il canto religioso andò progressivamente prendendo la forma della lau­da, un termine legato alle laudes (lodi) che si cantavano du­rante le funzioni religiose. Questi componimenti venivano eseguiti da confraternite di laici (laudantes) che accompagnarono la nascita di movimenti religiosi che, a partire dal seco­lo XIII, furono espressione di una grande ondata di fervore religioso soprattutto nelle zone dell’Italia centrale. Solo ver­so la fine del Duecento le laudi cominciarono ad essere rac­colte e trascritte a cura delle varie confraternite, dando così inizio ad una tradizione che continuò e s’ingrandì nei secoli XIV e XV, assumendo sempre più i caratteri della rappresen­tazione teatrale (laudi teatrali, sacre rappresentazioni). Comune a tutti i laudari è l’anonimato degli autori; unica eccezione il laudario di Jacopone da Todi [20], una personalità poetica di no­tevole rilievo per il quale la lauda è anche uno strumento di intervento nel dibattito ideologico e religioso.
b)      La poesia provenzale – In primo piano c’è tuttavia una lirica di argomento amoroso. Nelle corti feudali della Provenza, nel Sud della Francia, tra l’XI e il XII secolo, nacque una produzione poetica molto omogenea, sia per i caratteri for­mali (tipi di versi e di strofe, uso della ri­ma, ecc.) sia per i temi. È poesia scritta in lingua d’oc e profondamente legata all’ambiente della corte dove trova il pubblico, gli argomenti e le ragioni della sua origine. Questa poesia cortese, appunto da corte, è espressione di una nuova domanda di letteratura che deve intrattenere ed insieme dare prestigio ai membri e allo stile di vita della corte. L’abbandono della lingua latina e la scelta di temi laici, in particolare di quello amoroso, sono no­vità che segnalano l’affiorare dell’i­dea che la letteratura può avere un va­lore in sé, slegato dalle finalità religiose e morali e che l’attività poetica può semplicemente ricercare la bellezza e il piacere di chi l’ascolta. La figura del trovatore, il poeta (da tobàr che in provenzale significa poetare), è parte integrante della corte: molti sono aristocratici e feudatari come Guglielmo IX d’Aquitania, altri sono di umili origini, ma la loro attività poeti­ca li eleva socialmente e spesso procura rico­noscimenti o incarichi che danno loro dignità e ricchezza.
La maggior parte dei testi dei trovatori esprime un’originale concezione dell’amore che va sotto il nome di amor cortese: questo termine riassume un ideale di vi­ta esclusivo dell’ambiente della corte. I protagonisti di questo particolare rapporto amoroso possono essere soltan­to la dama di corte (madonna) e il poeta (amante) che è tenuto ad un atteggiamento di cortesia rivolto alla dama che è di totale ubbidienza, vassallaggio, desiderio ed omaggio. L’amor cortese fu teorizzato ed esaminato in un trattato assai famoso a quel tempo, il De amore (Sull’amore) di Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere:
  • la gioia per il favore accordato da madonna;
  • l’affinamento dei valori della cortesia per rendersi degni dell’amore;
  • la tensione del de­siderio amoroso.
Tutto questo costituiva un vero e proprio codice di comportamento (probabilmente poco rispettato nelle concrete esperienze di vita) che valeva per la poesia. Possiamo dire che la lirica cortese compì una mediazione tra il sentimento d’amore e la sua trasfigurazione intellettuale at­traverso un linguaggio letterario assai raffinato e seleziona­to, basato su alcune parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la lingua dei trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole assai rigide e distante da quella parlata.
In Italia fra XIII e XIV secolo giunge a un altissimo grado di elaborazione, dando vita al nucleo iniziale della tradizione letteraria europea e italiana.
La poesia dei trovatori, nata nelle corti della Francia meridionale, fu largamente conosciuta in Italia dove, nelle corti del Nord, continuarono a poetare in lingua d’oc una quarantina di trovatori che erano sfuggiti alla crociata contro gli Albigesi nel 1208.
c)      La Scuola siciliana – La poesia provenzale trovò imitatori soprattutto in Sicilia, a Palermo, sede della corte di Federico II di Svevia, dove nacque la prima scuola poetica della letteratura italiana. La corte di Federico era una corte raffinata, intellettualmente assai evoluta ed aperta alle più diverse esperienze culturali. Qui fiorì, sulla scia della poesia provenzale e riflettendone i temi e le tecniche, la «Scuola siciliana» cui appartennero poeti non solo siciliani, ma anche di altre parti d’Italia.
La poesia sici­liana si sviluppò in un arco di tempo piuttosto breve: nacque tra il 1220 e il 1230 con i compo­nimenti di Jacopo da Lentini (cui è attribuita l’invenzione del sonetto) ed ebbe fine col crollo della potenza sveva in Italia (1266, battaglia di Benevento).
I protagonisti della Scuola erano prima di tutto funzionari che svolgevano incarichi importanti: intellettuali che avevano dignità e prestigio sociale, per i quali il poetare fu un modo di partecipare alla rinasci­ta culturale promossa da Federico. Fra loro, oltre allo stesso imperatore Federico II ed ai figli Manfredi e Enzo, si ricordano Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Odo del­le Colonne, Giacomino Pugliese.
La poesia della Scuola siciliana in linea di massima ripete temi, situazioni, immagini della poesia provenzale cui guarda come modello; e, come la poesia provenzale, è impe­gnata in difficili ricerche tecniche, soprattutto metriche secon­do un repertorio fisso di situazioni e di immagini. Canta soprattutto l’amore e, in particolare, l’amore cortese.
La lingua usata dai poeti della Scuola siciliana è il dialetto siciliano affinato e depurato delle sue forme più gergali e più locali, e arricchito di elementi latini e provenzali: Dante lo definì «volgare illustre», per dire che questi poeti adottarono una base costituita dal volgare siciliano parlato che poi nelle loro mani divenne uno strumento al­to, elaborato, arricchito dall’uso della conversazione dotta e regolarizzato nelle forme grammaticali.
d)     La scuola toscana – Attraverso la me­diazione dei poeti siciliani, ma anche per diretta conoscenza dei testi francesi, la lirica cortese fece da modello alle esperienze che maturarono in Toscana (poesia toscana) la cui novità, rispetto alla tradizione siciliana, è costituita dalla presenza delle tematiche politiche, in relazione con le lotte dei comuni.
La per­sonalità di maggior rilievo fu Guittone d’Arezzo (1230 ca.-1294) che s’impose come poeta, ma fu anche intellettuale e uo­mo pubblico di parte guelfa. Accanto a Guittone vanno ri­cordati Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani.
La poesia toscana fu un pun­to di riferimento per le decisive innovazioni dei poeti che, in­sieme con Dante, rappresentano il cosiddetto stil novo.
e)      Il «dolce stil novo» – La più importante corren­te poetica della seconda metà del Duecento fu la scuola del «dolce stil novo». Di tale scuola viene considerato iniziatore il bolognese Guido Guinizelli [[21]], ma essa si svi­luppa soprattutto in Firenze ad opera di un gruppo di giovani poeti, come Guido Caval­canti [22], lo stesso Dante, Lapo Gianni, Gianni Alfani, cui va aggiunto Cino da Pistoia, che erano fra loro legati da analogie di gusto e da comuni esperienze culturali.
Nella loro poesia ricorrono alcuni temi:
  • la donna vi è celebrata come una specie di creatura angelica che perfeziona colui che l’ama e lo guida a Dio e riflette la viva religiosità dell’ambiente comunale;
  • l’amore è considera­to retaggio dei soli spiriti nobili, dove però nobiltà è intesa non come nobiltà di nasci­ta, ma come nobiltà interiore, conquista della moralità e dell’intelligenza dei singoli; la nuova concezione di nobiltà è da mettere in relazione con la vita politico-sociale del Comune, che era sorto sulle rovine della nobiltà feudale;
  • la capacità che essi dimostrano nel cogliere ed analizzare le emozioni, anche le più sottili, dell’animo umano;
  • un linguaggio raffinato, duttile, capace di esprimere tali sottili sfumature dello spirito.

Le espressioni popolaresche – Ai margini restano le esperienze, pur interessanti, della poesia comico-realistica e della poesia giullaresca.
a)      La poesia realistica – è un tipo di poesia diffusa in Toscana fra Due e Trecento; essa si caratteriz­za soprattutto per le scelte tematiche: l’aspirazione alla ricchezza, il desiderio sessuale, l’imprecazione contro la povertà e la mala sorte, la maledizione contro le donne brutte o contro gli avversari politici, il vituperio. Gli strumenti espressivi di questa poesia appartengono al re­gistro che la cultura medievale definiva comico e contrapponeva a quello tragico e sublime un registro che si associa al linguaggio mediocre e basso. Questi caratteri non devono tuttavia far pensare a una poesia rozza; al con­trario, il procedimento della parodia, del rovesciamento di modelli alti, l’iperbole e la caricatura dimostrano una note­vole perizia tecnica. Anche poeti come Dante, Cavalcanti e Guinizzelli scrissero poesie di questo tipo. Tra gli autori che si dedicarono soprattutto alla poesia comico-realistica ricor­diamo Cecco Angiolieri, Rustico di Filippo e Folgore da S. Gimignano.
b)      La poesia giullaresca fu una produzione di livello mo­desto, rivolta a un pubblico popolare, spesso anonima, che ebbe una trasmissione in parte orale e in parte scrit­ta. Solitamente sono testi legati a situazioni di festa, d’intrattenimento, di spettacolo, che comportano una fruizione facile, rapida e piacevole. Essa fiorì in quasi tutte le regioni d’Italia a opera di giullari che potevano essere artisti di piazza, canta­storie, ma anche uomini in contatto con l’ambiente di corte e detentori di una buona preparazione culturale.

La lirica nel Trecento – Nel Trecento ha inizio la tradizione della poesia per musica. L’opera poetica di Dante e più ancora quella di Petrarca do­minano il Trecento la straordinaria altezza delle loro opere fa sì che non vi siano poeti capaci di creare qualche cosa che ol­trepassi l’imitazione di questi due grandi.

Dante Alighieri – L’esistenza di Dante Alighieri è strettamente legata agli avvenimenti della vita politica fiorentina. Alla sua nascita, Firenze era in procinto di diventare la città più potente dell’Italia centrale. A partire dal 1250, un governo comunale composto da borghesi ed artigiani aveva messo fine alla supremazia della nobiltà e due anni più tardi furono coniati i primi fiorini d’oro. Il conflitto tra guelfi, fedeli all’autorità temporale dei papi, e ghibellini, difensori del primato politico degli imperatori, divenne sempre più una guerra tra nobili e borghesi simile alle guerre di supremazia tra città vicine o rivali. Alla nascita di Dante, dopo la cacciata dei guelfi, la città era ormai da più di cinque anni nelle mani dei ghibellini. Nel 1266, Firenze ritornò nelle mani dei guelfi e i ghibellini vennero espulsi a loro volta.

La vita - Dante nacque a Firenze nel 1265 dalla famiglia degli Alighieri, una famiglia di parte guelfa di modeste condizioni economiche, ma di antica nobiltà. Fra i suoi antenati egli ricorda orgogliosamente nel Paradiso il trisavolo Cacciaguida che, fatto ca­valiere dall’imperatore Corrado III, morì in Terrasanta, combattendo contro gli infedeli nella seconda Crociata (1147-1149).
Ebbe l’educazione tipica, in quegli anni, dei giovani delle buone famiglie fiorentine: studiò le discipline del Trivio(grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritme­tica, geometria, musica, astronomia); ma ebbe anche, se pur saltuariamente, la guida ed il consiglio di quell’uomo di eccezionale cultura enciclopedica che fu Brunetto Latini, la cui figura di maestro egli eternerà nella Commedia (Inferno, XV). Frequentò anche pittori e musicisti, quali il miniatore Oderisi da Gubbio ed il cantore Casella, che pure saranno presenti nel poema (Purgatorio XI e Purgatorio II). Cominciò presto a scri­vere versi e fece parte di quel colto e raffinato gruppo di giovani poeti che diedero vi­ta alla scuola del «dolce stil novo». Secondo le tecniche e gli ideali di questa scuola compose le liriche della Vita nova, ispirate al suo amore per una giovane donna fioren­tina, Beatrice, e alcune delle Rime. Ma contemporaneamente e successivamente tentò anche sperimentazioni poetiche diverse per temi e per toni, aprendosi così la via alla complessa orchestrazione della Commedia.
Nel frattempo, e specie dopo la morte di Beatrice (1290), che aveva determinato in lui bisogno di meditazione e di chiarificazione interiore, si dedicò allo studio della filoso­fia. Dava intanto stabilità alla sua vita costruendosi una famiglia: sposò, non sappiamo bene in che anno, Gemma Donati, dalla quale ebbe tre figli, Jacopo, Pietro e An­tonia, che, fattasi poi monaca col nome di Beatrice, visse in un convento di Ravenna e fu così vicina al padre negli ultimi suoi anni.
Impegnato non solo culturalmente, ma anche politicamente, Dante partecipò presto alla vita pubblica del suo Comune in cui, cacciati fin dal 1266 i Ghibellini, dominava ormai incontrastata la fazione dei Guelfi. Nel 1289 fu tra i cavalieri che combatterono nella battaglia di Campaldino in cui Firenze e la lega guelfa sconfissero i ghibellini di Tosca­na, e nello stesso anno fu presente alla resa del Castello di Caprona, strappato dai Fiorentini ai Pisani. Ma la sua attività più propriamente politica ebbe inizio nel 1295, do­po che potè iscriversi a una delle Arti, o corporazioni dei lavoratori, condizione necessa­ria, dopo gli ordinamenti democratici di Giano della Bella del 1293, perché un nobile potesse fare politica militante. Poiché allora la medicina era considerata assai vicina alla filosofia, Dante, come cultore di studi filosofici, si iscrisse all’Arte dei medici e degli speziali. La vita politica fiorentina era in quegli anni tumultuosa e lacerata da odi interni. I Guel­fi erano divisi in due fazioni, quella dei Neri, alla quale appartenevano la maggior par­te dei nobili e la parte più numerosa della borghesia mercantile, e quella dei Bianchi, cui appartenevano invece poche famiglie aristocratiche, alcuni esponenti meno influenti della borghesia ed il popolo minuto. La parte Nera era capeggiata dalla famiglia dei Do­nati, la Bianca da quella dei Cerchi. Diverse per composizione sociale e per interessi, le due fazioni erano in contrasto anche per la politica estera: mentre i Neri si appoggiava­no al Papa e agli Angioini, signori dell’Italia meridionale e legati alla monarchia fran­cese, i Bianchi erano gelosi difensori dell’autonomia del Comune sia nei confronti della Francia sia del Papa, il quale vantava e voleva far valere su Firenze antichi diritti feu­dali.
Dante aderì alla parte Bianca, che allora aveva in città la prevalenza, ed ebbe nel Comune molte cariche pubbliche fino alla più alta, il Priorato: fu uno dei priori del trimestre giugno-agosto 1300. Nell’esercizio del governo si comportò con moderazione ed imparzialità ed esercitò una funzione equilibratrice fra le fazioni, di cui tentò di frena­re le contese non di rado cruente. In politica estera difese con intransigenza l’autono­mia del Comune contro il papa d’allora, Bonifacio VIII, che gli divenne perciò acerri­mo nemico, e che il Poeta bollerà nella Commedia come traditore del messaggio di Cri­sto.
Fu proprio l’appoggio del Papa e della Francia a consentire, in Firenze, il colpo di Sta­to che improvvisamente trasferì il potere dalle mani dei Bianchi a quelle dei Neri nel 1301. Il rovesciamento politico si attuò con violenze, uccisioni, saccheggi, cui seguiro­no, contro i Bianchi vinti, processi illegali e sommari, accuse e condanne infamanti e spesso ingiustificate. Dante in quei giorni non era a Firenze; era stato mandato a Roma come ambasciatore dal governo Bianco per cercare di dissuadere Bonifacio VIII dall’intervenire nelle faccende fiorentine. Accusato di baratteria, cioè di uso privato di denaro pubblico, fu condannato in contumacia a pagare un’ammenda, a due anni d’esilio, e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici; e gli fu intimato di presentarsi ai giudici per giustificare il suo operato nel gennaio del 1302. Dante, sdegnosamente, non pagò l’ammenda e non si presentò; seguì allora una seconda sentenza, il 10 marzo, che lo condan­nava al rogo se fosse stato preso nel territorio del Comune.
La sentenza apriva per Dante il periodo dell’esilio, un’esperienza da cui fu segnata la sua vita e la sua opera. Nel Convivio, parlando della sua esistenza di esule, egli si rappresenta come una nave allo sbando, senza vela e senza governo (= timone), spinta dal vento freddo della povertà. E nel Paradiso dichiara di aver provato
come sa di sale
lo pane altrui, e com’è duro calle
lo scendere e il salir per l’altrui scale.
Benché la sua cultura e la sua fama gli aprissero le porte di molte corti italiane, egli sentiva come dolorosa umiliazione il fatto stesso di dover chiedere ed accettare ospitalità: al che si aggiungeva la nostalgia per la patria e le persone care perdute ed il risenti­mento amaro per l’ingiustizia sofferta. Unici conforti erano per lui la consapevolezza della propria innocenza, l’orgoglioso senso della propria superiorità nei confronti di coloro che lo avevano bandito, e la passione culturale e letteraria da cui nacquero le sue opere che, ad eccezione della Vita nova e di alcune Rime, furono tutte composte durante l’esilio.
Numerose furono le sue peregrinazioni per l’Italia, «per le parti tutte – come egli dice – alle quali questa lingua [l’italiano] si stende». Fra le tappe più importanti ricordiamo il soggiorno a Verona presso gli Scaligeri, in Lunigiana presso i Malaspina, e quello finale a Ravenna presso i Polentani.
Le sue ricorrenti speranze di ritorno in patria andarono sempre frustrate. Subito dopo l’esilio aveva creduto, con gli altri Bianchi esuli, di poter tornare in Firenze con le armi; ma l’inettitudine dei suoi compagni e le loro interne discordie trasformarono il tentativo in una sconfitta sanguinosa. Di nuovo le sue speranze si riaccesero alla venuta in Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1311, che Dante sperava avrebbe messo fine alle interne lotte dei Comuni e quindi anche di Firenze, aprendogli la strada del ritorno. Ma fu speranza che svanì con la morte improvvisa di Arrigo nel 1313. Né egli volle accettare dai Fiorentini amnistie e condoni che implicassero ammissioni di colpevolezza e quindi fossero lesive della sua dignità. «Non è questa la via per ritornare in patria – scriveva nel 1315 a un amico di Firenze che gli aveva rese note le condizioni umilianti di un decreto che gli avrebbe consentito il ritorno – ma se ne sarà trovata un’altra, da voi o, poi, da altri, che non offenda la fama e l’onore di Dante, per quella mi metterò con passi non lenti; ma se non si può entrare in Firenze per una strada siffatta, io non c’entrerò mai».
Si illuse invece fino all’ultimo, con ostinata speranza, che i Fiorentini potessero richiamarlo onorevolmente in città in virtù della sua grandezza di studioso e di poeta. Era una speranza che, verso la fine della composizione del Paradiso, quando ormai la mor­te non era lontana, affidava alla sua Commedia, il «poema sacro», rivivendo il dram­ma della sua innocenza calunniata dagli avversari, quasi di agnello perseguitato dai lu­pi:
Se mai continga che ‘1 poema sacro
al quale ha posto mano e ciclo e terra,
sì che m’ha fatto per più anni macro
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormì agnello,
nemico ai lupi che li danno guerra.
(Paradiso XXV).
Morì in esilio, a Ravenna, nel 1321.

Le opere – La sua attività di studioso e di poeta si concretò nella vastissima produzione che ebbe il momento culminante e conclusivo nella grandiosa costruzione della Commedia, alla quale fecero da preparazione e da supporto le meditazioni e le speri­mentazioni precedenti, documentate dalle cosiddette opere minori. Nella giovinezza ed all’incirca fra il 1283 e il 1292 compose numerose liriche di tipo stilnovista in onore di una donna amata, una Beatrice, forse figlia di Folco Portinari, che andò sposa a Simone dei Bardi e morì nel 1290 in giovanissima età.
a) La Vita nova – Raccolte insie­me e intervallate da prose che ne illustravano l’origine e il significato, queste liriche co­stituirono il libretto La vita nova, storia di un amore adolescenziale, coi suoi turbamenti e tremori, ma anche analisi attenta e sottile dei moti suscitati nell’animo dall’amore.
Nell’operetta, secondo i moduli dello Stilnovo, la figura di Beatrice si tra­duce in quella ideale della donna-angelo che guida l’uomo verso il bene e la cui perdi­ta è fonte di ottenebramento e di offuscamento morale. Dante racconta il suo primo incontro con Beatrice all’età di nove anni. Il secondo incontro avvenne nove anni dopo e Dante se ne innamora perdutamente. Dante, per non far intendere il suo amore nei confronti di Beatrice, finge di essere innamorato di altre due donne e per questo motivo Beatrice gli toglie il saluto. Dante soffre per questi mancati saluti di Beatrice. In seguito Dante prende coraggio e esterna il suo sentimento verso Beatrice, ma fu deriso da Beatrice e da altre donne. Il passaggio importante dell’opera è la morte del padre di Beatrice.
Nella stessa notte gli apparve in sogno una visione che si avvererà con la morte di Beatrice. L’opera finisce che Dante spiega che egli non scriverà più su Beatrice finché non le dirà tutti i suoi sentimenti che ha provato per lei.
b) le Rime – Parte scritte a Firenze e parte in esilio, le Rime coprono quasi l’intero arco della vita di Dante.
Esse testimoniano le successive e varie sperimentazioni tecni­che del poeta che, tentando argomenti diversi, andava progressivamente costruendosi un linguag­gio articolato e polimorfo, dal delicato e tenue, al violentemente passionale, al plebeo, al rigorosamente logico, preparandosi alla polifonia tematica e tonale della Commedia
Nelle Rime, a delicati componimenti di tipo stilnovistico, si affiancano, infatti, le canzoni di selvaggia e terrena passionalità per una certa Petra (Ri­me petrose), una tenzone (o scambio di componimenti a botta e risposta) plebea con l’amico Forese Donati, liriche di argomento etico e filosofico, come la famosa canzone Tre donne intorno al cor. 
c) Il Convivio – Fra il 1304 e il 1307, già in esilio, Dante componeva il Convivio, specie di enciclopedia del sapere contemporaneo, costituita da canzoni e da trattati in prosa illustrativi e ri­masto incompiuto.
L’opera è scritta in volgare perché al convito, o banchetto di cultu­ra, potessero partecipare anche coloro che non conoscevano il latino. L’opera è composta da un prologo e da tre trattati.
Il prologo racconta il piano dell’opera e la motivazione della sua formazione.
Il primo trattato parla del volgare e dell’importanza che potrà avere nel futuro della letteratura.
Il secondo trattato espone i quattro sensi della scrittura: quello letterale, che comprendere il testo in senso letterale, quello allegorico, ossia una verità superiore a quella letterale, quello morale è la conseguenza di quello allegorico, quello anagogico il sovrasenso spirituale.
Il terzo trattato è una lode alla filosofia e alla natura dell’uomo. Il quarto trattato racconta della vera nobiltà come virtù morale.
d) Il De vulgari eloquentia – Sempre degli anni fra il 1304 e il 1307 è il De vulgari eloquentia, anch’esso rimasto incompiuto, in cui Dante affronta il problema della lingua italiana e cerca di delineare le caratteristiche di un volgare che superi le differenze dei dialetti regionali e possa diven­tare la lingua colta comune a tutti gli scrittori e poeti della penisola.
e) Il De Monarchia – Legata alla venuta di Arrigo VII in Italia ed alle speranze suscitate in Dante da tale av­venimento è la Monarchia, un trattato politico in latino in cui il poeta delinea i caratteri e le funzioni dell’Impero, e, con modernità di vedute, il rapporto che deve intercorrere fra potere spirituale e temporale.
L’opera è divisa in tre libri: il primo libro racconta che soltanto attraverso una monarchia universale l’uomo potrà arrivare alla sua massima capacità intellettuale; il secondo libro racconta che i romani sono arrivati alla massima estensione non attraverso le armi, ma attraverso la provvidenza; il terzo libro racconta che Dante divide in due poteri l’Impero e il Papato, dicendo che entrambi i poteri sono stati donati da Dio e quindi non devono essere la stessa persona. Ma l’Impero deve stare sempre al dì sotto del Papato, cioè di Dio.
f) Le Epistole – Altre opere del periodo dell’esilio sono le Epistole, in latino, fra le quali si ricordano quelle composte in occasione della discesa in Italia di Arrigo VII per affiancare con l’esortazione e col consiglio la missione dell’imperatore; e quella all’amico fiorentino a proposito dell’umiliante decreto di amnistia.
g) Le Egloghe – Nelle Egloghe, in latino, Dante difende l’uso del volgare nella Commedia. Una importante egloga è quella in cui Giovanni del Virgilio diceva a Dante di abbandonare la trascrizione dell’Inferno e del Purgatorio e doveva scrivere un’opera in latino per arrivare alla corona di alloro a Bologna. Dante rispose che egli avrebbe terminato l’Inferno, il Purgatorio e avrebbe scritto anche il Paradiso e solo in fine sarebbe andato alla conquista della corona di alloro.
h) La Quaestio de aqua et terra – La Quaestio de aqua et terra è un trattatello scientifico in cui Dante trascrive una questione cosmologica discussa da Dante a Verona il 20 gennaio 1320 nella Chiesa di Sant'Elena se la terra emersa sia più alta o no della superficie dell'acqua. Era luogo comune seguito anche da Dante che il globo terracqueo fosse al centro dell'universo e che il centro della sfera celeste coincidesse con il centro del medesimo. Dante ritiene che la terra emersa è dovunque più alta della superficie del mare ed emerge da essa nell'emisfero boreale con una gibbosità a forma di semilunio che dovrebbe coincidere con le terre allora conosciute.
Il trattato si struttura come una vera e propria quaestio disputata universitaria nella quale dapprima si accolgono le tesi concorrenti, poi si oppone la propria, quindi si discute il problema nella sua essenza e infine si risponde punto per punto alle argomentazioni degli antagonisti.

La Commedia – Nel 1307 Dante aveva iniziato la composizione della Commedia che era appena stata portata a termine nel 1321, anno della sua morte. La Divina Commedia consta, di tre cantiche, 1’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Ognuna di esse è costituita da 33 canti, più un canto iniziale che fa da introduzione generale al poe­ma, così che esso raggiunge il numero complessivo di 100 canti.
Il metro è la terzina di en­decasillabi (rima ABA - BCB ecc).
Vi ricorrono visibilmente alcuni numeri che per i me­dioevali avevano un particolare significato: il 3 simbolo della Trinità, il 10 simbolo della perfezione, e i loro multipli.
Il titolo di Commedia sta ad indicare che la vicenda in essa rappresentata si conclude con un lieto finale; ma deriva anche dal fatto che Dante la volle scritta nello stile che egli definiva comico, cioè uno stile mediano che consentiva una ricca varietà di toni, dall’umile e dal venatamente rozzo, al nobile e all’elevato, attraverso tutte le gamme in­termedie. L’epiteto di divina fu attribuito all’opera dantesca dal Boccaccio e divenne poi parte integrante del titolo.
a) La struttura dell’universo e la collocazione dell’Oltremondo dantesco - La struttura del mondo secondo Dante, che si adegua in ciò alle diffuse convinzioni medioevali, è la seguente. Al centro dell’universo, sospesa nell’aria, sta la terra, una sfera immobile che l’equatore divide in due emisferi, quello boreale abitato dagli uomini, quello australe interamente coperto dalle acque. La terra è contornata dalla sfera dell’aria e dalla sfera del fuoco, e poi da nove cicli concentrici e trasparenti che le ruotano attorno. In questa struttura cosmologica Dante ha collocato concretamente il suo Aldilà: Infer­no, Purgatorio, Paradiso.
L’Inferno è una grande voragine che si apre a forma di imbuto proprio accanto a Gerusalemme, e si estende, restringendosi progressivamente, fino al centro della terra. Essa si è spalancata quando Lucifero è stato cacciato dal Paradiso e la terra su cui è precipitato si è aperta per orrore del suo contatto. In fondo all’Inferno, nel centro della terra, Luci­fero è rimasto conficcato. L’Inferno è diviso in cerchi dove sono collocati i dannati, tanto più in basso quanto maggiore è la gravita della loro colpa. Preceduti dagli ignavi, cioè da coloro che nel mondo non hanno fatto né bene né male e che occupano l’Antinferno, essi sono distin­ti in tre categorie, e cioè, dall’alto al basso, gli incontinenti, cioè coloro che non hanno saputo controllare i propri istinti con la ragione, i violenti, fraudolenti. A queste tre categorie, presenti in San Tommaso, che a sua volta le aveva derivate da Aristotele, si aggiungono coloro che, non per loro colpa, non hanno conosciuto Dio, e che stanno nel Limbo, e gli eretici, che coscientemente hanno rifiutato Dio. Il limbo costituisce il primo cerchio, gli eretici sono collocati nel sesto cerchio, che precede la sede infernale dei violenti e dei fraudolenti.
Il Purgatorio è una montagna che, altissima in mezzo alla sterminata distesa delle acque, si erge al centro dell’emisfero boreale, agli antipodi dell’apertura dell’Inferno. La montagna del Purgatorio è a sua volta divisa in tre parti: le sue pendici più basse costi­tuiscono l’Antipurgatorio, dove aspettano di iniziare l’espiazione le anime di coloro che si pentirono solo in punto di morte; segue il Purgatorio vero e proprio diviso in sette balze corrispondenti ai sette peccati capitali; sulla cima del monte è collocato il Paradi­so terrestre.
Il Paradiso ha la sua sede nell’Empireo, che sta al di là dei nove cieli rotanti. In esso stanno Dio, la Vergine, gli angeli e i beati. Ma Dante immagina che, durante il suo viaggio, le anime dei beati prendano temporaneamente dimora nei nove cieli perché egli, dalla loro maggiore o minore vicinanza all’Empireo, possa rendersi conto del loro maggiore o minore grado di beatitudine.
b) Il viaggio dantesco: significato letterale e significato allegorico - Il poeta immagina di essersi smarrito, nella notte tra il giovedì e il venerdì Santo del 1300, anno del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII, in una selva oscura. Preso da terrore, cerca di uscirne, e crede di potersi salvare salendo su di un monte che ad un tratto gli appare, e che è illuminato dalla luce del sole. Ma tre fiere, una lonza, un leone e una lupa, gli impedi­scono il cammino, ed egli riprecipita a valle, nell’oscurità della selva. Quando ormai si crede perduto, è soccorso dal poeta latino Virgilio, a lui mandato da Beatrice, che dal Paradiso, dove ormai si trova, vuole soccorrerlo. Virgilio lo ammonisce che, per uscire dalla selva, dovrà compiere un cammino ben più lungo e arduo che non l’ascesa al monte: dovrà cioè discendere nell’Inferno, salire le balze del Purgatorio; e solo allora potrà giungere alla salvezza, cioè a Dio.
Come si vede, il significato letterale si intreccia strettamente fin dall’inizio col significa­to allegorico. La selva oscura rappresenta la dispersione spirituale, cui si abbandonò Dante dopo la morte di Beatrice; le tre fiere rappresentano i vizi (lussuria, superbia, avarizia) da cui non è facile all’uomo liberarsi; il viaggio per l’Inferno e per il Purgato­rio rappresenta la riflessione sulle conseguenze del peccato, riflessione che, con l’aiuto della grazia, può consentire all’uomo di salvarsi.
Il poeta Virgilio e Beatrice fanno da guida a Dante nel suo viaggio ultraterreno. Virgilio rappresenta la ragione umana, grazie alla quale l’uomo si rende conto delle conseguen­ze del suo cattivo operare; ma rappresenta anche, in quanto celebratore nell’Eneide dell’impero romano, il potere imperiale. Beatrice, la donna angelicata della Vita nova, qui rappresenta la grazia divina e la teologia depositaria della rivelazione, che subentra alla ragione là dove questa non può arrivare; ma rappresenta anche la Chiesa, l’istitu­zione cioè che, insieme all’Impero, può portare alla salvezza l’umanità, se l’una e l’altro, concordemente e autonomamente, agiranno nell’ambito che loro spetta. Il valore simbolico che le due guide assumono nella Commedia non toglie loro ricchez­za d’umanità. Nel difficile percorso attraverso l’Inferno e il Purgatorio, Virgilio è per Dante l’amico, il padre, il maestro severo e affettuoso; e Beatrice, che sostituisce Virgi­lio nel guidare Dante attraverso il Paradiso, è animata da caldo affetto e da trepidazione femminile.
Il viaggio dantesco nell’Oltremondo dura sette giorni, dalla notte fra il 7 e l’8 aprile al pomeriggio del 14 aprile del 1300. Guidato da Virgilio il poeta scende, percorrendo i cerchi infernali, fino al centro della Terra. Di qui, per un passaggio interno all’emisfe­ro australe, perviene alla montagna del Purgatorio, sulla cui cima, nel Paradiso terre­stre, lo aspetta Beatrice. Guardando negli occhi di lei, in virtù della bellezza e della forza morale e conoscitiva che da essi promanano, il poeta, salendo di cielo in cielo, giunge infine all’Empireo, sede di Dio.
c) Caratteri delle tre Cantiche - Pur caratterizzata da salda compattezza unitaria, da organicità strutturale, la Commedia presenta caratteri diversi nelle tre cantiche.
L’Inferno è il regno dove dominano le individualità potenti, che si ergono con eccezio­nale rilievo davanti al poeta che le interroga. Esse sono ancora psicologicamente legate alla terra, che è il luogo della loro felicità perduta, e sono ancora dominate dalle pas­sioni che sulla terra le segnarono in modo particolare: Francesca da Rimini dall’amore, Farinata dall’ardore politico, Brunetto Latini dalla solidarietà col discepolo e dalla sol­lecitudine per la propria opera di studioso, Pier delle Vigne dalla sua lealtà verso l’imperatore, Ugolino dall’odio contro il nemico che ha sterminata la sua famiglia, Ulisse dall’ansia di conoscenza, ecc.
Bloccate nelle loro passioni, esse appaiono anche isolate dalle altre anime; rari sono i loro rapporti con i compagni di pena; e, se rapporto vi è, è per lo più di disprezzo e di odio.
Questi grandi personaggi, che sembrano a volte persino insensibili alla pena cui sono condannati, sono più numerosi nella parte più alta dell’Inferno; nel fondo del baratro infernale, pur con alcune eccezioni, prevale invece una brulicante moltitudine di esseri che, come nulla ebbero di magnanimo in vita, così nulla hanno dopo morte che dia lo­ro qualche grandezza anche nel male.
Nel Purgatorio le personalità sono più sfumate; nelle anime i sentimenti e gli affetti terreni non levano più alta la loro voce, e si traducono piuttosto in ricordo nostalgico, quasi mai doloroso, poiché esse sono consolate dal pensiero della beatitudine eterna che le attende. Legate fra loro dalla comune confortante aspettativa e permeate di comune caritas cristiana, si muovono coralmente, a gruppi. E corali sono i canti di preghiera che esse levano a Dio e nei quali amorevolmente in­cludono anche il ricordo dei viventi, ancora soggetti all’errore.
Nel Paradiso, infine, le anime sono tutte accomunate nella beatitudine del possesso di Dio. Scompare anche fisicamente la loro fisionomia terrena: se si eccettuano le anime del primo Cielo in cui, se pur sfuocati, sono visibili i lineamenti dei loro volti, negli al­tri Cicli esse si presentano come luci; e la diversa intensità del fulgore che le avvolge e le nasconde è indice del loro diverso grado di beatitudine.
Tuttavia la terra, che Dante sente così lontana colle sue laceranti passioni, «l’aiola che ne fa tanto feroci», penetra anche in questo regno: come valutazione che orienti mo­ralmente la vita terrena, come giudizio che ristabilisca la giustizia violata sulla terra. Sono particolarmente significativi in questo senso la invettiva di San Pietro contro la corruzione degli ecclesiastici, e i tre canti centrali del Paradiso, il XV, XVI, XVII, in cui Dante rivive con intensità emotiva e grande espressività poetica l’amara vicenda del suo esilio.
d) Il «paesaggio» nei tre regni - Come diversa è, nei tre regni, la natura delle anime, così è diverso lo sfondo su cui sono collocate.
Oscura e cupa è l’atmosfera infernale, dove non penetra mai la luce del sole, «lo dolce lome»; nei vari gironi, di volta in volta, cade spietatamente una pioggia sudicia e geli­da, o sibila una violenta bufera, o il ghiaccio chiude i dannati nella sua morsa, o l’oscurità è sinistramente illuminata dai bagliori del fuoco punitore. Gli aspetti della natura vi si manifestano in forma abnorme: un fiume di sangue, un bosco in cui le piante sono anime, e quando viene reciso un ramoscello ne esce non linfa vitale ma sangue. E le voci che percorrono questo regno sono lamenti o invettive. Custodi dell’Inferno sono, accanto ai diavoli della tradizione cristiana, i demoni della tradizione classica (Caronte e Cerbero); o figure della mitologia classica qui assunte in funzione demoniaca, come Minosse, i Centauri, i Giganti.
Nel Purgatorio trionfa invece la natura in tutto il suo fascino. È un paesaggio di acque (il tremolar della marina) e di montagna, illuminato dalla luce solare, e dove le notti sono confortate dallo splendore delle costellazioni. Sulla cima del monte, nel Paradiso terrestre, il paesaggio si fa poi verde e irriguo; vi si stende una fìtta foresta, «la divina foresta spessa e viva», costellata di fiori e percorsa da due fiumi. Custodi di questo regno, che risuona dei canti dei penitenti, sono gli angeli, vestiti ora di verde ora di bianco.
Il Paradiso poi è tutto musica e fulgore di luce. Luminosi sono i nove cieli della concezione tolemaica, sui quali le anime, luce esse stesse, appaiono come gemme incastonate in preziosi monili; musicale è il movimento dei cieli rotanti. E tutto splendore di luce è l’Empireo, sede di Dio e della Corte beata.
e) La legge del «contrappasso» - Nell’Inferno e nel Purgatorio le pene delle anime sono stabilite secondo la legge del contrappasso, per cui il tipo della pena corrisponde a quello della colpa. Il contrappasso può realizzarsi per somiglianza per contrasto. Il primo caso, ad esempio, si verifica per la pena dei lussuriosi che, travolti in vita dalla bufera della passione, sono qui sbattuti dalla «bufera infernal che mai non resta». Esempio del secondo caso è la pena dei golosi che, amanti in vita dei cibi raffinati, so­no qui costretti ad ingozzare una sudicia broda di acqua e di fango.
f) Dante, vero protagonista della «Commedia» - Numerosissimi sono i personaggi che Dante incontra nel suo viaggio, che interroga e dai quali ottiene risposte. È una galleria articolata di figure che popolano i tre regni; e certo ognuna di esse ha una vita e una fisionomia sua ed autonoma. Ma, anche, attraverso tali personaggi, Dante esprime molti aspetti della propria personalità; anzi egli, nella sua opera, è sempre presente con i suoi sentimenti, con i suoi dubbi, con le sue speranze, le sue delusioni e i suoi ideali. Per questo è stato giustamente detto che il vero protagonista della Commedia è Dante nella sua complessa e mossa personalità.

Significato e valore della cultura dantesca - Risulta evidente dalla biografia di Dante la vastità della sua cultura, che spazia nelle più svariate discipline e trova alimento nel­le diverse epoche storiche, da quella classica e pagana, almeno nei modi e nella misura in cui questa poteva essere recepita e accolta nel Medio Evo, a quella cristiana e ro­manza: da Aristotele a San Tommaso, da Virgilio, Orazio, Lucano ai trovatori proven­zali e ai poeti italiani più vicini.
Ma l’importanza della cultura dantesca non sta tanto nel suo carattere vastamente enciclopedico, carattere del resto comune al mondo medioevale, ma nel fatto che essa non è mai passivo apprendimento, ma è diretta alla soluzione di problemi, siano essi religiosi, morali, politici o letterari.
Diventa in tal modo attiva passione culturale; e proprio per questa ragione può fare da supporto, specie nella Commedia, alla poesia dantesca, che dalla cultura riceve stimoli e di essa si arricchisce come di nutrimento vitale.

Il pensiero politico di Dante - Dante era convinto che l’Impero fosse la sola struttu­ra politica capace di portare e mantenere la pace nel mondo. Essendo esso, come già l’Impero romano, un potere universale, e come tale in grado di controllare le varie strutture politiche particolari (Stati e Comuni) affermatesi al suo interno, l’Impero, nel pensiero dantesco, aveva la possibilità di porre fine alle contese e alle guerre che laceravano le sue province.
Era questa, in realtà, una visione generosa, ma utopistica, e anche anacronistica, perché ormai l’autorità imperiale era al declino, ed era accettata solo formalmente da coloro che in teoria avrebbero dovuto considerarsi suoi sudditi: ne è un esempio il fallimento dell’impresa di Arrigo VII che si vede coalizzati contro di sé i Comuni italiani. L’Impero vagheggiato da Dante, qualunque fosse il Paese di origine dell’imperatore, doveva considerarsi romano in quanto erede dell’Impero romano, e avere in Roma il suo centro e la sua vera capitale.
Se il sogno di un forte impero universale era il frutto dell’anelito dantesco all’instaurazione di un pacifico ordine nel mondo, il Comune, Firenze, era stato per Dante il cam­po del suo concreto operare e delle sue impetuose passioni politiche, rimaste ben vive anche dopo l’esilio e tradotte poeticamente nella Commedia in figure ed episodi: nella predizione di Ciacco sul futuro destino di Firenze, nella generosa figura di Farinata de­gli liberti, nella condanna che Brunetto Latini pronuncia contro i molti fiorentini rozzi e corrotti che opprimono una minoranza onesta e scelta, nelle invettive contro le nuove classi arricchite che hanno alterato l’antico equilibrio sociale. E, in contrasto con la Fi­renze dei suoi tempi, Dante rievoca, nel nostalgico canto XV del Paradiso, la Firenze di tre generazioni precedenti, la Firenze «dentro della cerchia antica», in cui la vita comunale si svolgeva misurata e serena, senza ambizioni smodate e senza lotte di fazioni; e non vi erano proscrizioni né esili, così che ognuno sapeva dove sarebbe stato sepol­to.
Quanto all’Italia, Dante la riconosce ripetutamente come entità unitaria territoriale e linguistica (il «bel paese là dove il sì suona»), ma non le attribuisce autonoma consistenza politica. L’Italia è per lui una provincia dell’Impero, certo la più bella delle sue province, «il giardin dell’imperio», e anche la più nobile, in quanto in essa si trova Roma.
Dante attribuisce la corruzione del mondo all’incapa­cità dell’imperatore a reggerlo con autorità ed equità. Ma a sua volta, causa della de­bolezza dell’Impero è l’arbitraria ingerenza della Chiesa nell’ambito politico. Assumen­do funzioni che sono di spettanza del potere imperiale, i papi «politici», che dimenti­cano l’insegnamento evangelico «Date a Cesare quel che è di Cesare», accumulano in sé i due poteri, quello temporale simboleggiato dalla spada, e quello spirituale simbo­leggiato dal pastorale; di conseguenza i due poteri, così uniti, non possono più esercita­re l’uno sull’altro un reciproco salutare controllo. Da tale situazione deriva evidente danno all’Impero, che rimane esautorato di ogni potere; ma danno non meno grave ne viene alla Chiesa, che si mondanizza e, perseguendo ambizioni terrene di potere, di­mentica la funzione spirituale che Dio le ha assegnato.
La salvezza delle due grandi istituzioni universali, Impero e Chiesa, e soprattutto la salvezza del mondo, poggia, nel pensiero dantesco, sulla autonomia reciproca del potere spirituale e del potere temporale: spetta all’Imperatore guidare gli uomini alla instaurazione della giustizia e della pace terrena; spetta al Papa guidarli alla salvezza spirituale. Queste conclusioni, esposte sistematicamente nella Monarchia, sono proposte con calda passione, e si traducono in poesia, in molti passi della Commedia. Ad esse si collega­no, nel poema, le violente invettive contro Bonifacio VIII, il papa politico per eccellen­za, invettive che culminano nel Paradiso con la condanna scagliata da San Pietro con­tro i prelati avidi di potere, lontani dal vero insegnamento di Cristo.

Il latino «lingua regina» e il volgare «sole nuovo» -Vissuto in un periodo in cui il latino continuava ad essere la lingua della cultura e degli studi ufficiali, mentre il vol­gare, la lingua emergente, si andava costruendo nell’uso quotidiano e nelle sperimenta­zioni poetiche, Dante è uno dei primi ad affrontare il problema della lingua italiana nella sua genesi e nelle sue implicazioni.
La lingua regina, egli dice con immagine tipica del suo tempo, è il latino, in quanto è lingua stabile, fissa, codificata nella grammatica e nella sintassi. Ma, con spirito proiet­tato verso il futuro, egli si rende conto che la nuova società, lontana ormai nel tempo e nello spirito da quella latina, con nuovi interessi, nuova sensibilità, nuovi problemi, esige, per esprimere se stessa, una nuova lingua che da lei e in lei si generi e si evolva: e questa non può essere che il volgare, definito nel Convivio «sole nuovo», destinato a prevalere sull’altro sole, il latino, che tramonterà.
Secondo Dante il volgare non deve essere solo la lingua degli affetti privati, la lingua - come dice nel Convivio - in cui suo padre e sua madre si sono conosciuti e parlati, e che perciò ha in qualche modo presieduto alla sua nascita; ma deve diventare l’aristocratico strumento espressivo, il «volgare illustre», comune a tutti i poeti italiani; e può essere anche la lingua della cultura e della scienza, quando cultura e scienza cessi­no di essere strumento elitario, di pochi, e diventino un bene diffuso ai molti. Per que­sta ragione, staccandosi dall’uso del suo tempo, egli scrive in volgare la sua «summa» di sapere, il Convivio.

Francesco Petrarca
La vita - Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 da famiglia fiorentina di parte Bian­ca, che era stata costretta all’esilio dopo il trionfo dei Neri nella città. Il padre, ser Petracco, nel 1312 lasciò l’Italia per Avignone, in Provenza, dal 1308 sede del papato, e che di conseguenza era diventata un centro ricco di attività e di traffici che offriva buone possibilità di lavoro; ser Petracco, infatti, divenne notaio presso la Corte papa­le.
Francesco, insieme col fratello Gherardo, dopo aver appreso i primi rudimenti di grammatica e di retorica con Convenevole da Prato a Carpentras, vicino ad Avignone, dove la famiglia si era stabilita, fu avviato allo studio del diritto a Montpellier, frequentando la facoltà delle arti che era un inizio di formazione per gli studenti di qualunque ambito; passò poi, nel 1320, all’Università di Bologna, università giuridica per eccellenza, dove convenivano discepoli da tutta Europa. Ma gli studi di diritto non erano congeniali a Petrarca, che ad essi preferiva quelli di letteratura e di poesia.
Petrarca fu allievo di Convenevole da Prato maestro di Niccolò da Prato, cardinale che aveva cercato di mettere pace tra guelfi bianchi e neri a Firenze; e in seguito compì gli studi universitari a Monpellier in Provenza.
Dal 1320 insieme a Gherardo, fu inviato a Bologna per studiare diritto civile: qui venne per la prima volta in contatto con la tradizione poetica italiana.
Tornato ad Avignone dopo la morte del padre (1326), vi trascorse alcuni anni di vita brillante e mondana.
Fu in questo periodo, nel 1327, che conobbe la donna che sarebbe stata l’amore tenace e irrealizzabile di tutta la sua vita e che avrebbe avuto tanta parte nella sua opera: una giovane signora avignonese che gli studiosi hanno creduto di poter identificare con una Laura de Noves, maritata a Ugo de Sade.
Intorno al 1330, consumato il modesto patrimonio paterno, Petrarca aveva intanto assunto gli ordini minori ecclesiastici, non per fervore religioso, ma, come spesso avveniva allo­ra, per ottenere una dignitosa sistemazione economica. Entrò al servizio del cardinale Giovanni Colonna che gli fu – come dice lo stesso Petrarca – quasi fratello e padre più che padrone, e si valse di lui per incari­chi congeniali alle sue attitudini e alla sua cultura.
Fra il 1333 e il 1337 compì, per studio e per diletto, una serie dì viaggi per l’Europa: nella Francia settentrionale, nelle Fiandre, in Germania e infine in Italia, dove Roma lo colpì col fascino delle sue tradizioni pagane e cristiane.
Ritornato in Provenza nel 1337, si ritirò a vivere in una casetta di campagna presso Avignone, in Valchiusa, una località appartata ed amena, proprio alle fonti del Sorga, il fiume dalle «chiare, fresche e dolci acque», che gli offriva, dopo le dispersioni mondane e dei viaggi, un soggiorno tranquillo, dove raccogliersi nei suoi amati studi.
Petrarca trascorse il periodo avignonese negli studi, senza peraltro trascurare i piaceri mondani; proprio da due relazioni avute nel 1337 e nel 1343 nacquero i figli Giovanni e Francesca, che legittimò solo in seguito, curandone la sistemazione economica e l'educazione.
Pensava di trascorrere in Valchiusa tutta la vita. Ma in realtà, irrequieto per temperamento, se ne allontanò più volte fra il 1341 e il 1353, anni in cui soggiornò alternativa­mente in Provenza e in Italia: appoggiato dalla illustre e potente famiglia romana dei Colonna (fu amico anche di Stefano e Giovanni Colonna), compì in quegli anni numerosi viaggi in Europa, spinto dall'irrequieto e risorgente desiderio di conoscenza umana e culturale che contrassegna l'intera sua agitata biografia: fu a Parigi, a Gand, a Liegi (dove scoprì due orazioni di Cicerone), ad Aquisgrana, a Colonia, a Lione.
Parallelamente alla formazione culturale classica e patristica, cresceva il suo prestigio in campo politico: nel 1335 ebbe inizio il suo carteggio con il Papa, inteso non solo a sedare alcune rivolte nella penisola, ma anche a ottenere il ritorno della sede pontificia da Avignone a Roma, affinché si mettesse fine alla cosiddetta cattività avignonese.
All'anno successivo risale il progetto delle opere umanisticamente più impegnate, la cui parziale stesura, dell'Africa in particolare, gli procurò tale notorietà che contemporaneamente (il 1º settembre 1340) gli giunse da Parigi e da Roma il desiderato invito dell'incoronazione poetica.
Petrarca scelse Roma, Petrarca scese in Italia a Napoli, presso la corte di Roberto d'Angiò: questi aveva ereditato nel 1309 il trono di Napoli dal padre Carlo II e subito, contrastando la venuta dell'imperatore Enrico VII, era diventato il leader del guelfismo italiano; colto e mecenate, aveva ospitato a corte Giovanni Boccaccio nei primi passi della sua carriera letteraria.
Petrarca lo conobbe all'inizio del 1341, quando dimorò circa un mese a Napoli per essere esaminato prima dell'incoronazione poetica; probabilmente l'incontro era stato organizzato da Dionigi da Borgo Sansepolcro. Sotto il patrocinio del re Roberto D'Angiò, lesse alcuni episodi del poema e discusse, in tre giornate, di poesia, dell'arte poetica e della laurea: l'8 aprile del 1341 veniva incoronato in Campidoglio a Roma: questo altissimo riconoscimento lo confortò a proseguire la stesura dell'Africa.
I ricordi delle conversazioni avute con il re prima dell'esame vero e proprio disegnano il prototipo del perfetto sovrano, saggio e virtuoso oltre che esperto politico, e tale è la raffigurazione di lui che ritorna costantemente nelle opere petrarchesche; dietro sua richiesta, inoltre, Petrarca gli dedicò l'Africa. Fece però in tempo a indirizzargli solo tre lettere, dato che Roberto morì poco dopo, all'inizio del 1343; in seguito alla sua scomparsa il regno precipitò in una profonda crisi, come Petrarca potè constatare quello stesso anno nel suo secondo e ultimo soggiorno napoletano e come raccontò allegoricamente nell'egloga II del Bucolicon carmen. In memoria del defunto compose anche un epitaffio laudativo.
Dopo l’incoronazione Petrarca fu  ospite di Azzo da Correggio a Parma fino al 1342.
Dall'autunno del 1344 al 1347 risiedette a Valchiusa, donde lo distolse l'entusiastica adesione alla rivolta di Cola di Rienzo: l’impresa di Cola, che sembrava riuscisse a restaurare in Roma l’antica grandezza repubblica­na. Petrarca si propose di appoggiare l’impresa con la sua autorità ed il suo consiglio, ma il viaggio verso Roma fu interrotto dalla notizia del fallimento del tentativo di Co­la.
Rinunciò al viaggio romano e si arrestò a Parma, dove lo raggiunse la notizia (19 maggio 1348) della morte di Laura, colpita dalla peste.
Lasciata Parma, Petrarca riprese a vagabondare per l'Italia: a Firenze rinnovò i legami di amicizia con Giovanni Boccaccio ed altri letterati toscani, e a Roma, fino al 1351, quando, rifiutata ogni altra offerta, rientrò (anche su pressione papale) in Provenza, dove scrisse le prime Epistole a Carlo IV di Boemia perché scendesse in Italia a sedare le rivolte cittadine.
Nel giugno del 1353, in seguito alle aspre e pungenti polemiche ingaggiate con l'ambiente ecclesiastico e culturale di Avignone, Petrarca lasciò definitivamente la Provenza ed accolse l'ospitale offerta di Giovanni Visconti, arcivescovo e signore della città, di risiedere a Milano alla corte viscontea.
Malgrado le critiche di amici e nemici, che gli rimproveravano la scelta di mettersi al servizio di un signore che avrebbe presumibilmente limitato la sua libertà, collaborò con missioni ed ambascerie (incontrò l'imperatore a Mantova e a Praga) all'intraprendente politica viscontea, cercando di indirizzarla verso la distensione e la pace.
Nel giugno del 1359 per sfuggire alla peste abbandonò Milano per Padova presso i Da Carrara.
Nel 1362 Petrarca si trasferì a Venezia, dove la Repubblica Veneta gli donò una casa in cambio della promessa di donazione, alla morte, della sua biblioteca, che era allora certamente la più grande biblioteca privata d'Europa, alla città lagunare. Si tratta della prima testimonianza di un progetto di "bibliotheca publica". Il tranquillo soggiorno veneziano, trascorso fra libri e amici, fu turbato nel 1367 dall'attacco maldestro e violento mosso alla cultura, all'opera e alla figura sua da quattro filosofi averroisti: amareggiato per l'indifferenza dei veneziani, andò via da Venezia.
Petrarca, dopo alcuni brevi viaggi, accolse l'invito di Francesco da Carrara e si stabilì a Padova.
Nel 1370, si trasferì con i suoi libri ad Arquà, un tranquillo paese sui colli Euganei, una località campestre che gli ricordava la rac­colta solitudine di Valchiusa, nel quale si era occupato – come sua abitudine – di far adattare e restaurare una modesta casa, generoso dono del signore padovano.
Trascorse gli ultimi anni ad Arquà e qui morì nel 1374.

Le opere - Numerose sono le opere di Petrarca, scritte parte in latino e parte in volgare. Le opere in latino si possono distinguere in opere di ispirazione classica e opere di ispirazione cristiana.
1. Fra quelle del primo gruppo la più importante è l’Africa, poema epico in 9 libri, in esametri, che ha per argomento la seconda guerra punica. Petrarca attinge la materia soprattutto dalle Storie di Livio e si propone come modello poetico l’Eneide di Virgilio. L’opera si incentra sulle gesta di Scipione l’Africano nella seconda guerra punica a Zama. I primi due libri raccontano i personaggi illustri della storia romana. Il terzo libro racconta del re di Numidia, alleato dei Romani. Il quarto libro è l’elogio di Scipione. Il quinto libro racconta del suicidio della moglie del re di Numidia. Il sesto libro racconta della morte di Magne, fratello di Annibale, dovuta alle tante ferite ricevute in battaglia. Il settimo e l’ottavo libro raccontano la battaglia di Zama. Il nono libro racconta il ritorno di Scipione in patria. L’Africa è un’opera di grande ambizione, dalla quale Petrarca si aspettava successo e gloria letteraria, ma che in realtà appare modesta di risultati. Manca al poeta la capacità di oggettivazione e di strutturazione richieste dal genere epico. E di tutta l’opera sono poeticamente vivi solo pochi passi di timbro lirico in cui, attraverso gli stati d’animo di alcuni personaggi, il poeta esprime la sua dolorosa coscienza della caducità dei valori terreni;
2. Fra le opere del secondo gruppo, quelle cioè di riflessione etico-religiosa, di gran lunga la più alta ed intensa è il Secretum, in tre libri. È un dialogo che il poeta immagina si svolga, per la durata di tre giorni e alla presenza della Verità, fra lui e Sant’Agostino, e che si risolve in un severo esame di coscienza del Poeta, in un sottile ed implacabile scandaglio che egli compie nella propria anima. Il primo libro racconta dell’incontro di Sant’Agostino con Francesco. Sant’Agostino racconta che Francesco è privo di forza di volontà. Il secondo libro Sant’Agostino racconta che Francesco è colpevole di tutti i peccati capitali, escludendo l’invidia e metà dell’avarizia. Il terzo libro racconta che Francesco a causa della mancanza di volontà non riesce ad abbandonare le cose terrene.
3. Parte a sé fra gli scritti latini di Petrarca occupa il suo vastissimo Epistolario,costituito dalle lettere che egli scrisse nel corso della vita, e che, per la massima parte, rielaborò, ordinò e pubblicò personalmente. Esse, pur attraverso il diaframma della riela­borazione letteraria, ci consentono di conoscere momenti e situazioni della vita del poe­ta, e soprattutto di penetrare nella sua inquieta e complessa psicologia. Alcune di que­ste lettere sono scritte in versi esametri (Epistolae metricae);
4. È scritto invece in volgare il capolavoro di Petrarca, il Canzoniere, raccolta di 366 componimenti poetici composti e rielaborati in un lungo arco di anni; vi prevalgono i sonetti (317), ma vi sono anche numerose canzoni, e poi sestine, ballate, madrigali. Per la massima parte sono componimenti dedicati a Laura, e costituiscono una specie di poetico romanzo amoroso, ma anche uno studio acuto dell’anima di Petrarca, vista nei turbamenti, nei dolori, nelle gioie della passione amorosa. Sono state divise dal poeta stesso in due gruppi: liriche scritte per Laura viva e liriche scritte dopo la morte di lei, che avvenne nella peste del 1348 (Rime in vita Rime in morte di Madonna Lau­ra). Accanto alle liriche per Laura ve ne sono poche altre di diverso argomento: le due canzoni di argomento politico Italia mia Spirto gentili alcune liriche religiose culminanti nella Canzone alla Vergine; e un gruppo di sonetti contro la corruzione della Curia avignonese;
5. Agli anni tardi appartiene l’altra opera in volgare, I Trionfi, poema allegorico sulla vanità e sulla caducità dei valori terreni, che raggiunge rari momenti di poesia solo là dove riaffiora il ricordo della bellezza di Laura e della sua morte serena. I trionfi sono sei visioni in terzina dantesca. Il trionfo dell’amore racconta l’amore per Laura. Il trionfo della pudicizia racconta che Laura, libera i prigionieri e torna in patria da eroina. Il trionfo della morte racconta che Laura, durante un viaggio, incontra la morte dove gli toglie un capello e muore. Il trionfo della fama racconta che Laura è seguita da tre cortei: quello dei cavalieri, dei filosofi, letterati. Il trionfo del tempo racconta che il tempo cancella le glorie del tempo. Il trionfo dell’eternità racconta che le glorie rimarranno solo a Dio.

Fra Medioevo e imminente Rinascimento: l’inquieta psicologia di Petrarca -Quando Dante moriva, Petrarca aveva diciassette anni. I due poeti vivono quindi in periodi sto­rici cronologicamente assai vicini; eppure essi esprimono due momenti di civiltà che vanno ormai diversificandosi, e in gran parte si sono già diversificati. Dante accetta senza incertezze la gerarchia medioevale dei valori che mette Dio e la vita eterna al vertice delle aspirazioni umane. Petrarca dà voce, spesso dolente, alla crisi di passaggio fra il Medioevo e il Rinascimento, età quest’ulti­ma che pone in primo piano i valori terreni e mondani. Egli infatti è medievalmente convinto che la vita che conta è quella eterna, che Dio è la meta cui l’uomo deve ten­dere; e invidia coloro – come suo fratello che si è fatto monaco – che sanno comportarsi coerentemente con questi principi. Ma egli sente in modo altrettanto intenso l’attrazione per i valori mondani, la fama, il successo e soprattutto l’amore: al loro richia­mo non sa sottrarsi, e nello stesso tempo li giudica fuorvianti, e ne prova rimorso e senso di colpa. L’oscillazione fra terra e cielo, poli dell’inquieto spirito petrarchesco, costituisce un motivo ricorrente nella sua vita e nella sua opera.
In una delle più belle fra le Epistole, in cui descrive la scalata sua e del fratello su un monte della Provenza, il Ventoso, con acutezza egli si definisce uomo dall’anima ambi­valente (uterque homo). Nel diverso modo con cui i due giovani affrontano la salita, egli simbolicamente traduce il loro diverso modo di affrontare la vita e di muovere ver­so il suo fine, che è Dio e la virtù: Gherardo punta diritto alla cima e vi giunge rapida­mente e con sicurezza, Francesco si disperde nelle vallette laterali (cioè simbolicamente si lascia attrarre dalle seduzioni mondane), nella vana speranza di trovare una strada meno ripida per salire; così che quando alla fine anch’egli giunge in vetta, vi giunge ben più stanco e in ritardo.
Analogamente, in quel capolavoro di penetrazione psicolo­gica che è il Secretum, egli individua come male essenziale della sua anima la indecisa perplessità fra il richiamo del mondo e quello di Dio. Dopo aver ostinatamente resistito alle accuse mossegli da Sant’Agostino (cioè dalla sua coscienza), circa la sua debolezza di volontà, e circa l’ansia e l’attrazione per i valori terreni, alla fine, lasciatosi faticosa­mente convincere, promette che cambierà vita. Si rende conto che dovrebbe farlo subi­to, ma troppo forte è il richiamo delle passioni mondane, delle «faccende profane», perché ciò sia possibile. Così cambierà, ma più tardi: «Accoglierò, risponde al Santo, gli sparsi frammenti dell’anima mia e diligentemente vigilerò su di me. Ma ora, mentre parliamo, mi attendono molte e grandi faccende, per quanto profane»; e ricade così, come conclude Agostino, «nell’antica contesa».

Dalla Beatrice dantesca alla Laura petrarchesca – Questa ambivalenza psicologica diventa poesia nel Canzoniere. Se Beatrice, in Dante, era figura fisicamente evanescente, angelo in terra, guida dell’uomo a Dio, tanto che senza frizione poteva nella Divina Commedia tradursi in simbolo della teologia e della Grazia, Laura è invece una creatu­ra terrena. L’altezza del suo spirito, l’onestà, la pudicizia che regolano la sua vita e che le impediscono di corrispondere all’amore del poeta, si accompagnano in lei a una splendente bellezza fisica per la quale, oltre che per le sue virtù, il poeta la desidera e l’ama. Tutto il Canzoniere è illuminato da questa bellezza: «i capei d’oro» la «bella mano», il «bel fianco». Una bellezza cui fa da sfondo la natura della Provenza, medi­terranea, solare, fra prati e acque.
Ma la felicità dell’amore è contrastata nell’intimo del poeta da un incancellabile e ricorrente senso di colpa, dalla coscienza che questa passione terrena lo allontana da Dio. È uno stato d’animo doloroso, da cui nascono alcuni dei componimenti più inten­si della raccolta.

Cultura cristiana e cultura classica di Petrarca – La bivalenza psicologica di Petrarca si riflette nelle sue scelte culturali. Egli è buon conoscitore dei Testi sacri, specie di quelli dei Padri della Chiesa.
Lo scrittore della sua vita, il punto di riferimento etico nelle sue incertezze e nei suoi turbamenti, non è però lo «scolastico» San Tommaso, il santo dalle grandi certezze caro a Dante e a tutto il Medioevo, ma Sant’Agostino, il Padre della Chiesa che è giunto a Dio salvandosi dalle passioni terrene, e che ha saputo risolvere in sé, attraverso la sofferenza, quel contrasto fra Terra e Cielo che rimane la fondamentale irrisolta contraddizione del Poeta.
Ma Petrarca ama allo stesso modo gli scrittori classici: Cicerone, Virgilio, Livio, Orazio, di cui apprezza tanto il valore artistico che la saggezza morale. Nei suoi viaggi per l’Europa cerca ostinatamente testi di autori classici andati perduti durante il Medioevo; confronta fra loro, precorrendo un lavoro che sarà tipico degli Umanisti, i vari mano­scritti di una stessa opera per rimediare alle mutilazioni e agli errori che ne hanno alte­rata la lezione.
Ma ciò che caratterizza in senso preumanistico il rapporto di Petrarca coi classici e che lo stacca dal Medioevo, è il fatto che egli non subordina il loro mes­saggio alla visione cristiana del mondo, ma vuole invece recuperarlo nella sua autenti­cità e integrità.

Il pensiero politico di Petrarca – Petrarca vive in un periodo in cui al declino delle vecchie istituzioni (Chiesa e Impero) si andava aggiungendo la crisi della prima società borghese: il Comune, che stava per essere sostituito dalle Signorie, in cui il potere era detenuto da singole famiglie o da oligarchie. Petrarca accetta la fine dell'istituzione comunale e lo sviluppo delle Signorie, ma in questo senso: egli vorrebbe che le Signorie, liberatesi dall'ingerenza dell'Impero e della Chiesa, si alleassero tra loro per restaurare la Repubblica della Roma antica, vista non come culla dell'Impero e della Chiesa, ma in sé e per sé, cioè come civiltà ricca di virtù, di eroismo, di forza morale – una civiltà alternativa a quella medievale.
a)      Dall’Impero e dal Comune all’Italia – Nonostante la breve differenza di anni che lo separa da Dante, gli ideali politici di Petrarca sono assai diversi da quelli danteschi. Egli non vede più alcuno strumento di salvezza nell’Impero, che del resto si andava sempre più esautorando; né ha interesse per il Comune, nella cui struttura non è mai vissuto; e comunque i Comuni in Italia venivano via via scomparendo per lasciar posto alle Signorie.
L’interesse politico di Petrarca si polarizza invece sull’Italia, che non considera più, come Dante, provincia dell’Impero, e neppure ancora come nazione, ma come entità politica che può raggiungere autonomia ed unità mediante l’accordo fra le varie Signo­rie che in essa si sono costituite e che tendono a dar vita a stati regionali. È questa la speranza che anima la Canzone all’Italia, una delle due liriche politiche del Canzoniere, in cui il poeta esorta, in nome dell’Italia madre comune, i Signori italiani a deporre gli odi e a cessare le lotte fratricide, così che possa fra loro stabilirsi un legame di solidarietà che porti la pace nella penisola.
b)      «Virtù contro furore» – L’unità italiana ha il suo cemento, oltre che nell’interesse comune dei Signori italiani, nella comune tradizione romana. L’ammirazione di Petrarca peraltro non va più, come quella dantesca, all’antica Roma imperiale, ma alla Roma repubblicana degli Scipioni e dei Bruti, quella che Cola Di Renzo aveva tentato di far risorgere.
La tradizione romana si identifica con la civiltà e il poeta la contrappone orgogliosamente al germanesimo, che è barbarie. Questa opposizione è uno dei temi fondamentali della Canzone all’Italia sopra ricordata. La capacità militare romana vi è definita virtù, cioè valore disciplinato e consapevole, quella germanica è furia selvaggia, furore. Le terre germaniche sono deserti strani, quelle italiane dolci campi.
Di qui l’accusa rivolta ai Signori d’Italia di avvalersi per le loro guerre di milizie mercenarie, che, arruolate prevalentemente in Germania, non solo consentono il permanere di uno stato di guer­ra, e della guerra fanno un mestiere, ma portano la barbarie germanica nel nostro Paese, e sono come un diluvio che devasta le nostre terre feconde.

Storia della novella: il Medioevo – La novella, come genere autonomo si affermò nel Medioevo dapprima con i fabliaux, novelle in versi a carattere satirico e popolaresco fiorite in Francia alla fine del XII secolo.
Successivamente si diffuse l’exemplumbrevissimo racconto usato dai predicatori a fine didascalico per spiegare i principi morali alla gente e per guidare, attraverso il diletto della storia narrata, verso una verità religiosa e un comportamento morale.
L’exemplum presenta una vicenda che deve servire da modello e da ammonimento per tutti ed è espressione di valori considerati immobili, assoluti e quindi eternamente va­lidi. C’erano poi i racconti riguardanti le vite dei santi e i loro miracoli.
Si diffusero infine i racconti orientaliprovenienti dalla favolosa Persia, dall’Egitto e dall’India, come il Libro dei sette savi, un’opera indiana tradotta durante il Medioevo prima in francese e poi in italiano.
Di queste opere l’esempio più famoso è la raccolta di novelle Le mille e una notte, una raccolta di origi­ne araba risalente al IX-X secolo. In essa si ritrovano perso­naggi storici come il potente Califfo di Baghdad, Hamn-al-Rashid, leggendari, come Sindbad il marinaio o come il giovane Aladino con la sua lampada magica. Storie di magia e d’avventura, di furbizia e di coraggio, inserite in una storia principale, la storia-cornice della principessa Sheherazade, l’affascinante narratrice di storie esotiche e favolose.
La novella appare nella letteratura italiana intorno al XIII secolo. Alle spalle di questo nuovo modello letterario c’erano la grande tradizione antica (si pensi, ad esempio, a scrittori come Petronio o Apuleio) e le varie forme della narrativa medievale, sia occidentale sia orien­tale, una narrativa nata essenzialmente come tradizione orale e poi gradualmente affidata alla scrittura.
Alla fine del Duecento, fu compilato il Novellinola prima raccolta orga­nica di racconti della letteratura italiana. In questa raccolta il ter­mine novella, pur continuando ad indicare essenzialmente una narrazione orale, comincia ad acquisire anche un significa­to e uno spessore letterario. Come suggerisce il nome stesso, la raccolta punta al nuovo, all’insolito, al sorprendente, a ciò che è irripetibile e relativo, piuttosto che esemplare e as­soluto. Essa non si prefigge dunque scopi morali, ma vuole divertire e distrarre il lettore, celebra valori umani e terreni, colloca fatti e personaggi in una concreta dimensione spazio-temporale.

Giovanni Boccaccio – La novella raggiunse la forma più perfetta con il Decameron di Boccaccio.
Il Decameron è una raccolta di cento novelle sono racchiuse in una cornice [[23]] che le giustifica e le ordina, organizzandole intorno a un filo conduttore.
Il Decameron costituì per molto tempo, a partire dai Racconti di Canterbury di Chaucer, il modello della narrazione breve con caratteristiche diverse da tutte le altre forme narrative medievali.

La vita – Boccaccio nacque fuori dal matrimonio a Certaldo, vicino a Firenze, nel 1313.
Si ipotizza che sua madre fosse una donna di bassa estrazione sociale mentre suo padre Boccaccio di Chellino era un mercante prima agente e poi socio della potente compagnia bancaria dei Bardi.
Nel 1327, subito dopo i primi studi, il padre avviò il figlio alla mercatura e lo portò con sé a far pratica a Napoli, presso una Casa di commercio: la compagnia fiorentina dei Bardi, insieme ai Peruzzi e agli Acciaiuoli, deteneva il monopolio delle imprese finanziarie del Regno di Roberto d'Angiò. Qui Giovanni collabora all'attività paterna e impara a conoscere direttamente i vari strati sociali, ma l’attività mercantile non gli era congeniale. Fu allora indirizzato dal padre, deciso com’era a trovargli comunque una professione lucrosa, verso l’università dove seguì per due anni le lezioni di Cino da Pistoia (1330-31) ma nemmeno gli studi di diritto canonico gli piacquero li seguì di malavoglia e non li portò a termine.
Iniziò così a dedicarsi alla lettura e alla conoscenza della tradizione lirica volgare.
Nel fastoso e colto ambiente napoletano, che aveva il suo centro nella ricca e raffinata corte di re Roberto d’Angiò, Boccaccio visse l’esistenza brillante e mondana della società aristocratica e altoborghese che aveva preso a frequentare, fra feste e ritrovi che si svolgevano in città e negli ameni dintorni.
La sua formazione intellettuale e umana si compì dunque nel più importante centro culturale italiano: lo Studio  napoletano – la prestigiosa Università fondata da Federico II – la ricchissima biblioteca reale e la stessa raffinata corte angioina si configurano come punto d'incontro tra la cultura italo-francese e quella arabo-bizantina, attirando da ogni parte poeti, letterati, eruditi, scienziati e anche artisti come Giotto, che in quegli anni stava lavorando agli affreschi del Castel Nuovo.
La Napoli di Roberto d'Angiò (1278 – 1343) era una città in piena espansione. Dalla morte dell'austero Carlo II (1308), il processo di rivitalizzazione della città e del Regno si era consolidato.
Con l'ascesa al trono di Roberto il saggio, alla fioritura urbanistica si affiancò la vivacità commerciale – con la presenza di fiorentini, francesi, catalani – e politica, accreditandosi Roberto come il capo di fatto del guelfismo italiano. Sul piano culturale, lo Studio e la corte erano prestigiosi punti di riferimento per intellettuali di rilievo anche se forse di taglio ancora medievale, come Paolo da Perugia, bibliotecario di corte, o Andalò dal Negro, astrologo e geografo, entrambi mentori del giovane Boccaccio. A Napoli il re accolse Petrarca, venuto per l'incoronazione: il valore che assumeva la nuova cultura incarnata nel giovane, ma già autorevole Petrarca, gli era ben chiaro, ed egli fu felice di acconsentire ai suggerimenti del padre Dionigi da Borgo Sansepolcro, chiamato a Napoli dal re Roberto d'Angiò presso la sua corte nel 1338, quando questi gli propose di presiedere alla cerimonia. Petrarca si sentì onorato dell'amicizia di Roberto e ripose in lui, finché visse, molte delle sue speranze politiche, contribuendo a creare l'immagine del «buon re cicilian che ‘n alto intese», con cui il sovrano angioino è passato alla storia.
In questa Napoli in cui Boccaccio aveva avuto la possibilità di formarsi un’ampia seppur disordinata cultura nelle arti liberali e in cui aveva conosciuto Cino da Pistoia, il grande epigono dello stilnovismo, professore di diritto nello Studio napoletano dal 1330 al 1331, Sennuccio del Bene, ma soprattutto l'amico di Petrarca, padre Dionigi da Borgo San Sepolcro, col quale strinse amicizia. Quest’ultimo divenne per il giovane Boccaccio una sorta di guida intellettuale e da lui imparò ad amare e a stimare Petrarca che tanto prometteva con le sue opere latine. Dionigi da Borgo San Sepolcro e il notaio regio Barbato da Sulmona influenzarono la sua vita indirizzando verso l'Umanesimo i suoi studi, già condotti nella conoscenza del greco col monaco calabrese Barlaam e poi approfonditi, dopo il ritorno a Firenze, sotto la guida dell'altro calabrese Leonzio Pilato, lettore in quello Studio e primo traduttore di Omero in latino.
Nel contempo, Boccaccio chiariva a se stesso la sua autentica vocazione, che era quella letteraria e poetica e che si rivelò presto prepotente ed esclusiva. In un’opera della tarda maturità così egli scrive di sé: «Ma di qua­lunque attitudine abbia dotato gli altri la natura, me fin dall’alvo materno, per quel che mi attesta l’esperienza, ha disposto alle poetiche meditazioni, e, a mio giudizio, so­no nato per questo».
Si formò in questi anni, con iniziativa di intelligente autodidatta, una vasta cultura che spaziava dalla letteratura classica a quelle romanze, italiana e francese e di esse andava alimentando, già da questi anni, la sua opera in versi e in prosa.
Napoli con il suo vivace mondo culturale, con l'aristocratica, elegante e gaia società della sua corte, con gli svaghi, i diletti di questi anni spensierati e felici fu anche il luogo di una sua importante esperienza amorosa: qui conobbe e amò Fiammetta, nome sotto il quale si celava probabilmente quello di una dama della corte, da alcuni studiosi identificata con una Maria dei conti d’Aquino, figlia illegittima del re Roberto d'Angiò. Fu un amore infelice per l’incostanza e l’infedeltà della donna, ma che lasciò traccia nella vita e nell’opera di Boccaccio: dal nome di lei prende il titolo uno dei suoi scritti romanze­schi in prosa, la Fiammetta, e Fiammetta sarà da lui chiamata una delle giovani narratrici del Decameron.
I dodici anni napoletani rappresentarono per Boccaccio il periodo più fertile e vivo della sua esistenza e ad esso, per il resto della vita, andò costantemente il suo ricordo e la sua nostalgia: sono questi gli anni delle Rime, della Caccia di Diana, del Filostrato, del Filocolo, del Teseida (terminato poi a Firenze).
A seguito del fallimento della banca dei Bardi, che diede un grave colpo agli interessi del padre, nel 1340 Boccaccio dovette lasciare Napoli.
Tornò così a Firenze. Dopo gli splendori napoletani, la casa paterna e la vita chiusa della città apparvero al giovane intollerabilmente squallide e tristi.
Nell’Ameto, un poema scritto dopo il suo ritorno, egli contrappone la vita di Napoli, caratterizzata da «beltà, gentilezza, valore, leggiadri motti», allietata da «delizie mondane», all’uggiosa serietà della sua casa fiorentina:
«Lì non si ride mai, se non di rado;
la casa oscura e muta e molto trista
me ritiene e riceve, mal mio grado.»
Per alcuni anni cercò in ogni modo di evadere dalla città: trascorse un periodo a Ra­venna presso i Polentani, un altro a Forlì presso gli Ordelaffi.
Era invece a Firenze nel 1348, quando vi scoppiò la terribile peste che devastò buona parte dell’Europa e che avrebbe offerto lo spunto alla sua opera maggiore, il Decameron.
Negli anni successivi, stimato per la fama e l’ingegno dai suoi concittadini, ebbe dal Comune incarichi pub­blici che lo portarono come ambasciatore presso diverse corti italiane ed europee.
Nel 1350 e si legò a Petrarca di un’amicizia fatta di affet­to e di devozione, oltre che alimentata da comunanza di interessi culturali, amicizia che durò fino alla morte di Petrarca. Già negli anni ’40, Boccaccio aveva composto un De vita et moribus Francisci Petracchi, elogio della laurea poetica di Petrarca, cui aveva assistito nei suoi ultimi mesi di permanenza a Napoli: Boccaccio, intuendo la novità della proposta culturale di Petrarca, cominciò a raccogliere le sue opere, talché già negli anni Quaranta possedeva già una cospicua antologia petrarchesca. Questo rapporto di amicizia, oltre ad arricchirlo spiritualmente proponendogli nuovi interessi etici e culturali, lo aiutò a superare la grave crisi religiosa che lo colse nel ‘62, a seguito della visita di un frate che gli preannunciava prossima la morte e gli minac­ciava la dannazione eterna se non avesse abbandonato gli studi profani.
L’intervento equilibrato ed equilibratore di Petrarca lo dissuase dal bruciare le sue opere «mondane», ivi compreso il Decameron, che era la più libera e spregiudicata, e perciò moralmente la più condannata dalla sensibilità del tempo.
Peraltro, già prima della crisi del ‘62, Boccaccio si era dato a studi eruditi, che costituirono l’occupazione degli ultimi vent’anni della sua esistenza.
Nel 1362, e poi ancora nel 1370, si recò a Napoli nella speranza di trovarvi una decorosa sistemazione, ma entrambe le volte tornò a Certaldo deluso e amareggiato.
Nel 1373 ricevette l'incarico da parte del Comune di Firenze di commentare pubblicamente la Commedia di Dante nella chiesa di Santo Stefano di Badia, ma dopo pochi mesi, essendo sofferente di idropisia, fu costretto a rinunciare alle sue pubbliche letture, interrompendole al canto XVII dell'Inferno
Morì a Certaldo, dove si era ritirato, nel 1375.

Le opere - La vasta produzione di Boccaccio si può dividere secondo tre periodi:
le opere giovanili o della sua formazione;
il capolavoro della maturità, il Decameron
le opere erudite dell’ultimo ventennio.
Delle opere del primo gruppo, alcune furono composte nel periodo napoletano, altre dopo il ritorno di Boccaccio a Firenze; esse sono di ispirazione più o meno direttamente autobiografica, e comprendono poemetti in versi e romanzi in prosa, per i cui temi lo scrittore attinge ora al mondo classico, ora alla narrativa romanza, ora alle tradizioni popolari. Tema comune a tutte, e in tutte emergente, è l’amore.
·         La prima opera fu La caccia di Diana: l’opera racconta che le ninfe andarono a caccia con Diana e al loro ritorno tradirono la dea, donando tutta la selvaggina a Venere.
·         La prima opera in prosa di Boccaccio fu il Filocolo: l’opera racconta che Florio, un principe di origine pagana incontra Biancofiore, una fanciulla di origine cristiana e se ne innamora; il padre di Florio scopre questo amore tra i due e vende la ragazza. Florio raggiunge Biancofiore, ma i due sono scoperti e condannati al rogo. Il romanzo termina con il matrimonio dei due amanti e con la conversione di Florio al Cristianesimo.
·         Un’altra opera è il Filostrato in cui racconta l’amore di Troilo figlio di Priamo, per Criseide; Criseide, una volta riscattata, lascia Troilo, che, disperato, cerca la morte in guerra, affrontando Achille.
·         Il Teseida racconta di due amici Arcita e Palemone che si innamorano di Emilia; i due decidono di sfidarsi a duello ed il vincitore sposerà Emilia. Arcita vince il duello ma, caduto da cavallo, muore; prima di morire, però, dice ad Emilia di sposare il suo amico.
·         Un’opera di cinque capitoli in terza rima è l’Amorosa Visione. L’opera racconta che il poeta immagina Cupido che gli invia una donna per intraprendere una vita di virtù.
·         Fra queste opere, due si staccano da una mediocre piattezza: il romanzo la Fiammetta Elegia di madonna Fiammetta,significativo per l’acuta analisi degli effetti prodotti sull’anima dalla passione amorosa. Quest’opera è un passaggio molto importante della produzione letteratura di Boccaccio perché il personaggio principale diventa donna. L’opera racconta di Fiammetta che si innamora di un ragazzo fiorentino che è richiamato dal padre a Firenze. Boccaccio spiega tutta la sua delusione nei confronti di questo ragazzo a causa del suo fidanzamento con un’altra ragazza.
·         L’altra opera di rilievo è il Ninfale fiesolano, poemetto in ottave, nel quale una leggenda mitologica sull’origine di Firenze si trasforma in una calda e realistica storia d’amore. L’opera racconta che il pastore Africo s’innamora della ninfa Mensola. I due amanti vengono scoperti da Diana e Africo viene trasformato in un fiume. In seguito alla trasformazione di Africo, Mensola partorisce un bimbo e ciò per Diana è un oltraggio; anche Mensola viene trasformata in un fiume. Questi due fiumi si trovano a Firenze.
·         Il Ninfale d’Ameto racconta di un pastore, Ameto che si innamora della ninfa Lia. Il pastore per incontrare Venere è purificato dalle ninfe, questa purificazione porta l’uomo dall’animalità bruta all’affetto e all’amore. Tutte le opere di questo periodo, a prescindere dal loro valore artistico, sono interessanti in quanto consentono di seguire la formazione e la maturazione di Boccaccio che, attraverso di esse, saggia argomenti e tecniche letterarie diverse, preparandosi alla ricchezza tematica e tonale del Decameron.
·         Al Decameron, Boccaccio lavora a Firenze soprattutto negli anni 1349-51. 
Il Decameron è una raccolta di 100 no­velle narrate nell’arco di dieci giornate (il titolo significa appunto, dal greco, [il libro] «dei dieci giorni»). Esse non si susseguono l’una all’altra, giustapposte senza collegamento, ma sono collocate, secondo il gusto medioevale, in una struttura che fa loro da cornice.
L’opera prende l’avvio dalla descrizione della terribile peste scoppiata in Firenze, come in tanta parte d’Europa, nel 1348. La rappresentazione della città, devastata dal morbo, occupa le prime pagine dell’opera. Con animo commosso e turbato Boccaccio descrive la gravità della malattia, i pericoli del conta­gio, le morti. E, passando dall’analisi esterna a quella delle condizioni psicologiche in quel terribile frangente, si sofferma sulle conseguenze devastanti di ordine affettivo e morale. Per timore del contagio vengono meno i tradizionali legami di amicizia e di affetto: gli amici sfuggono gli amici ammalati e li abbandonano al loro destino; persino padri, madri, figli, sposi, nella malattia, rifiutano di aiutarsi fra loro; «l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile) i padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano».
Boccaccio immagina che un mat­tino, durante l’imperversare del contagio, in S. Maria Novella si incontri una brigata di sette giovani donne «savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forme e di leggiadra onestà» e di tre giovani uomini, «assai piacevole e costumato ciascuno», innamorati di tre di loro e parenti delle altre, i quali, per sfuggire a tanta dissoluzione e disperazione, decidono di abbandonare insieme la città appestata e di recarsi nel vicino contado.
Lontano da Firenze e dalla desolazione della pestilenza, i gio­vani trascorrono le giornate in una bella villa, sulle colline intorno a Firenze; nella serenità della quiete campestre, la gentile brigata ricrea quel vivere nobile e cortese, quell’ordine civile e pieno di decoro, che il flagello della peste ha distrutto nella vicina città, vivendo all’insegna della gioia, della serenità e della cortesia. Nel pomeriggio, mentre la nobile compagnia sta seduta in un bellissimo prato, a turno ciascuno narra una novella; all’imbrunire i giovani danzano e cantano una ballata.
Nei quindici giorni vengono narra­te cento novelle, dieci al giorno, poiché il venerdì e il sabato, giornate dedicate alla preghiera e alle pra­tiche religiose, viene sospesa la narrazione. Ogni giorno viene eletto fra i giovani un «re» o una «regina» che (ad eccezione del primo e del decimo giorno) stabilisca il tema generale della giornata: la fortuna, l’amore, l’inge­gno, ecc.; tema al quale, con libera inventiva, dovranno adeguarsi i narratori. Uno dei giovani, Dioneo, il più divertente e spregiudicato, a cui viene concesso il «privilegio» di raccontare sempre per ultimo e di scegliere a suo piacimento il tema della novella. In tal modo Boccaccio evita il rischio di un meccanismo trop­po rigido e fa sì che anche le giornate nelle quali è stato fissato un tema triste (per esempio, storie di amori infelici) si concludano con una novella a lie­to fine.
La cornice come legame fra le varie parti di un’opera è una strategia stilistica già in uso nelle opere del passato: Boccaccio conosceva Le Mille e una notte.
Nel Decameron la cornice non è semplice accostamento delle novelle, è una struttura architettonica che conferisce unità all’opera. Alle Mille e una notte il Decameron si ricollega anche per la circostanza della narrazio­ne in una situazione di pericolo: in entrambi i casi, infatti, il racconto è usato, sia pure in modo diverso, per esorcizzare la morte.
A differenza delle precedenti raccolte in cui l’elemento unificatore era completamente fantastico, la cornice del Decameron fa riferimento a un avvenimento tragi­co e reale della storia contemporanea, la peste, che coinvolge sia i narratori, e quindi il piano della fin­zione letteraria, sia i lettori. Essa inoltre non ha so­lo la funzione di giustificare la narrazione e di con­ferire ordine alle novelle, ma si arricchisce di un suo significato autonomo. Racchiude e sintetizza, infatti, due poli, quello della morte, simboleggiata dalla peste e dalle sue conseguenze morali e socia­li, e quello della vita, rappresentata dai giovani del­la lieta brigata e dalla loro esistenza vissuta all’in­segna dell’equilibrio, della cortesia, della misura, del benessere fisico e psicologico.
La cornice è l’immagine del disegno coerente ed equilibrato della vita, in cui ogni evento fuggevole e momentaneo si inserisce e trova un senso e una valida giustificazione. In questa struttura nar­rativa messa a punto da Boccaccio è possibile all’autore conciliare varietà e unità: la varietà delle novelle e il loro costituirsi in gruppi unitari. Quell’unità formale, esterna, che si affianca a quella interna, più profonda, costituita dalla comune visione della vita e del mondo che governa tutta l’opera, si raggiunge attraverso una struttura com­plessa che prevede infatti un narratore di primo grado, Boccaccio stesso, che racconta la storia-cor­nice, entro la quale dieci narratori di secondo grado raccontano le cento novelle del Decameron.
Sul piano tematico sono presenti nell’opera due nuclei essenziali di ispirazione: da una parte un mondo cavalleresco ormai al tramonto, dall’altra una società borghese e cittadina. Boccaccio guar­da con un atteggiamento di nostalgia e di rimpian­to al mondo aristocratico e cavalleresco del passa­to, tanto che le novelle che ne celebrano gli ideali sono poste a conclusione della raccolta e sembra­no costituire una sorta di Paradiso laico che si contrappone all’Inferno della prima giornata nella quale sono raffigurati i vizi della società del tempo: l’avarizia e la viltà dei grandi signori, la corruzione del clero, la spregiudicatezza morale dei borghesi.
1)      La «Commedia umana» di Boccaccio — Il Decameron è stato definito «commedia umana» in contrapposizione a quella «divina» dantesca, perché in esso si muove, in­contrastato protagonista, l’uomo terreno. Non solo è ormai venuta meno la tensione verso Dio che aveva caratterizzato il mondo di Dante, ma neppure vi è più traccia di quel doloroso dualismo fra aspirazioni religiose e passioni umane che dominava l’opera di Petrarca. Nelle novelle del Decameron pullula la vita di questo mondo, libera da limitazioni e condizionamenti morali e religiosi; di qui il gioioso vitalismo che la percor­re. Tutta la realtà, in quanto esiste, è per Boccaccio degna di interesse e dell’attenzio­ne dell’artista. Se mai esiste una scala di valori, essa vede ai primi posti non i valori che portano a una salvezza eterna, ormai estranea all’interesse dei personaggi, ma quel­li che consentono all’uomo di affermarsi su questa terra.
2)      I temi fondamentali del Decameron: la fortuna l’amore e l’intelligenza — Fra i molti aspetti della vita rappresentati nel Decameron quelli fondamentali sono la fortuna, l’amore e l’intelligenza.
La Fortuna – intesa come intervento casuale della sorte – si manifesta sia come forza della natura, sia come azione umana, sia come intervento della collettività. Si tratta, comunque, di intrusioni che ora ostacolano, ora favoriscono le azioni dei protagonisti. L’uomo rivela la sua intelligenza quanto più sa pie­gare la Fortuna ai suoi scopi, in qualunque modo essa si presenti, ostile (oggi diremmo sfortuna) o amica.
L’amore, che Boccaccio considera una delle maggiori forze che muovono l’esistenza, è rappresentato nella vasta gamma delle sue manifestazioni: l’amore sensuale, a volte grossolano, ma mai morboso, l’amore disinteressato e cavalleresco, l’amore fedele e virtuoso, l’amore come fonte di eroismo materiale e spirituale, o come forza esclusiva e sconvolgente che può anche portare alla follia.
L’intelligenza è lo strumento per cui l’uomo si afferma sulla terra, e comporta accorgi­mento, abilità, scaltrezza, spregiudicatezza. Dante collocava nell’Inferno coloro che avevano usato l’intelligenza, dono divino, a scopi moralmente iniqui. Boccaccio guarda con interesse divertito e con sostanziale ammirazione chi riesce, con l’uso anche spregiudicato e cinico dell’intelligenza, a risolvere situazioni difficili, a togliersi d’impaccio. Caso tipico in questo senso è Ser Ciappelletto della novella omonima, che in punto di morte non esita a fare una abilissima e blasfema confessione, quasi a sfida giocosa al Cielo, per salvare una situazione pratica. E ricor­diamo il giudeo che con la sua acuta risposta si sottrae alle insidie del Saladino (Novella delle tre anelta); e Chichibio cuoco che con un’inaspettata e azzeccata battuta smonta l’ira del padrone. Spesso l’intelligenza prende luce, per contrasto, dal suo contrario, la stoltezza: e intelligenza e stoltezza sono messe a confronto in molte felicissime novelle di beffa, co­me quella di Calandrino e l’elitropia.
3)      Molteplicità di situazioni e di personaggi — La rappresentazione boccacciana della vita si concreta in innumerevoli situazioni e in una ricca serie di personaggi. Sono introdotti nelle novelle uomini di paesi diversi, dall’Oriente all’Occidente, e di tutte le classi so­ciali: aristocratici e plebei, uomini di cultura e uomini di Chiesa. Ma soprattutto vi campeggiano i rappresentanti di quella borghesia mercantile italiana, operosa e avventurosa, ricca di esperienze e di denaro, che era la classe ascendente e il nerbo della so­cietà al tempo del Boccaccio, e che Boccaccio, figlio di mercanti e per qualche tempo mercante egli stesso, conosceva e ammirava.
La psicologia dei personaggi rappresentati è sempre ricca e articolata, esente da unilateralità e da schematismo; la loro caratteristica preminente non soffoca gli altri aspetti del loro carattere. Perfino le figure dalla natura più elementare, gli stolti, sono articolatamente ritratti: la stoltezza, che è limite intellettuale, coinvolge carenze morali e psicologiche e se ne alimenta. Nella stoltezza di Calandrino, ad esempio, concorrono l’avarizia, l’egoismo, la ghiottoneria, la prepotenza manesca con chi è più debole; e non gli manca neppure una certa dose di disonestà.
4)      Il concreto realismo degli ambienti — I personaggi del Decameron si muovono sullo sfondo di ambienti che non hanno mai nulla di vago e di gratuito, ma sono realisticamente definiti e concreti. Particolarmente ricchi di evidenza sono quelli personalmente noti a Boccaccio: le vie, le chiese, le piazze, la periferia e il contado di Firenze; e le in­quadrature napoletane, che spaziano dal ricco mercato della città, frequentato da mer­canti provenienti da tutta Italia, ma anche da imbroglioni, manigoldi, prostitute, alle vie strette e pericolose della Napoli malfamata, alla splendida opulenza della sua catte­drale.
Accanto agli ambienti esterni sono numerosi anche gli spaccati di interni: la casa patri­zia, fastosamente apparecchiata per il banchetto, di Currado Gianfigliazzi, e la cucina fragrante di odore di arrosto (novella di Chichibio); l’appartamento dal fasto equivoco della «bella Ciciliana» (novella di Andreuccio da Perugia); la povera casa dì Calandri­no con dentro la moglie battuta e in pianto, e il gran mucchio di pietre (novella di Ca­landrino e l’elitropia).
5)      La borghesia vera protagonista del Decameron – La vera protagonista dell’opera è la borghe­sia rappresentata nei suoi diversi livelli e nei suoi aspetti positivi e negativi. La realtà umana e natu­rale descritta nel Decameron appare come il cam­po di tensione e di scontro di due forze antagonistiche: la fortuna e l’ingegno. La prima si identifi­ca con il caso capriccioso e imprevedibile, che pre­dispone circostanze favorevoli e sfavorevoli con le quali l’uomo deve misurarsi armato solo della sua intelligenza, saggezza calcolatrice, capacità di pre­visione. L’ingegno si manifesta non solo nell’azio­ne avveduta e sagace, ma anche nella battuta pron­ta, nel motto arguto e raffinato che mortifica gli sciocchi e i tracotanti, e viene apprezzato dall’an­tagonista intelligente, capace di gustare l’invenzio­ne verbale ben congegnata. È proprio in virtù del­la parola che talora possono essere annullate le di­stanze sociali. Il fornaio Cisti può permettersi il lusso di un motto mordace con il banchiere Geri Spina e Chichibìo può rivolgere una pronta e sol­lazzevole risposta a un gran signore come Currado Gianfigliazzi perché lo scatto dell’ingegno per un attimo rende complici un artigiano e un banchie­re, un cuoco e un signore. Dopo però ciascuno tor­nerà al suo posto, consapevole del proprio ruolo e della propria posizione sociale.
6)      Le forme narrative – Sul piano delle forme narrative Boccaccio ha sperimentato un ampio ventaglio di possibilità, utiliz­zando e trasformando generi preesistenti. Certo sarebbe assurdo voler ricondurre le cento novelle a schemi precisi e rigorosi; si possono però indivi­duare alcune tipologie ricorrenti che naturalmen­te vanno applicate con una certa elasticità:
1)      la novella-azione, costituita da una pura successione di fatti in cui non contano tanto i personaggi quanto gli avvenimenti nei quali essi sono coinvolti e il loro susseguirsi secondo un ritmo che è insieme di sorpresa e di casualità;
2)      la novella-romanzo, fondata non più sull’azio­ne, ma sulla realtà interna dell’uomo, sulle passioni, i sentimenti, gli impulsi che ne provocano le avventure;
3)      la novella-motto, che ha la misura del racconto breve in cui la semplicità della trama serve a mettere in luce una risposta pronta e arguta;
4)      la novella-beffa, incentrata su inganni, beffe coniugali, situazioni e spunti burleschi in cui ciò che conta è il tranello teso con abilità e studiato esattamente per dare scacco all’antagonista;
5)      la novella esemplare nella quale il personaggio, trovandosi ad affrontare una prova difficile, ma­nifesta capacità e virtù che ne fanno un esempio, un modello di valori laici senza alcun riferimento alla realtà ultraterrena.
Lo stile - Con il Decameron Boccaccio non ha soltanto condotto a perfezione il genere novellistico, ma ha anche elaborato una lingua letteraria ricca e mobile, nella quale si intrecciano differenti registri, da quello alto e solenne a quello più basso e popola­re, di volta in volta adeguati alla varietà delle si­tuazioni e dei personaggi. Nelle parti narrative prevale un periodare ampio, sinuoso, nel quale si incastonano numerose subordinate sia esplicite sia implicite; nelle parti dialogate la lingua diventa più agile, intessuta di frasi brevi che riproducono il parlare quotidiano. La prosa di Boccaccio presenta una grande varietà di modi, di toni e di registri, sempre pienamente correlati alla materia narrata.
Versatile e mutevole, la scrittura boccaccesca sa essere aristocratica, umile e popolaresca, commossa. Assume tonalità ora poetiche, ora grottesche, ora tragiche, ora comiche; altre volte mantiene un tono medio in cui si neutralizzano i contrasti della vita. Grazie alle sue variegate articolazioni, alla perfezione della struttura sintattica che riecheggia il perio­dare classico, alla molteplicità dei ritmi e del fraseggio, la prosa boccaccesca sarà per secoli il modello a cui guarderanno con ammirazione i narratori d’Italia e d’Europa dei secoli successivi.
·         Il Decameron segna il culmine e la conclusione della sua stagione artistica, giacché ad essa nulla aggiungerà il successivo Corbaccio, violenta satira antifemminista, che trae spunto da un’esperien­za personale dello scrittore. L’opera racconta che l’autore si trova in un labirinto d’amore ed incontra una vedova dalla quale è respinto. In sogno gli viene il marito e gli dice come conquistare sua moglie, ma in cambio gli chiede di scrivere un’opera su sua moglie.
·         Quanto alle opere erudite dell’ultimo periodo, se testimoniano la passione culturale dello scrittore, sono però di tipo convenzionale e tradizionale. Fanno eccezione, per il ca­lore che li pervade e per gli elementi che hanno offerto ai futuri interpreti e commenta­tori della Commedia, gli scritti che egli dedicò a Dante: il Trattatello in laude di Dante e il Commento ai primi diciassette canti dell’Inferno, frutto delle letture sul testo dan­tesco da lui tenute pubblicamente, per incarico del Comune, nella chiesa fiorentina di Santo Stefano in Badia.

Il Rinascimento e la sua periodizzazione – L’espansione economica e politica degli Stati ita­liani aveva creato una condizione di benessere e, presso le classi dominanti, una larghezza di mezzi finanziari e un tenore di vita prima sconosciuti. Queste condizioni, esaltate da quarant’anni senza guerre intercorrenti tra la pace di Lodi del 1454 e la calata di Carlo VIII nel 1494, portarono al Rinascimento.
Esso è un movimento vasto e complesso che si estende dagli ultimi decenni del Trecento alla metà circa del Cinquecento, e che propone una nuova concezione della vita e nuovi orientamen­ti nel pensiero e nell’arte.
La prima fase del Rinascimento, compresa fra la fine del Trecento e la fine del Quat­trocento, è designata col nome di Umanesimo. In esso ha le radici il Rinascimento vero e proprio, la cui originale e splendida fioritura si manifestò nella prima metà del Cinquecento: a quest’epoca appartengono poeti come Ariosto, pensatori come Machiavelli, artisti come Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano.

L’Umanesimo e la rinascita del mondo classico - Il nome di Umanesimo deriva dal fatto che in questo periodo l’interesse appassionato degli uomini di cultura si volge alle opere dei classici, chiamate humanae litterae perché giudicate apportataci di humanitas, cioè di civiltà e di raffinatezza spirituale.
A differenza di quanto avveniva nel Medioevo, quando gli autori classici erano accetta­ti e usufruiti solo nella misura in cui non contraddicevano all’imperante concezione cri­stiana dell’esistenza, gli umanisti vogliono invece recuperare in­tegro il messaggio dei classici, senza diaframmi interpretativi e senza stravolgimenti. In verità quest’esigenza era già presente in Petrarca che in questo senso può essere considerato un preumanista; con la differenza però che Petrarca era un caso pressoché isolato nel suo tempo, mentre nell’Umanesimo questo nuovo modo di accostarsi alla classicità si diffonde ad ampio raggio e da luogo a un vasto movimento culturale.
Gli umanisti non limitano il loro interesse allo studio dei testi classici già conosciuti e in circolazione, ma s’impegnano nel­la ricerca di quei testi che durante le invasioni barbariche e le devastazioni dell’Alto Medioevo erano andati perduti. Intraprendono a questo scopo viaggi per l’Europa, fa­cendo ricerche soprattutto nelle biblioteche dei conventi, dove si presumeva che molti li­bri avessero potuto salvarsi dalle distruzioni e dai saccheggi. Erano ricerche faticose, dispendiose, ma a volte anche fruttuose.
Non sempre i testi classici in circolazione, o dei quali si scopriva l’esistenza, erano per­venuti indenni dalle tumultuose vicende dell’Alto Medioevo o dall’impegno moralizzatore di chi pure voleva che fossero usufruiti. In tal caso gli umanisti si dedicano ad un’operazione che potremmo definire di restauro interno: confrontando pazientemen­te codici diversi di una stessa opera eliminano le modifiche in essi variamente introdot­te, recuperano passi soppressi, così da riportare i testi il più possibile alla loro lezione ori­ginaria.
L’interesse degli umanisti si volge in un primo tempo ai classici latini; ma successiva­mente anche a quelli greci, specie dopo che, caduta Costantinopoli in mano ai Turchi nel 1453, molti dotti greci emigrano in Italia diffondendovi l’insegnamento della loro lin­gua e la conoscenza dei loro autori.

La rinascita del latino - Conseguenza dell’interesse per il mondo classico è la revivi­scenza nell’età umanistica del latino, cui si accompagna spesso il disprezzo per la lin­gua volgare. Il latino non solo è la lingua della cultura, ma diventa anche, nella prima fase dell’Umanesimo, quella della poesia, dove pure sembrava, dopo Dante e il Petrarca, che il volgare dovesse ormai dominare incontrastato.
Solo dopo la metà del Quattrocento, quando sarà evidente che la lingua di una ci­viltà passata, per quanto splendida, non può esprimere adeguatamente la sensibilità e il pensiero di un’età nuova, quali che siano le sue analogie col passato, il volgare tornerà ad affermarsi. In volgare scriveranno esclusivamente o prevalentemente i poeti della se­conda metà del Quattrocento, dal Magnifico al Poliziano, al Pulci, al Boiardo; e il volgare sarà poi la lingua indiscussa del Cinquecento.

La visione antropocentrica del Rinascimento – Alla concezione teocentrica del mondo che aveva dominato nel Medioevo si oppone nel Rinascimento una concezione antropo­centrica, quella tramandata dal mondo classico, che colloca l’uomo (anthropos in gre­co) al centro dell’Universo. E non è l’uomo che, vivendo sulla terra, è tuttavia proteso verso la vita eterna, ma l’uomo che pone in primo piano la vita sul nostro pianeta, la considera valida di per sé, per i suoi autonomi valori, e cerca di affermarsi in essa con l’intelligenza, la capacità, il coraggio. Che è poi un modo di vita che già era presente nel Decameron del Boccaccio.

L’autonomo affermarsi delle scienze umane – La concezione antropocentrica del mon­do si riflette nel pensiero e nella cultura rinascimentali.
Viene meno la subordinazione medioevale delle varie branche del sapere alla teologia:
·         La filosofia afferma il suo dirit­to alla libera speculazione razionale, senza limiti e condizionamenti teologici.
·         Le scien­ze naturali cessano di riconoscere come scientificamente indiscutibili le affermazioni contenute nei Libri sacri, e cercano la verità sui fenomeni terreni nello studio diretto e sperimentale della natura.
·         La storia non è più considerata il campo dell’azione provvi­denziale di Dio, ma dell’azione e dell’impegno dell’uomo.
·         La politica, anziché strumen­to per condurre l’umanità a una perfezione terrena che preluda a quella celeste, diventa una scienza con leggi proprie che si pone come fine la costruzione e il mantenimento di uno stato.
·         L’arte non si propone più il fine pedagogico di educare e migliorare moralmente gli uomini, ma il fine edonistico (dal gr. hedoné = piacere) di creare bellezza che per gli uomini sia fonte di gioia.
Tutto il Rinascimento è percorso dalla convinzione della potenza dell’uomo sulla terra. Scrive un umanista, Marsilio Ficino: «L’uomo si serve degli elementi, misu­ra la terra e il cielo, scruta la profondità del Tartaro. Il cielo non gli sembra troppo al­to, né il centro della Terra troppo profondo... Nessun confine gli basta. Dovunque si sforza di comandare, di essere lodato, di essere eterno come Dio».

La terra casa dell’uomo – Poiché il momento centrale della vita umana è quello terreno, acquista nuovo valore la terra, che è la dimora dell’uomo. Ad essa il Rinasci­mento non guarda più come a un’emanazione di Dio, pervasa da anelito verso Dio co­me nel Cantico delle Creature di San Francesco, né come al luogo delle vane passioni umane, «l’aiuola che ci fa tanto feroci», che Dante vede dal Paradiso; ma come a luogo che appartiene all’uomo e alla sua iniziativa, che va indagato nella sua interna struttura e nelle leggi che vi agiscono, che va scoperto nei suoi spazi geografici ancora ignoti, che infi­ne va goduto nella sua bellezza.
Alla conoscenza della struttura e delle leggi naturali del nostro pianeta è diretto il nuovo metodo di ricerca instaurato da Leonardo da Vinci, il metodo sperimentale. Le terre ignote sono raggiunte dall’infittirsi di quelle imprese di navigatori e di scopri­tori già iniziate nei secoli precedenti. La natura con la sua variegata bellezza campeggia nelle tele dei pittori e, sotto forma di splendidi giardini, diventa elemento architettonica delle dimore signorili. E fa infine la sua irruzione nella poesia, dal Magnifico e da Poliziano al Furioso di Ariosto, sotto forma di roseti in fiore, di alberi, acque, prati attraverso i quali si esprimono gli stati d’animo dei personaggi o che diventano parti delle loro vicende.

Le corti, centri culturali del Rinascimento – Centri culturali del Rinascimento sono le corti dei vari Signori che traggono lustro dalla presenza di poeti, studiosi, artisti. I quali a loro volta vi trovano un ambiente ricco e confortevole, biblioteche ben fornite, possibilità di lavoro, occasioni di incontro con altri uomini d’arte e di cultura, sicurezza economica. Elemen­ti che concorrono non poco alla fioritura intellettuale e artistica di quest’età. Ma la vita di corte ha una contropartita negativa: limita la libertà dell’artista e del poeta condizionandola alla protezione e qualche volta alle esigenze del Signore, e inoltre favori­sce la nascita di un’arte d’elite, che ha nella corte la sua origine e la sua esclusiva destinazione.

 

La lirica – Nel Quattrocento la produzione lirica è copiosissima, ma non nascono grandi poeti e opere di spicco, almeno fino agli ultimi decenni del secolo. La poesia tende a divenire una forma di letteratura slegata da finalità intellettual­mente importanti; si affievolisce cioè la funzio­ne che aveva avuto nei secoli precedenti, quando la poesia aveva trattato anche temi filosofici, morali, politici, ecc.

Anche la ricerca di forme nuove subisce una battuta d’arre­sto e i poeti preferiscono ripercorrere le orme della tradizio­ne: la lirica del Duecento, Dante e Petrarca, ma anche la poe­sia popolare e quella giullaresca, sono tutti modelli ripresi e imitati nel Quattrocento, senza che si manifesti una tenden­za dominante.

Un aspetto comune alla lirica del Quattrocento è l’affermar­si delle forme poetiche più legate al consumo; per esempio, diventa più vasta la poesia per musica e, più in generale, si sviluppa la poesia d’occasione, quella scritta in concomitan­za e per celebrare i piccoli e i grandi avvenimenti della vita di corte.

Tra i molti poeti che appartengono ad aree geografiche di­verse, ricordiamo Agnolo Poliziano, Matteo Maria Boiardo, Iacopo Sannazaro e Lorenzo de’ Medici.

Un discorso a sé merita la lirica latina che si sviluppò soprat­tutto nei centri umanistici di Siena, Firenze e Napoli e che vis­se all’interno di un ristretto gruppo di intellettuali.

Dopo la molteplicità delle esperienze quattrocentesche, nel nuovo secolo la produzione lirica sembra incanalarsi verso l’assunzione del modello petrarchesco; questa tendenza, dapprima incer­ta, trova una consacrazione definitiva nell’opera di Pietro Bembo e porta, dopo il 1530, a una vera esplosione della produzione lirica.

Bembo propone infatti il linguaggio del Canzoniere di Petrarca come modello assoluto della poesia lirica, ma anche le situazioni, le mille sfumature della contemplazione, del sogno, del pen­siero amoroso, i modi in cui l’amore si manifesta come gioia, nostalgia, ricordo. Il dissidio di fondo della poesia petrarchesca rimane estraneo a questa lettura che sicuramente ap­piattisce l’opera di Petrarca, ma nello stesso tempo la trasforma in un formidabile «serbatoio» cui attingere temi, imma­gini e anche rime, aggettivi e interi versi. Il fenomeno, chiamato petrarchismo, trionfa ben presto in Italia e in Europa e tra­valica i limiti del Cinquecento; esso fornisce un modello e delle regole così precise, funzionanti e applicabili a infinite si­tuazioni tanto che la produzione lirica diventa un fenomeno di massa, nel senso che tutti coloro che in qualche modo han­no a che fare con la letteratura scrivono poesia, magari utilizzandola come scuola di apprendimento della lingua lette­raria o come strumento da usare nei rapporti mondani.

Naturalmente ci sono anche poeti che pur nell’alveo del petrarchismo espressero una loro originalità; tra questi ricordiamo le voci di Giovanni Della Casa, Luigi Tansillo, Michelangelo Buonarroti, e fra le poetesse Gaspara Stampa e Veronica Franco.

Anche la produzione lirica risente fortemente dei mutamen­ti culturali che percorrono il Cinquecento. Dopo la metà del secolo si afferma una poesia religiosa; inoltre la grande quantità di accademie letterarie promuove la compo­sizione di tante poesie che nascono per celebrare i diversi mo­menti della vita accademica: la lirica d’occasione già diffusa nelle corti, trova quindi un ulteriore sviluppo.

Da ricordare infine che accanto alla lirica d’amore e a quella impostata su toni alti, continua a essere presente nella prima parte del secolo una produzione burlesca che ebbe in France­sco Berni l’autore più interessante.

La novella – Nei primi decenni del Cinquecento, la produzio­ne di novelle fu scarsa e non riesce ad affrancarsi dall’imitazione del modello boccaccesco. Il genere trovò una nuova vivacità nella seconda metà del Cinque­cento grazie ad autori che propongono soluzioni narrative di una certa novità: ricordiamo i nomi del piemontese Matteo Bandello, del ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio, del toscano Anton Francesco Grazzini detto il Lasca.

Il trattato - La dimensione e la vitalità della cultura umanistica si rispecchia con evidenza nella produzione di trattati che fu assai vasta e riguardò soprattutto argomenti filosofici, letterari, linguistici e politici.
Una delle for­me di trattato più diffusa fra gli umanisti è il dialogo: l’auto­re immagina una situazione e un luogo, in genere una casa o un giardino, nel quale fa incontrare un certo numero di per­sonaggi, reali o immaginari, e fa sì che il discorso si indirizzi su un argomento. Ognuno dei personaggi espone una propria tesi, in modo che il discorso procede per verifiche successive, attraverso mediazioni o scontri di opinioni. La con­clusione non è, quindi, l’affermazione certa di una verità; è il lettore che deve ricavare dal confronto delle idee gli elemen­ti per una personale elaborazione dell’argomento.
È questa una delle strade che gli umanisti intrapresero rinnovando profondamente la tradizione medievale del trattato e dando ad esso una nuova eleganza e un’impostazione più libera dello sviluppo delle argomentazioni.
Fino agli ultimi decenni del Quattrocento la lingua principe del trattato rimane il latino, ma nella seconda metà del seco­lo si afferma anche una trattatistica in volgare impegnata nel­la riflessione teorica sulle varie «arti» e sulle tematiche civili.
Figura centrale di questa riconversione del trattato dal latino al volgare fu Leon Battista Alberti il quale indicò i due filoni tematici all’interno dei quali la trattatistica in volgare si affermò con maggior forza nella seconda metà del Quattrocen­to: la riflessione sulla dimensione familiare e civile dell’individuo e la riflessione teorica sull’arte.
Nel Quattrocento i trattati in latino e in volgare diedero voce al dibattito attraverso il quale si affermò la cultura umanistica. Il genere continua nel Cinquecento ad avere un ruolo di primo piano, trasformandosi in relazione ai mutamenti del­le tendenze culturali: da una parte continua la trattatistica in latino che circola in ambiti specialisti­ci, dall’altra compare una nuova trattatistica, l’espressione più viva e interessante del momento culturale; scritta in ita­liano, riguarda diversi settori e tende a fissare la fisionomia della nuova cultura, a scriverne le «regole».
In particolare nei primi decenni del secolo alcuni intellettuali fanno compiere un salto qualitativo di grande importanza al dibattito culturale, fissando con i loro trattati le coordinate dell’intera civiltà rinascimentale in Italia e in Europa. Il trattato si afferma così come luogo privilegiato nel quale vengono posti i fondamenti della letteratura, della politica, della lingua, del comportamento sociale.

I libri che fondarono una civiltà – La politica e l’arte del governare ebbero una nuova definizione proprio nel momento storico in cui la penisola era contesa da Francia e Spagna e avveniva la trasformazione di alcune signorie in principati, ma incontrando difficoltà nel dare un’organizzazione moderna allo Stato.
Niccolò Machiavelli con Il Principe e Francesco Guicciardini con gli scritti storici e I Ricordi pongono le basi della politica come scienza laica.
Altrettanto netto è il salto di qualità delle Prose della volgar lingua del 1525 di Pietro Bembo, il trattato che disegna il volto della lingua letteraria del Cinquecento e dei secoli successivi.
Un’altra opera fondamentale per la civiltà del Cinquecento è il Cortegiano del 1528 di Baldassar Castiglione. La discussio­ne sulla figura e sulle specifiche funzioni e caratteri dell’in­tellettuale di corte costituiva un argomento nuovo, moderno, reso urgente dai rapidi mutamenti del ruolo delle corti dall’ultima metà del Quattrocento ai primi anni del Cinquecen­to. Il Cortegiano forniva indicazioni che furono prese come modello in tutte le corti d’Europa e fecero di questo trattato un testo letto, studiato, imitato dall’Inghilterra alla Spagna. Dal libro del Castiglione si sviluppò un’ampia trattatistica sui costumi e sul comportamento del cortigiano che, sotto una veste letteraria a volte frivola, affrontò il tema, molto serio, del rap­porto fra intellettuale e potere.

Niccolò Machiavelli – Acuto testimone della storia del suo tempo e uno dei maggiori prosatori italiani, è il teorico di una politica rigorosamente razionale, come unica risposta possibile all'egoismo degli uomini.

La vita e le opere – Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 quando la città di Lorenzo de' Medici era all'apice della potenza e del prestigio culturale, da una famiglia di nobili origini – i Machiavelli erano stati signori di Montespertoli trasferitisi a Firenze, sottomettendosi alla sua legge e dividendone le glorie – famiglia guelfa che diede alla città di Firenze ben tredici Gonfalonieri di giustizia e una cinquantina di Priori; la stirpe della madre originaria di Fucecchio era altresì di antica nobiltà e la famiglia diede a Firenze un Gonfaloniere e cinque priori.
La madre rimasta vedova con Niccolò in giovane età, si risposò con Francesco di Nello che era giureconsulto e tesoriere della Marca. Machiavelli ricevette un'educazione di tipo umanistico, inizialmente dalla madre che era anche poetessa.
La formazione di Machiavelli, come quella di tutti i giovani di buona famiglia del suo tempo, fu di tipo umanistico: studiò il latino e lesse i classici. Fin da allora, però, il suo interesse non era di natura estetico-letteraria, ma contenutistico; i classici lo interessavano non per il loro pregio artistico, ma nella misu­ra in cui trovava riflessi nelle loro opere i propri sentimenti e le proprie emozioni, e gli offrivano esperienze utili per la vita pratica. Questo spiega la sua predilezione per gli storici.
Nel 1494 fu allievo di Marcello Virgilio Adriani; la sua educazione fu caratterizzata dalla presenza del latino, ma non del greco antico. Va poi considerato che lesse opere come il De rerum natura di Lucrezio, allora quasi clandestine.
Interessato alla politica già nella giovinezza, approfittò della costituzione della Repubblica di Firenze per cercare di partecipare alla vita politica della sua città.
Nel 1498, dopo la cacciata dei Medici da Firenze e dopo il rogo di Savonarola, Niccolò Machiavelli fu eletto segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina, assumendo importanti funzioni, tra cui quella di viaggiare all'estero per informare la città sui principali provvedimenti presi dai più importanti governi europei. L'entrare direttamente a contatto con le varie forme di governo, assieme alla sua passione per i classici, contribuirono alla formazione del suo pensiero.
Nel 1499 Machiavelli scrisse il Discorso fatto al magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa.
Dal 1500 al 1511 fu incaricato di svolgere diverse missioni diplomatiche per conto della Repubblica e del Papato. Negli anni passati al servizio della Repubblica partecipò a parecchie ambascerie: fra queste se ne ricordano due presso Cesare Borgia, due alla Corte papale, quattro presso Luigi XII re di Francia, una presso l’imperatore Massimiliano. Erano contatti che gli davano modo di osservare il comportamento, le astu­zie, le abilità di molti uomini politici e di acquisire quell’esperienza diretta della poli­tica che gli sarebbe stata preziosa poi nella composizione delle sue opere di teoria poli­tica.
Nel 1503, Machiavelli scrisse la Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, una breve opera storica in cui sono ripercorse le vicende di Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Paolo e Francesco Orsini, quarto duca di Gravina, che avevano partecipato ad una congiura contro Cesare Borgia, la cosiddetta congiura della Magione, nell’ottobre del 1502, e credendo di rappacificarsi con lui furono da questi catturati e uccisi mentre si trovavano a Senigallia e ne stavano assediando la cittadella difesa da Andrea Doria. In quest’opera è già visibile il suo interesse per Cesare Bor­gia che nel Principe sarà poi proposto come modello ai politici italiani.
Nel 1510, Machiavelli scrisse il Ritratto delle cose di Francia in cui rileva che la corona di Francia è molto potente. Il primo luogo per l’ereditarietà della corona, le migliori terre di Francia sono in mano alla corona, in secondo luogo perché c'è un potere monarchico personalizzato: le terre appartengono alla corona ed essendo un’istituzione passano ai singoli re, che le trasmettono ai successori. In terzo luogo perché la corona francese mise fine alle autonomie e alle guerre feudali (accadevano quando il barone pensava di essere un piccolo monarca). Adesso c'è solo un re e i baroni ubbidiscono e lo difendono. In quarto luogo per il principio del maggiorascato: solo il figlio maschio maggiore eredità le proprietà di famiglia.
Nel 1512, con la caduta della Repubblica fiorentina e con il ritorno dei Medici a Firenze, le cariche tenute da Machiavelli nell’amministrazione repubblicana gli suscitarono contro i sospetti del nuovo governo e fu allontanato dal suo ufficio; in questo stesso anno scrisse il Ritratto delle cose della Magna in cui rileva il particolarismo e l'inesistenza di un potere centrale. C'erano conflitti tra Imperatore contro principi e città, fra Principi contro città. Questi conflitti, più il desiderio di indipendenza e lo spirito anti nobiliare portò la Germania a una situazione esattamente contraria da quella francese. Lo stato tedesco infatti non riesce ad emergere dalla frammentazione feudale.
Nel 1513, con il ritorno dei Medici a Firenze in seguito ad accordi presi con il re di Spagna, Machiavelli fu sospettato di aver partecipato ad una congiura antimedicea, incarcerato e sottoposto a tortura e nuovamente condannato al confino. Fu amnistiato poco dopo con l'elezione di papa Leone X dei Medici. Nello stesso anno si ritirò in completo isolamento nelle sue proprietà a San Casciano in Val di Pesa e qui, nell’ozio forzato, facendo tesoro delle esperienze acquisite e degli am­maestramenti che gli venivano dalle amate letture degli storici latini, i compose le sue maggiori opere di riflessione politica, il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Nel 1513, Machiavelli scrisse Il Principe, scritto di getto nel 1513, interrompendo la stesura dei Discorsi, in cui si propone di mettere al servizio di un principe che abbia la ca­pacità di creare a un vasto e forte stato in Italia, la propria esperienza politica e di illustrargli le leggi che devono guidare la sua azione. L'opera nasce come approfondimento delle riflessioni su quell’esperienza e sul suo fallimento, riflessioni che andavano trovando, nei diciotto capitoli già stesi dei Discorsi, il filo di una problematica incentrata sui principi che reggono le repubbliche e le cause per cui esse cedono e volgono a un ordinamento monarchico. L'interruzione di questo lavoro, ancora improntato dall'apparato della tradizionale etica politica, è segnato dalla necessità che spinge Machiavelli a volgersi verso le immediate esigenze della politica attuale, a sollecitarne le forze in gestazione affrontando direttamente il grande problema del suo tempo: quello del principato. Il 10 dicembre del 1513 Machiavelli dà all'amico Vettori notizia del compimento dell'opera, iniziata probabilmente nel luglio dello stesso anno. Machiavelli sembra muovere, infatti, da una classificazione puramente scientifica, distinguendo le monarchie in tre specie: quelle ereditarie, quelle nuove e quelle miste. Ma subito la trattazione si focalizza sul nucleo di problemi che si va ponendo; cioè come si formano, al di fuori di ogni tradizione di prestigio e dignità, i principati nuovi; come si conquistano, o con armi proprie o con truppe mercenarie, con la fortuna o con la virtù; come, comunque conquistati, possano essere conservati. Più che i modelli canonici degli antichi fondatori di Stati, da Mosè a Romolo, a Machiavelli interessa però chiamare in causa quei particolari protagonisti di capitali vicende politico-militari che erano stati i capitani di ventura, dal vittorioso Francesco Sforza fino al più recente Cesare Borgia, quel Valentino che gli appare meglio incarnare l'ideale figura del principe:
«... io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua; e se li ordini suoi non profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna».
Il limite permanente dell'azione individuale è, infatti, la necessità dell'ordine delle cose, ordine naturale e non più trascendente e provvidenziale: la “virtù” del principe non riveste quindi caratteri etici, ma piuttosto psicologici, e si sostanzia di abilità, potenza individuale, fiuto delle situazioni e misura delle proprie possibilità. Al principe si richiede la virtù congiunta della volpe e del leone, intelligenza delle situazioni e istintività di intuito ferino che solo può indicargli le vie della “fortuna”; la sua natura deve quindi essere duplice come quella del centauro, metà uomo e metà bestia. Esistono però alcuni principi generali nell'organizzazione degli Stati, e a questi fondamenti, “le buone leggi e le buone armi”, il principe deve anzitutto attenersi. È per averli trascurati, quindi per la loro “ignavia”, che i principi italiani, privi di eserciti cittadini fidati da contrapporre ai nemici, hanno dovuto pensare “a fuggirsi, e non a difendersi”: poiché “non può essere buone leggi dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene che sieno buone leggi”. Due anni più tardi Machiavelli indirizzò l'operetta a Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, aggiungendo un XXVI capitolo di esortazione al Medici a farsi “principe nuovo”, a intraprendere l'opera di unificazione delle province italiane e “liberarle dai barbari”. Si sarebbe così realizzato quel disegno monarchico-unitario che Machiavelli aveva ben individuato come moderno orientamento della politica europea. Al carattere politico-militare di questo scritto corrisponde la precisa invenzione di uno stile enunciativo, sciolto dalle forme scolastiche del sillogismo, ma che procede invece per interne concatenazioni con andamento analogo a quello che sarà proprio di tutta la prosa scientifica moderna.
Negli anni di isolamento si dedica anche alla stesura di opere letterarie e filosofiche.
Il successo ottenuto in una rappresentazione della sua commedia La Mandragola, scritta nel 1518, gli consentì di smussare il clima di sospetto nei suoi confronti. La visione pessimistica del comportamento umano, che si acuì nel periodo in cui non partecipò alla vita politica e si manifestò nella Mandragola, tagliente e amara satira della corruzione dei costumi contemporanei, dove l'essere umano è rappresentato come incapace di andare oltre il meschino interesse personale. Racconta la beffa, di sapore boccaccesco, giocata dal giovane Callimaco e dal suo servo Ligurio al vecchio e balordo messer Nicia, sposo della bella Lucrezia e desideroso di avere a ogni costo da lei un figlio. Fingendosi esperto di medicina, Callimaco gli fa credere che, per vincere la sterilità della moglie, è necessaria una pozione di mandragola, i cui effetti però sono letali per chi, per primo, si congiunge con colei che l'ha bevuta: occorre pertanto trovare una persona che per una notte sostituisca il marito. L'inganno sarà effettuato grazie alla complicità di Sostrata, madre della giovane, e dell'avido e cinico fra' Timoteo, suo confessore, che mettono a tacere gli scrupoli dell'onesta Lucrezia, la quale, arrendendosi all'immoralità altrui, finirà con il diventare l'amante di Callimaco. Capolavoro del teatro italiano del Rinascimento, La Mandragola rispecchia un'umanità negata a ogni trascendenza ed esclusivamente volta a soddisfare i propri istinti, contemplata con spietata e impassibile ironia da Machiavelli, che in quell'inganno amoroso, comico risvolto degli inganni politici de Il Principe, trova la conferma della sua pessimistica massima secondo cui “nel mondo non è se non vulgo”.La protagonista femminile della commedia, Lucrezia, è ingannata al fine di essere conquistata, è vittima di intrighi, ma poi riesce a cogliere un'occasione fortunata ed a diventare artefice del proprio destino.
Fra il 1513 e il 1519, Machiavelli scrisse i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in cui, com­mentando i primi dieci libri delle Storie di Livio, trae da esse riflessioni che reputa ancora attuali e valide per i suoi tempi. L'opera, concepita come una serie di considerazioni in margine al testo liviano (la prima decade dei libri Ab urbe condita, dall'origine di Roma all'anno 293 a. C.), è ordinata senza sistematico rigore in tre libri: il primo tratta dell'origine e della costituzione interna dello Stato, il secondo della sua struttura militare e delle conquiste per l'espansione del dominio, il terzo delle cause che ne determinano la stabilità o la decadenza.
Nel 1516, Machiavelli iniziò a frequentare le riunioni nei giardini del Palazzo Rucellai – gli Orti Oricellari – dove discuteva di argomenti letterari, filosofici e politici.
Fra il 1516 e il 1520, Machiavelli scrisse Dell'arte della guerra, dove sono trattati pro­blemi di tecnica militare, ed è ribadita la superiorità delle milizie cittadine su quelle mercenarie.
Nel 1520, Machiavelli scrisse la Vita di Castruccio Castracani da Lucca è un'operetta letteraria ispirata alla vita dell'uomo d'arme lucchese Castruccio Antelminelli, condottiero ghibellino del Trecento. Machiavelli. Riprende il modello delle biografie di stampo classico e umanistico dei cosiddetti uomini Illustri, descrizione dell'aspetto fisico e del carattere, discorsi e aneddoti. Il Personaggio in sé assume rilievo di tono narrativo e drammatico ma comunque di forte stampo politico, L'autore riflette nel condottiero del '300 l'ideale del Principe virtuoso. Riacquistata la fiducia dei Medici, ebbe da loro qualche piccolo inca­rico pubblico.
Fra il 1520 e il 1525 scrisse su commissione del cardinale Giulio dei Medici le Istorie fiorentine che espongono la storia di Firenze fino alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492.
Nel 1521 a Carpi conosce personalmente Francesco Guicciardini con cui stringe un'amicizia testimoniata da molte lettere.
Nel 1525, Machiavelli portò in scena a Firenze la commedia grottesca Clizia. Nello stesso anno ottenne la revoca dall'interdizione agli incarichi pubblici e tornò a svolgere un'attività politico-diplomatica al servizio dei Medici nella lega anti imperiale, formata da Firenze, il Papato e la Francia.
Nel 1527, la discesa in Italia dell'esercito imperiale di Carlo V travolse la lega e la stessa città di Firenze, dove fu restaurata la repubblica democratica in seguito alla gravissima crisi sorta nei rapporti tra Papa Clemente VII de' Medici) e Carlo V, conclusasi con il Sacco di Roma. Il popolo fiorentino credette che fosse venuto il momento opportuno per cacciare i Medici e restaurare la Repubblica da esponenti savonaroliani e la famiglia dei Medici fu costretta alla fuga: la presenza di Machiavelli fu sgradita al nuovo governo repubblicano che guardava con sospetto al suo passato svolto dapprima al servizio della Repubblica fiorentina e successivamente della famiglia dei Medici e per tali motivi fu allontanato nuovamente da ogni incarico pubblico.
Tra il 1518 e il 1527 Machiavelli scrisse la novella Belfagor arcidiavolo
Fra il 1497 – 1527 scrisse un Epistolario.
Nel 1527, Niccolò Machiavelli morì improvvisamente a Firenze a cinquantotto anni in condizioni di povertà.

Il pensiero politico –  Sulla scorta del rinnovamento posto in essere dall'umanesimo, con Machiavelli e la sua visione laica della vita la politica compì la propria rivoluzione copernicana, assumendo una dimensione e una dignità autonome rispetto alle altre sfere della religione e della morale; le pagine del Principe mantengono la loro straordinaria attualità e vitalità perché dimostrano che il potere è il più macroscopico fenomeno umano di cui, anziché cercare giustificazioni o legittimazioni trascendentali e metafisiche, occorre studiare realisticamente, e demistificare, i meccanismi di esercizio e di funzionamento al di là di ogni sovrastruttura ideologica. L'“incanto” della religione veniva spezzato per sempre, e da allora, dopo la lezione di Machiavelli, il modo di intendere e spiegare tutta la fenomenologia politica è cambiato. Filosofi e pensatori politici, trattando le eterne, spinose questioni della migliore organizzazione del potere all'interno dello Stato, discorderanno sui modi per garantire e tutelare la libertà e la dignità degli individui, ma non potranno più prescindere da una metodologia interpretativa rigorosamente empirica e realistica e non si porranno più come assunto fondamentale il raggiungimento di fini oltremondani quali la salvezza dell'anima dei cittadini.
La politica tende così a convertirsi nella scienza politica.
1) La politica come scienza autonoma - È opera di Machiavelli la formulazione del principio che la politica è una scienza autonoma che mira a fini propri e obbedisce a proprie leggi. Il fine della politica è la costituzione e il mantenimento dello Stato; le sue leggi quelle che, applicate con capacità ed energia, consentono al politico (e cioè al principe, perché nel principato Machiavelli vede la forma politica adeguata ai suoi tempi) di pervenire a tale meta. In tal modo la politica, coerentemente con lo spirito rinascimentale, non è più con­cepita in funzione religioso-morale, cioè come guida al retto vivere sulla terra in prepa­razione della beatitudine nell’Aldilà; ma si prende atto che, nella concreta realtà, la politica e la morale si muovono in ambiti diversi: la politica nell’ambito dell’utile, la morale nell’ambito del buono e del giusto.
2) La «verità effettuale» - La presa di coscienza della realtà effettiva in cui si trova ad operare (di quella che Machiavelli chiama «verità effettuale»), la capacità di valutar­la con occhi snebbiati, senza illusioni, è condizione necessaria al successo del principe. Solo se si renderà conto lucidamente della situazione storico-politica in cui è immerso, se saprà prendere atto che gli uomini sono generalmente malvagi, infidi, avidi, crudeli, e al massimo grado lo sono gli uomini politici coi quali deve misurarsi; e se saprà poi agire di conseguenza, ed esse­re a suo volta malvagio, infido, avido, crudele, solo in questo caso il principe potrà ot­tenere successo. Al senso concreto e disincantato della verità effettuale, Machiavelli contrappone quella che egli chiama l’immaginazione della cosa, cioè l’illusione che il mondo non sia quello che è ma quello, migliore, che ci piacerebbe che fosse. Illusione nefasta per il principe, perché lo costringe a lottare coi suoi avversari ad armi impari. «Elli è tanto discosto da come si vive a come si doverebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni».
3) Il principe e la virtù - Solo se saprà adeguarsi intelligentemente ai suoi tempi e agli uomini con i quali deve cimentarsi, il principe sarà virtuoso. La parolavirtù va inte­sa ovviamente in una accezione che non ha più niente in comune con quella cristiana. La «virtù» di un principe è, infatti, esclusivamente di natura politica, e significa capa­cità di successo politico. Pur di raggiungere la meta che gli compete, cioè di costituire e mantenere il suo Stato, il principe può commettere tutte quelle azioni che sono conside­rate riprovevoli nei privati: può uccide­re, tradire, non mantenere la parola data, ecc. Su tali presupposti si capisce come Machiavelli possa proporre come modello ai principi Cesare Borgia, personaggio feroce, infido, corrotto, ma che era giunto vicino alla costituzione di uno stato vasto e forte. Il principe cesserà di essere virtuoso solo quando il suo comportamento, magari onesto e santo dal punto di vista morale, gli causerà la perdita dello stato. Viene dunque posta una netta distinzione fra morale pubblica, cioè la morale del politico, e morale privata,cioè la morale dell’uomo quotidiano, che per il Machiavelli rimane quella tradizionale.
4) Le leggi della politica - Per raggiungere il successo il principe deve conoscere le leggi che regolano la politica e sapersene valere. A tali leggi si perviene sperimentalmente, partendo dall’analisi dei fenomenipolitici, cioè delle azioni e dei comportamenti tenuti dagli uomini politici nelle più diverse situazioni. Come avviene per le scienze naturali, le leggi che in questo modo si possono formulare saranno tanto più valide e universalmente applicabili quanto maggiore sarà il numero dei «fenome­ni», cioè dei fatti, presi in esame. Perciò il politico dovrà prendere in considerazione non soltanto le situazioni e le azioni politiche contemporanee che egli può conoscere di­rettamente di persona (esperienza delle cose presenti), ma anche quelle del passato, di cui verrà a conoscenza mediante lo studio delle storie (esperienza delle cose passate).
5) Le milizie - Strumento indispensabile al successo del principe è un esercito efficiente. E tale non può essere un esercito formato da milizie mercena­rie, pronte a vendersi al migliore offerente, e neppure da milizie ausiliarie, cioè fornite da un altro principe e perciò pronte a tradire a suo vantaggio. Il principe deve dunque possedere milizie proprie, cioè formate dai cittadini del suo Stato debitamente adde­strati alle armi.
6) Virtù e fortuna – Alla virtù del principe, cioè alla sua energia, intelligenza, spregiudicatezza, capacità di successo, si contrappone spesso la fortuna. In lei gli uomini del Rinascimento non vedono più, come vedevano i medioevali, una forza provvidenziale voluta da Dio per mantenere l’equilibrio del mondo, ma una forza ostile che mira di solito a sconvolgere i piani degli uomini virtuo­si. Dalla fortuna il principe dovrà sapersi difendere prevenendone i trabocchetti, così come gli uomini che vivono presso fiumi impetuosi si difendono dalle piene costruendo dighe che le prevengano.
7) Il principe e il popolo – La concezione politica del Machiavelli è molto aristocra­tica e individualistica. La politica dì uno Stato è per lui tutta nelle mani del principe che, uomo eccezionalmente dotato, lo costruisce e lo regge secondo criteri propri insin­dacabili dai sudditi. I sudditi, la massa cioè del popolo, non hanno voce; sono usati dal principe strumentalmente per la costruzione del suo edificio politico. Questo disprezzo per la massa dei cittadini, chiamati sprezzantemente vulgo, è uno dei limiti maggiori, proprio in sede politica, del pensiero machiavelliano: una massa non educata, ma semplicemente e arbitrariamente sfruttata, si rivelerà alla fine debole e inefficiente anche come strumento politico.

Il pensiero di Machiavelli alla luce della realtà politica del suo tempo - Nel pensiero politico machiavelliano è sempre presente, condizionandolo, una esigenza fondamenta­le: che in Italia si costruisca rapidamente uno Stato il più possibile vasto e forte. Machiavelli, infatti, con lucida diagnosi, si era reso conto che l’Italia, divisa in piccoli Stati perennemente in lotta fra loro, non avrebbe potuto resistere alla forza d’urto delle grandi monarchie che andavano consolidandosi in Europa: Francia, Spagna, Impero, che già avevano cominciato a volgere verso l’Italia le loro mire di conquista. Solo uno Stato italiano forte avrebbe potuto contrastarle e salvare l’indipendenza della penisola. La diagnosi era esatta: il sogno politico del Machiavelli non si attuò, e cominciò per l’Italia, come egli aveva previsto, il lungo periodo delle dominazioni straniere.

Un problema rimasto aperto: il rapporto politica-morale - Se Machiavelli ha avuto il merito di individuare l’autonomia reciproca della politica e della morale, sgombran­do il terreno da falsi presupposti, non si è posto però l’essenziale problema di come queste due distinte attività possano, pur nella distinzione, conciliarsi nella coscienza umana; se cioè sia possibile, e come lo sia, attuare una politica che, pur perseguendo fini suoi propri, non contraddica ai fon­damentali principi etici dell’umanità.
È il problema che il Machiavelli ha lasciato aperto ai posteri, e che nella pratica politi­ca ancora non è stato risolto, ma alla cui soluzione l’umanità deve tendere come a me­ta fondamentale.

Ludovico Ariosto – Ariosto è la tipica figura di intellettuale cortigiano del Rinascimento, come Castiglione, Bembo e molti altri letterati dell’epoca. La personalità di Ariosto è però complessa ed inoltre nutre nei confronti dell'ambiente in cui vive e lavora sentimenti di malcelato rifiuto e scaglia contro di esso una sottile polemica.

La vita e le opere – Primo di dieci figli, Ludovico Ariosto nacque nel 1474 a Reggio Emilia da Daria Malaguzzi (di nobiltà reggiana) e dal conte Niccolò Ariosto (discendente da nobile famiglia bolognese trapiantata a Ferrara) dove questi era capitano, della rocca della città, in nome degli Estensi.
Nel 1481, la famiglia si trasferì prima, a Rovigo, dove Niccolò era stato inviato dal duca Ercole I d'Este con l'incarico di comandante della guarnigione; poi, a seguito della guerra scoppiata tra Ferrara e Venezia, a Reggio, infine nel 1484, a Ferrara, sede della Corte Estense, uno dei centri culturali più evoluti e raffinati del Rinascimento.
Tra il 1489 e il 1494, contro voglia, per volere del padre, e con esiti piuttosto modesti, studiò diritto presso l'Università di Ferrara. Ma intanto partecipava alla vivace vita della corte di Ercole I, dove entrò in contatto con vari e prestigiosi letterati e umanisti (Ercole Strozzi, Pietro Bembo e molti altri). Lasciato finalmente libero dal padre di dedicarsi ai prediletti studi letterari, abbandonò il diritto e intraprese lo studio della letteratura latina, cominciando a frequentare i corsi dell'umanista Gregorio da Spoleto ed impegnandosi anche in una produzione poetica sia latina sul modello dei grandi poeti dell’antichità, Tibullo, Catullo, Orazio (liriche amorose, elegie, De diversis amoribusDe laudibus Sophiae ad Herculem Ferrariae ducem primum, Epithalamium, epitaffi ed epigrammi) sia volgare, le Rime di argomento prevalentemente amoroso e di timbro petrarche­sco (pubblicate postume 1546).
Nel 1500, in seguito alla morte del padre e, poiché era il primogenito, la necessità di provvedere a una numerosa famiglia, lo costrinse a cercare un impiego e ad abbandonare così la vita meditativa degli studi per quella pratica: la tutela delle cinque sorelle e dei quattro fratelli (tre dei quali minorenni e il maggiore Gabriele paralitico, che rimane con lui tutta la vita). In una delle Satire così egli rievoca argutamente questo momento della sua vita:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero.
dietro a Marta bisogna ch’io rivolga.
Nel 1502, Ariosto ottenne il capitanato della rocca di Canossa.
Nel 1503, ebbe un figlio, Giambattista, dalla domestica Maria. Sempre nello stesso anno entrò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, figlio di Ercole I e fratello del duca Alfonso e divenne funzionario di corte. Al servizio del cardinale, uomo gretto, avaro e insensibile alla cultura e alla poesia, svolse svariati, faticosi, mal retribuiti e ingrati compiti: dalle incombenze pratiche, quali aiutare il signore a spogliarsi, alle faccende amministrative, dalle funzioni di intrattenimento e di rappresentanza alle delicate e rischiose missioni politiche e diplomatiche. Il lavoro presso il cardinale lo costringeva ad attività troppo lontane dai suoi gusti, dal suo amore per la poesia. La vita stessa di corte, cui pure ambivano la maggior parte degli uomini di cultura del tempo, la sentiva come una necessità alquanto fastidiosa e l’accettava di malavoglia, anche se con bonaria rassegnazione. Vagheggiava per contra­sto una esistenza modesta e pacifica, libera da impegni gravosi e confacente ai suoi amati studi. È un ideale che argutamente esprime in una delle Satire:
In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me inforco
e mondo e spargo poi di aceto e sapa
che all’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio.
Tra il 1507 e il 1515, periodo assai ricco di incidenti diplomatici, Ariosto fu spesso costretto a fare viaggi a cavallo per recarsi ad Urbino, a Venezia, a Firenze, a Bologna, a Modena, a Mantova e a Roma. E così, mentre attendeva alla stesura dell'Orlando furioso, e si impegnava nell'ambito del teatro di corte, scrivendo e mettendo in scena i primi importanti esperimenti del nuovo teatro volgare, le commedie Cassaria e I Suppositi, Ariosto fu protagonista di una delle fasi più aspre delle guerre d'Italia.
Fra gli anni 1507 e 1531 compose per il teatro di corte cinque commedie modellate per la struttura sui classici greci e latini, ma nelle quali spesso si riflettono la vita e la so­cietà contemporanee.
La situazione del Ducato, restio alla soggezione allo Stato della Chiesa, divenne, in seguito alle vicende provocate dalla Lega di Cambrai del 1508, delicata sul piano militare e diplomatico.  
Nel 1509, Ariosto seguì il cardinale nella guerra contro Venezia.
Nel 1510, Ariosto si recò a Roma per ottenere la revoca della scomunica inflitta da papa Giulio II Della Rovere al cardinale e su quest'ultimo fu richiesta l'opera di Ariosto, inviato spesso come messaggero presso Giulio II: la risolutezza del poeta è indicata dal fatto che il papa giunse a minacciarlo di morte e di essere gettato ai pesci.
Nel 1512, Ariosto insieme al duca Alfonso, che dopo la vittoria dei Francesi e dei Ferraresi sulle truppe papali a Ravenna cercava di rappacificarsi col pontefice, visse una romanzesca fuga attraverso gli Appennini, per sottrarsi alle ire del pontefice, deciso a non riconciliarsi con gli Estensi, alleatisi con i francesi nella guerra della Lega Santa.
Nel 1513, alla morte di Giulio II, si recò nuovamente a Roma per felicitarsi con il nuovo papa Leone X de’ Medici, che aveva con lui rapporti amichevoli, sperando, tuttavia invano, di ottenere un beneficio generoso che gli permettesse una sistemazione più tranquilla, ma rimase deluso. Nel viaggio di ritorno Ariosto conobbe a Firenze Alessandra Benucci, una fiorentina sposata con il ferrarese Tito Strozzi: fu l'unico amore della sua vita.
Nel 1515, morto il marito, la Benucci andò ad abitare a Ferrara, ma non visse mai con lui, neppure dopo il matrimonio, celebrato in gran segreto nel 1527 — affinché lei non perdesse i diritti all'eredità del marito e lui i suoi benefici ecclesiastici.
Nel 1516, uscì la prima edizione dell'Orlando furioso, in quaranta canti, dedicata al cardinale Ippolito d'Este, che tuttavia non dimostrò alcuna gratitudine.
Nel 1517, Ariosto lasciò il servizio del cardinale Ippolito, quando questi fu nominato vescovo di Budapest. Ariosto si rifiutò di seguirlo in un paese che giudicava inospitale per co­stumi e per clima; e soprattutto perché sarebbe stato costretto ad abbandonare, oltre che la sua città («a me piace abitar la mia contrada»), anche la donna amata, Alessandra Benucci.
Tra il 1517 e il 1521, attende alla composizione delle sette Satire componimenti in terzine e in forma epistolare (pubblicate solo nel 1534): realistica e amara meditazione sugli ambienti cortigiani e sulla sorte degli uomini di lettere. Non sono satire nel senso che è oggi dato al termine, ma conversazioni argute e riflessive come le Satire oraziane che Ariosto ebbe a modello. In esse l’autore delinea il proprio ritratto che, se non corrisponde sempre a ciò che egli vera­mente fu nella realtà, coglie però i tratti essenziali della sua natura e del suo carattere: la predilezione per la vita studiosa e appartata, l’insofferenza per la mondanità vacua della corte, l’amore per la sua donna e per la sua città e la sofferenza a staccarsi da en­trambe, l’ammirazione per la cultura classica; e poi le speranze e le delusioni che a lui, come a tutti gli uomini, elargiva la vita: il tutto guardato con maturo e bonario equili­brio.
Questi sono probabilmente anche gli anni a cui risale la stesura dei Cinque Canti, composti in vista di un inserimento nel Furioso, ma poi lasciati da parte a causa dei toni cupi e perciò dissonanti rispetto al resto del poema.
Nel 1518, lasciato il cardinale Ippolito, entrò al servizio del duca Alfonso I: anche questa «servitù» non fu leggera, pur senza migliorare la situazione economica.
Tra il 1519 e il 1520 prosegue la composizione delle rime in volgare e compone, inoltre, due commedie Il Negromante e I studenti (incompiuta).
Nel 1521, seguì una seconda edizione dell’Orlando furioso.
Dal 1522 al 1525, per volere del duca dovette, assume­re, seppur malvolentieri, l’incarico di governatore della regione montuosa e selvatica della Garfagnana, un paese violento, infestato dai briganti. E, benché amasse rappresentarsi come inetto alle cose pratiche, tenne questo difficile ufficio con fermezza ed equilibrio. Le Lettere, scritte per dovere d'ufficio al duca, rivelano la grande fermezza, serietà e sagacia amministrativa e politica con cui Ariosto cercò di ricondurre la legge e l'ordine in quel territorio di confine, infestato dai banditi e dalle violenza delle fazioni rivali.
Nel 1525, lasciata la Garfagnana, si apre un periodo più sereno e per il poeta e per il suo ducato. Tornato a Ferrara, il duca gli affida varie cariche amministrative ma anche incarichi a lui più congeniali. Fu chiamato, infatti, a far parte del Maestrato dei savi e fu nominato sovrintendente agli spettacoli di corte. Riscrive in versi la Cassaria e I Suppositi, rielabora Il Negromante.
Nel 1528 è a Modena con il duca per scortare l'imperatore Carlo V di passaggio nello Stato estense e nel 1528 scrive una nuova commedia, la Lena, in versi rappresentata a Ferrara nel carnevale del 1528 e ripresa l'anno successivo con l'aggiunta di nuove scene. Imperniata sui maneggi della ruffiana Lena per favorire gli amori contrastati della giovane figlia di un suo amante, è il miglior testo teatrale ariostesco, in quanto riscatta la convenzionalità del tema ancorandolo alla realtà ferrarese del Rinascimento.
Tornato a Ferrara si ritirò finalmente a vita privata; si comprò una modesta casetta con un piccolo orto, e lì trascorse gli ultimi suoi anni, fra le occupazioni agresti e i diletti studi, curando soprattutto l’ultima revisione della sua opera maggiore, L’Orlando furioso.
Nel 1531, dopo essere stato a Firenze, ad Abano e a Venezia, il marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos, condottiero dell'esercito imperiale, gli assegna, a Correggio, una pensione di cento ducati d'oro.
Nel 1532 seguì una terza edizione dell’Orlando furioso aumentata di sei canti: notevolissima l’elabora­zione linguistica e formale che intercorre fra la prima edizione e l’ultima. Nello stesso anno diresse le recite di una compagnia padovana inviata a Ferrara dal Ruzzante.
Ammalatosi di enterite, morì nel 1533 nella parva domus acquistata sei anni prima in contrada Mirasole.

Il «Furioso» libro per la Corte - Il Furioso, nato nella Corte estense e dedicato al cardinale Ippolito d’Este, si rivolge all’ambiente della Corte e viene incontro al suo desi­derio di svago e al suo gusto raffinato e maturo.
Questa «udienza» signorile è sempre presente sia al poeta che al lettore, per il quale es­sa acquista concreta evidenza nelle frequenti apostrofi che Ariosto rivolge ai suoi ascoltatori, nelle informazioni che da loro, alla fine di alcuni canti, sul futuro svolgimento dell’azione, o nelle considerazioni che accompagnano il racconto di vicende e il comportamento di personaggi, e che si sentono nate da un’intesa esistenziale e culturale comune al poeta e a chi lo ascolta.

La materia cavalleresca - La materia del poema è cavalleresca ed è enunciata da Ariosto nelle ottave iniziali: egli canterà vicende d’armi e di amori che hanno per protagonisti i paladini di Carlo Magno difensori della cristianità e i Saraceni che, guidati dal loro re Agramante, sono giunti con la loro offensiva fin sotto la mura di Parigi.
È una materia che Ariosto trae dai due grandi cicli medioevali, il carolingio e il bretone, nonché da numerosi cantari composti successivamente sulla scia dei cicli stessi. Tale materia, in tempi ad Ariosto vicini, aveva ispirato
due altri poeti, Pulci, autore del Margante maggiore e Boiardo autore dell’Orlando inna­morato. Era stato proprio Boiardo ad aprire la strada che poi Ariosto avrebbe per­corso trionfalmente, cioè ad operare la fusione dei due cicli medioevali, il carolingio e il bretone, attribuendo ai paladini di Carlo Magno, che nelle antiche chanson erano impegnati senza distrazioni e umane debolezze nella difesa della patria e della fede, quelle umane passioni, e soprattutto la passione amorosa, che avevano caratterizzato gli eroi del ciclo bretone. Se, in virtù di tale «contaminazione», nel poema di Boiardo Orlando era diventato innamorato, in quello di Ariosto diventerà addirittura furioso, cioè paz­zo per amore.
La materia cavalleresca era dunque già di casa alla Corte estense. Ma mentre Boiar­do aveva recuperato vicende e personaggi con commossa ammirazione e con seria adesione agli ideali che il mondo cavalleresco aveva rappresentato, Ariosto vede in esso una realtà ormai troppo remota da quella dei suoi tempi, che era la realtà feroce da cui nasceva il pensiero di Machiavelli. Rievoca perciò questo mondo come una favola bel­la e improbabile; e di essa si avvale per esprimere la sua concezione della vita, che è poi la concezione del Rinascimento.
Se la materia romanza alimenta in modo prevalente la molteplice varietà delle vicende del Furioso, nel poema concorrono altre «fonti», cioè episodi e situazioni tratte dagli autori classici.
Ma tutti gli apporti esterni, quale che ne sia l’origine, acquistano originalità per il modo con cui sono rielaborati dall’autore, e per lo spirito nuovo che in essi è infuso.

Le vicende - Le complicate e molteplici vicende del Furioso si possono raccogliere in­torno a tre filoni fondamentali che costituiscono l’ossatura del poema:
1) L’amore del paladino Orlando per Angelica, principessa del Catari: amore perennemente deluso perché Angelica, bellissima e irraggiungibile, gli sfugge, e dal quale sarà provocata la pazzia di Orlando.
2) Gli amori del guerriero saracino Ruggero e della guerriera cristia­na Bradamante, che si concluderà, dopo varie vicissitudini in cui hanno gran parte gli incantesimi del mago Atlante, con la conversione di Ruggero al Cristianesimo e con le nozze dei due. Ed è questo il filone cortigiano-encomiastico del poema, perché dalle nozze di Ruggero e di Bradamante avrà origine la casa estense; e la narrazione delle lo­ro vicende offre il destro al poeta di elogiare in forma di predizione i maggiorenti della famiglia.
3) La guerra fra Cristiani e Saraceni, che, tema quasi esclusivo delle chanson medioevali del Ciclo carolingio, qui costituisce poco più che lo sfondo a tante variegate vicende private.
Intorno a questi tre temi fondamentali si svolgono innumerevoli vicende collaterali, e agisce una miriade di personaggi: azioni e personaggi mossi da Ariosto con un’abilissima e sicura regia che gli consente di mantenere al poema, pur nella varietà delle sue elemento, un’articolata e salda unità.

La «geografia» e la natura nel «Furioso» - In una delle Satire, ironizzando sui suoi gusti sedentari, il poeta così si rappresenta:
Chi vuole andare a torno, a torno vada,
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.
E aggiunge che le terre lontane che non conosce gli basterà percorrerle sulla carta geo­grafica, o, come dice, sulla scorta dell’antico geografo egiziano Tolomeo (II sec. d.C.):
il resto della terra
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Quasi per giocoso contrasto i suoi paladini e le sue dame invece corrono incessantemente il mondo: Angelica viene dall’Oriente, gira per l’Occidente e poi torna in Orien­te; Orlando, Rinaldo, Ruggero, inseguendo i loro personali programmi, lanciano i ca­valli in terre remotissime, e Ruggero ha addirittura a disposizione un cavallo alato, l’Ippogrifo, per superare più rapidamente le distanze. Alle loro avventure non basta neppure la terra: Astolfo, infatti, venuto in possesso dell’Ippogrifo, affronterà il viag­gio sulla luna per recuperare il senno di Orlando che nel frattempo è impazzito. A questa mobilità dei personaggi si accompagna la varietà degli sfondi naturali nei quali essi si muovono: boschi folti e fioriti o cupi e minacciosi, fiumi e ruscelli, lande desolate e rupi marine, o il mare nella sua violenza quando è sconvolto dalle procelle, o anche l’alone lunare e la fredda struttura dell’astro. Il fascino rinascimentale della natura, di cui abbiamo parlato, ha nel poema ariostesco un esempio tipico e fastoso.

Gli «appetiti» degli uomini - Per Ariosto il mondo cavalleresco, nel quale egli non crede più, è un veicolo per esprimere la sua visione della realtà e per rappresentare le perenni e molteplici passioni, i «vari ap­petiti» degli uomini.
Attraverso i personaggi e i loro comportamenti, la natura umana vi è ritratta nella sua molteplice varietà: il bene coesiste accanto al male, la generosità accanto alla grettezza, l’eroismo accanto alla viltà, E il poeta da al bene e al male, al bello e al brutto, uguale spazio e interesse, nella matura coscienza che di questi contrasti è fatta la vita, o, come avrebbe detto il suo contemporaneo Machiavelli, «la verità effettuale». Funzione del poeta non è tanto di giudicarla, ma di capirla e di ritrarla. Scrive Caretti, riprenden­do un giudizio di Croce, che il segreto della poesia ariostesca, e l’ele­mento che da ad essa unità, va ricercato «nel modo adulto e superiore con cui Ario­sto, quasi "occhio di Dio" che scruta e vede e intende l’intero universo, ha saputo con­templare e rappresentare l’armonia cosmica che in sé rilega, senza dissonanza alcuna, tutti gli aspetti della vita, anche i più contraddittori e contrastanti».

Francesco Guicciardini - Francesco Guicciardini fu protagonista della politica italiana negli anni delle guerre tra Francia e Spagna per il dominio della penisola, e ne divenne anche il lucido interprete sul piano storiografico.
Francesco Guicciardini nacque a Firenze nel marzo del 1483, da una famiglia di tradizionale fede medicea che proprio dai Medici aveva ottenuto benessere, autorità ed onori come poche altre famiglie all'interno delle mura fiorentine. Il padre Piero, profondamente legato al filosofo Marsilio Ficino, lo indirizzò verso gli studi di giurisprudenza, studi che Francesco intraprese prima a Firenze, poi a Padova e in ultimo a Pisa.
Nel 1508, Guicciardini cominciò a dedicarsi al mestiere di avvocato e sposò Maria Salviati, nonostante l'opposizione familiare dovuta all'appartenenza di Alamanno Salviati, il padre di lei, al partito degli ottimati.
Dal 1512 al 1514, Guicciardini fu in Spagna come ambasciatore della Repubblica Fiorentina presso Ferdinando il Cattolico e, nel 1515, diventò uno dei 9 membri della Signoria.
Dal 1516 in poi, si susseguirono per Guicciardini gli incarichi per conto di organismi o esponenti ecclesiastici: venne nominato avvocato concistoriale e governatore di Modena da papa Leone X dei Medici nello stesso 1516 e, tra il '21 ed il '26, fu commissario generale dell'esercito pontificio, Presidente della Romagna e diplomatico presso la lega di Cognac, fortemente voluta da papa Clemente VII dei Medici per unire gli stati italiani contro Carlo V.
L'annus horribilis di Francesco Guicciardini fu il 1527, l'anno del sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi al servizio di Carlo V e l'anno in cui cadde la signoria dei Medici, con conseguente ripristino della Repubblica. Guicciardini, la cui tradizione familiare e il cui servizio presso due pontefici medicei lo rendevano particolarmente inviso alla Firenze repubblicana, fu oggetto di numerose accuse (alcune delle quali riuscì a dimostrare false), non poté più ricoprire incarichi e si ritirò a vita privata.
Nel 1529, Guicciardini fu oggetto di un processo da parte della Repubblica e, dopo essere stato condannato in contumacia, gli furono confiscati i beni. Nello stesso anno si trasferì a Roma.
Nel 1530, gli imperiali riportarono i Medici a Firenze dopo un lungo assedio alla città e papa Clemente VII tentò di riorganizzare il governo. Dopo violente lotte di potere all'interno della dinastia medicea, assunse il potere Cosimo de' Medici, il cui assolutismo Guicciardini, tornato nella sua città, cercò inutilmente di frenare.
Morì nel 1540, dal 1538 si era definitivamente ritirato dalla vita politica.

La vita e le opere
Discendente di una delle più importanti famiglie fiorentine, ricevette una solida formazione umanistica. Nel 1512 interruppe la stesura della sua prima opera, le Storie fiorentine, per assumere un incarico diplomatico, un'ambasceria alla corte di Spagna, ove rimase fino al 1514. Qui scrisse l'opera politica il Discorso di Logrogno (1512), una proposta di organizzazione politica dello Stato fiorentino, cui fece seguire poco dopo l'altro discorso Del governo di Firenze dopo la restaurazione dei Medici e un Diario di viaggio. Tornato in Italia ed entrato in buoni rapporti con i Medici di nuovo al potere, nel 1516 ebbe da papa Leone X l'incarico di governatore di Modena (in seguito governerà Reggio Emilia e la Romagna). In quegli anni si dedicò alla stesura del Dialogo del reggimento di Firenze (1525). In campo politico operò soprattutto per favorire l'alleanza tra Francia e Papato in funzione antimperiale (lega di Cognac), al cui interno fu nominato luogotenente generale della Chiesa. Dopo il sacco di Roma (1527), venne rimosso dalle cariche che ricopriva.
Tornato a Firenze, da cui nel frattempo erano stati cacciati i Medici, si dedicò all'attività letteraria: scrisse una parte dei Ricordi (1528) e opere storiche, come le Cose fiorentine (1528-31) e soprattutto le Considerazioni sopra i Discorsi del Machiavelli (1528), rilevanti per comprendere la sua concezione della politica. Bandito dalla città a causa delle sue simpatie medicee, prima si ritirò nella proprietà di Finocchieto e poi si rifugiò in Romagna presso Clemente VII. Quando nel 1530 la Repubblica fiorentina fu abbattuta, Guicciardini riprese i rapporti di collaborazione con il papa, che nel 1531 lo nominò governatore a Bologna e nel 1533 lo volle con sé in un viaggio a Marsiglia per incontrare il re di Francia. Si dedicò quindi all'organizzazione del potere mediceo a Firenze, ma poco alla volta venne emarginato: ritiratosi allora nelle sue proprietà, si dedicò sempre più al lavoro letterario e in particolare alla stesura del suo capolavoro, la Storia d'Italia, iniziata nel 1536 e non del tutto terminata quando lo colse la morte nella villa di Montici.
I "Ricordi"
Nessun'opera di Guicciardini fu pubblicata durante la sua vita: fra le altre, rimasero tra le carte di famiglia più di duecento pensieri e aforismi pubblicati nel 1576 con il nome di Avvertimenti e poi con il titolo ottocentesco di Ricordi. La stesura di queste brevi riflessioni coprì tutto l'arco della vita dello scrittore, dagli anni giovanili (la prima serie di pensieri risale addirittura agli anni spagnoli) fino al 1530. Guicciardini riflette sulla "ruina d'Italia" con una lucidità che esclude ogni riferimento a modelli e teorie: non cerca e non accetta spiegazioni e interpretazioni universali della realtà politica. Egli è convinto che, in linea di massima, i rapporti umani siano caratterizzati da una negatività raramente modificabile e che quindi il risultato di ogni azione politica sia determinato più da mutamenti in superficie che da iniziative che pretendono di agire sui meccanismi profondi del processo storico. A essi si deve abituare "il buon occhio del saggio" per esercitare la "discrezione", cioè la capacità di comprendere e sapersi orientare in mezzo alle infinite variazioni che si propongono allo sguardo di chi deve guidare la cosa pubblica. In questo quadro l'obiettivo da perseguire è costituito dal "particulare", che riguarda sia la sfera personale e si identifica con il "decoro" (cioè la reputazione e l'onore personali e familiari), sia il campo politico, in cui si realizza come il migliore equilibrio possibile tra le violente e oscure forze contrastanti. Il "particulare" non è quindi la trasformistica capacità di fare comunque i propri interessi (come a lungo è stato interpretato), quanto la salvaguardia della propria dignità in tempi di crisi in cui non si riescono a realizzare alti ideali collettivi.
La "Storia d'Italia"
Questa concezione dell'agire umano è il risultato di una drammatica sconfitta non solo di una politica o di una strategia militare, ma di tutta una civiltà. La Storia d'Italia (20 libri) fu pubblicata, con numerosi tagli censori, a Firenze nel 1561 e più completa a Venezia nel 1564. Il periodo considerato è relativamente breve: dal 1492 (morte di Lorenzo il Magnifico) al 1534 (morte di Clemente VII, l'ultimo papa Medici). In questi decenni si passò dalla prosperità e dall'equilibrio del tardo Quattrocento alla rovina totale, drammaticamente rappresentata dal sacco di Roma (1527) da parte delle truppe dell'Impero, raccontato da Guicciardini in pagine di alto valore letterario. Egli individua i principali responsabili di tale disastro in Ludovico il Moro e in papa Alessandro VI, che, mossi da un irrefrenabile desiderio di potenza, chiamarono in Italia gli eserciti stranieri. Più in generale la narrazione mette in risalto il percorso di violenza, di presunzione, di cecità dei principi italiani che si illusero di saper controllare e utilizzare per i propri piccoli interessi dinastici o territoriali forze di gran lunga più potenti di loro. Da queste vicende Guicciardini ricava la convinzione che non è più possibile ragionare in termini campanilistici, in quanto le cause della rovina di ogni singolo stato italiano derivano dalla crisi di tutto il sistema politico. Così dallo studio del passato nasce una riflessione politica proiettata nel futuro: l'identità storico-culturale d'Italia ha bisogno di realizzarsi in un organismo unitario, che egli pensa di tipo federale. Ma Guicciardini non si illuse che ciò potesse avvenire in tempi brevi: nel suo radicale pessimismo egli avvertì costantemente lo scarto tra le teorizzazioni della ragione e la resistenza opposta dalla realtà.
Unica opera che Guicciardini scrisse per la pubblicazione, la Storia d'Italia presenta una lingua di grande nobiltà formale, a cui non fu estraneo il confronto con le Prose della volgar lingua di Bembo.



[1] La lotta per le investiture – Il Papato dopo aver affermato con Nicolò II l’autonomia del pontefice e l’indipendenza della sua elezione dall’Imperatore nel 1059, pretendeva che l’investitura imperiale, o comunque laica, dei dignitari ecclesiastici, spettasse al pontefice o alle altre autorità religiose.
La fase culminante della lotta vide, nel suo cor­so, contrapporsi due personalità eccezionali, l’Imperatore Enrico IV e il papa Gregorio VII.
La conclusione della lotta si ebbe nel 1122 con un accordo tra Enrico V e Callisto II, il Concordato di Worms. Quest’atto stabiliva che:
  • l’investitura spirituale è separata da quella temporale
  • in Italia precede l’investitura del papa, in Germania quella dell’imperatore.
In pratica l’Imperatore, che voleva controllare le nomine dei vescovi conti (senza eredi e quindi facilmente manovrabili alla morte del feudatario) può farlo solo in territorio germanico. L’Italia è controllata dal pontefice che nomina direttamente i vescovi.
Questo segnava nel complesso una vittoria della Chiesa e di coloro che ne avevano voluto la riforma.
[2]  L'organizzazione delle corporazioni - Il compito primario di ogni corporazione era la difesa del monopolio dell’esercizio del proprio mestiere e chi lo praticava, pur non essendovi iscritto, era considerato come una sorta di lavoratore in nero che costituiva un potenziale pericolo verso gli associati.
Si possono individuare alcuni tratti comuni a tutte le corporazioni, riguardanti la loro linea di condotta e gli scopi perseguiti;
· La tutela della qualità dei manufatti; i regolamenti interni imponevano un rigido controllo sull’uso delle materie prime, gli strumenti di lavoro, le tecniche di lavorazione e la lotta ai falsi, cioè a quei prodotti che non rispettavano gli standard qualitativi previsti dalle associazioni;
· Il principio dell’uguaglianza tra i soci, che era volto ad impedire azioni di concorrenza sleale tra i membri della corporazione; in realtà lo svolgimento delle attività era vincolato da un ordine gerarchico, che distingueva gli appartenenti in maestriapprendisti e lavoranti, creando una notevole disparità economica tra gli iscritti;
· La particolare attenzione rivolta verso la formazione delle nuove matricole, attraverso un periodo di apprendistato che variava da città a città; l’apprendista entrava poco più che bambino nella bottega del maestro che si impegnava ad insegnargli tutti i segreti del mestiere
· L’esercizio della giurisdizione sui suoi iscritti, per questo le corporazioni rivendicavano una competenza esclusiva nelle materie di loro competenza, come le cause tra i membri e le infrazioni commesse verso i regolamenti.
[3] Statuti delle arti - Ogni arte aveva un proprio statuto ed era strutturata secondo gli organismi di rappresentanza che diventarono sempre più ristretti:
· Il Corporale: era l’assemblea plenaria degli iscritti che inizialmente si riuniva a scadenze ravvicinate ed eleggeva dei rappresentanti chiamati,consolipriorirettoricapitani ecc. che avevano il compito di gestire tutte attività della corporazione, comprese le pubbliche relazioni con l’esterno;
· Il Consiglio: era un organo di consulta più ristretto con il compito di ratificare o respingere le decisioni dei consoli e si sostituì progressivamente al Corporale, convocato sempre meno frequentemente;
· L'Apparato burocratico: composto in genere da un notaio con funzioni di segretario e addetto al protocollo ed un tesoriere.
[4] Monopolio - Il monopolio è una forma di mercato dove un unico venditore offre un prodotto o un servizio per il quale non esistono sostituti stretti (monopolio naturale) oppure opera in ambito protetto (monopolio legale, protetto da barriere giuridiche). Deriva dal greco μονοσ (monos: traduzione solo) e πολιον (polion, da polein — vendere).
Una situazione di monopolio può crearsi come conseguenza di:
· Esclusività sul controllo di input essenziali;
· Economie di scala, dove la curva del costo medio di lungo periodo è decrescente, ossia che un aumento della produzione, diluendo i costi su più unità di prodotto, ne riduce l'incidenza media (questa condizione può dare luogo a un monopolio naturale);
· Brevetti;
· Licenze governative.
[5] L'Impero sotto gli Staufen – Corrado III salì al trono nel 1138, fu il primo imperatore della dinastia Hohenstaufen o di Svevia, in quanto gli Hohenstaufen erano duchi di Svevia, il cui periodo coincise con la restaurazione della gloria dell'Impero anche sotto le nuove condizioni del concordato di Worms.
Federico I Barbarossa, il secondo della dinastia di Svevia (Imperatore dal 1155 al 1190) chiamò per primo Sacro l'Impero, e con questo indirizzò molto la legislazione. Sotto il Barbarossa, l'idea della Romanità dell'Impero tornò a crescere, quasi fosse un tentativo di giustificare il potere imperiale indipendente dal Papa.
nel 1158 nella Dieta di Roncaglia esplicitamente giustifica i diritti imperiali con la opinione di quattuor doctores del nuovo organismo giuridico dell’Università di Bologna, che cita frasi come: princeps legibus solutus (il Principe non è soggetto alla legge) tratte dal Digestae del Corpus iuris civilis.
Fino alla Lotta per le investiture, ai diritti imperiali ci si era riferiti col termine generico di Regalia, ma a Roncaglia furono enumerati per la prima volta. Questo elenco includeva:
 strade pubbliche,
 tariffe,
 emissione di moneta,
 raccolta di imposte punitive
 nomina e revoca dei funzionari.
Questi diritti furono ora radicati esplicitamente nella Legge Romana, come fosse una legge costituzionale ed il sistema fu anche connesso alla Legge Feudale.
Barbarossa quindi cercò di legare più strettamente i riottosi Duchi Tedeschi all'Impero come un tutt'uno.
Un'altra importante novità costituzionale di Roncaglia fu lo stabilimento di una nuova pace per tutto l'Impero, un tentativo non solo di abolire le vendette private fra i duchi locali, ma anche di legare i subordinati dell'Imperatore ad un sistema di giurisdizione e di persecuzione pubblica degli atti criminali, concetto che all'epoca non era universalmente accettato.
Poiché, dopo la lotta per le investiture, l'Imperatore non poteva più appoggiarsi alla Chiesa per mantenere il potere, gli Staufen concedevano sempre più terra a funzionari che Federico sperava fossero più manovrabili dei Duchi locali. Inizialmente utilizzati soprattutto per servizi di guerra, questi avrebbero formato la base per la futura classe dei Cavalieri, altro appoggio del potere imperiale.
Un altro concetto innovativo per il tempo era la fondazione sistematica di nuove città, da parte dell'Imperatore e da parte dei Duchi locali. Ciò era dovuto parzialmente alla esplosione della popolazione, ma anche alla necessità di concentrare il potere economico in località strategiche, mentre fino ad allora le sole città esistenti erano le antiche di fondazione romana o le più vecchie sedi vescovili. Fra le città fondate nel XII secolo Friburgo, modello economico per molte altre successive, e Monaco.
Il regno dell'ultimo degli Staufen, Federico II, fu per molti aspetti differente da quello dei predecessori. Dopo essere stato incoronato imperatore 1220, rischiò il conflitto con il Papa avendo reclamato il potere su Roma; in modo stupefacente per molti, si impossessò di Gerusalemme nella Crociata del 1228 mentre era ancora scomunicato dal Papa.
Mentre Federico II riportava in alto l'idea mitica dell'Impero, contemporaneamente fece il passo iniziale nel processo che portò poi alla sua disintegrazione. Da un lato si concentrò sulla instaurazione in Sicilia di uno Stato straordinariamente moderno per i tempi, con servizi pubblici, finanze, e sistema giudiziario. Dall'altro lato Federico fu l'Imperatore che concesse i maggiori poteri ai Duchi Tedeschi in due Privilegi che non sarebbero mai più stati revocati dal potere centrale:
 Nel 1220 con Confoederatio cum princibus ecclesiasticis, Federico sostanzialmente cedeva ai Vescovi un certo numero di diritti imperiali(Regalia), fra cui quelli di stabilire tariffe, battere moneta, ed erigere fortificazioni.
 Nel 1232 con Statutem in favorem principum sostanzialmente estendeva questi diritti agli altri territori. Benché molti di questi privilegi esistessero già prima, almeno non erano elargiti in modo generalizzato e definitivo, onde permettere ai Duchi di mantenere l'ordine al Nord delle Alpi mentre Federico voleva concentrarsi sulla sua terra natale in Italia. Nel documento del 1232 per la prima volta i Duchi Tedeschi sono chiamati Domini terrae, proprietari della terra, altro cambio notevole.

[6] Istituzioni: La formazione storica della sovranità statale e l’accentramento del potere politico – Il Re (in origine il feudatario più potente) operò in due direzioni:

· per ridurre sotto il proprio controllo la miriade di poteri feudali indipendenti (della nobiltà, della Chiesa, delle città, delle corporazioni pro­fessionali);

· per estendere il territorio sotto il proprio controllo.

Molte ragioni spingevano verso l’unificazione di ampi territori sotto un unico potere: si trattava di difendersi dalle mire aggressive degli altri feudatari, renden­doli incapaci di nuocere, di arricchire il proprio Stato, annettendo nuovi territori, di procurarsi nuovi mezzi per assoldare eserciti più forti, di assicurare la tran­quillità delle attività commerciali su territori sempre più vasti.
Dove questa politica ebbe successo, si formarono nel corso dei secoli le grandi monarchie nazionali sovrane (come quella inglese, spa­gnola e francese).
Esse accentrarono il potere politico che durante il feudalesimo era sparso tra i vari signori. La sovranità fu il prodotto di questo accentramento.
I poteri amministrativi, giudiziali e legislativi del re - A partire dal 1100 iniziarono a svilupparsi stabili organizzazioni di servi­tori del re. Dapprima essi avevano funzioni in materia finanziaria (il pre-lievo delle imposte) e giudiziaria (la risoluzione delle liti e il manteni­mento della pace nel regno). Col tempo, i servitori del re si moltiplicarono, a causa dell’aumento delle necessità dello Stato (gli ambasciatori, gli eserciti, gli intendenti che controllavano le attività economiche, ecc.). Per il disbrigo delle pratiche e per la decisione delle liti, il re dava pre­cise istruzioni. Si trattava di raccolte di consuetudini locali, di preceden­ti istruzioni, di regole di buon governo, ecc. in cui però, quando occor­reva, si inserivano norme nuove. Qui sta l’origine del potere legislativo.
Le strutture politiche centrali - Il re non poteva seguire tutti gli affari del regno e perciò si avvaleva di coadiutori, ministri o cancellieri. All’inizio, erano altri signori feudali, che aiutavano il re e insieme lo controllavano. In seguito, si trattava di persone qualsiasi di cui il re aveva fiducia, totalmente subordinate alla sua volontà. Questa è l’origine della amministrazione moderna. Un’altra vicenda che si può osservare ovunque è la formazione, pres­so il re, di assemblee che rappresentavano le diverse componenti del regno (i signori feudali, le città, le corporazioni, ecc.). Il re sottopone­va ad esse le questioni più importanti, per ottenerne il consiglio e il consenso. Queste assemblee assumevano nomi diversi: Stati generali in Francia, Cortes in Spagna, Camere dei Comuni e dei Lord in Inghilterra, Parlamenti o Diete altrove. Da loro deriveranno, dopo la Rivoluzione francese, i Parlamenti moderni, eletti dai cittadini.
Anche i Parlamenti furono fattori di accentramento politico. Essi limita­vano il potere del re, ma facevano anche sì che ogni attività politica si svolgesse in un luogo solo, la capitale, e in un ambiente politico ristret­to, fatto di persone che si conoscevano personalmente.
La spersonalizzazione degli uffici stataliColoro che all’inizio esercitavano poteri per conto del re, come suoi coadiutori di fiducia, divennero col tempo funzionari dello Stato al quale prestavano la loro attività, in cambio di una remunerazione. Ciò diede origine a quell’apparato che noi denominiamo burocrazia, cioè l’insieme di persone stipendiate dallo Stato per svolgere i compiti pubblici. La causa di questa trasformazione del vincolo di dipendenza personale dal re in dipendenza impersonale dallo Stato fu l’incremento progressi­vo dei compiti pubblici di cui si è detto.
Per il re, controllare personalmente tutta l’azione dei suoi agenti divenne tanto più difficile quanto maggiore era l’estensione dello Stato e quanto più numerose le sue attività. Egli non poteva conoscere ogni questione e raggiunge­re tempestivamente con i propri ordini tutte le contrade del regno. Non potendo esserci istruzioni del re per ogni affare, caso per caso, divenne necessario inquadrare gli agenti pubblici in strutture burocratiche stabili - gli uffici -, dotate di competenze prestabilite, legate tra di loro da rapporti rigidi di dipendenza, capaci di agire normalmente per proprio conto. Il re stava al vertice e le guidava con regole generali e astratte, cioè con leggi. Alla fedeltà al re dei funzionari veniva così a sostituirsi il rispetto della legge.
[7] I Capetingi - I primi Capetingi avevano poteri limitati sui loro vassalli più potenti, a capo di interi principati. Il dominio reale era ridotto alla sola regione dell'Île-de-France.
Nonostante ciò, i Capetingi furono in grado di rendere ereditaria la successione, grazie all'associazione dei propri discendenti alla corona, quando il sovrano era ancora in vita. Grazie a un'abile politica praticata da molti esponenti della dinastia, garantirono inoltre l'espansione del dominio reale originario sino a trasformarlo in uno dei regni più potenti d'Europa.
Occorre tuttavia sgombrare il campo da equivoci sulla natura di tale dominio. Nel sistema feudale tutti i grandi feudatari del regno sono tenuti all'omaggio nei confronti del sovrano. I vassalli più prestigiosi del re di Francia erano i sovrani di Angiò e d'Inghilterra. Questo Impero plantageneto aveva raggiunto dimensioni ragguardevoli, estendendosi dai Pirenei alla Scozia passando per l'Aquitania, l'Angiò, la Normandia e l'Inghilterra. Considerando i soli domini posti sotto la sua amministrazione diretta il re di Francia era più debole, ma in termini di vassallaggio si trovava effettivamente al vertice del potere feudale. Questa situazione divenne presto intollerabile per i sovrani anglo-angioini, tanto che il contrasto sfociò in due guerre.
I re d'Inghilterra erano vassalli del re di Francia unicamente per i territori che da tale regno dipendevano. Erano invece gli unici signori del regno d'Inghilterra, semplice provincia dell'Impero plantageneto il cui cuore era nell'Angiò; i monarchi inglesi di questo periodo nascevano, trascorrevano la loro vita e venivano sepolti sul continente.
Appena salito al trono, Filippo II dovette dedicarsi interamente ai suoi obiettivi primari:
· la cacciata degli anglo-angioini dal territorio francese
· la modernizzazione dello Stato.
A quell'epoca, i rappresentanti dei Plantageneti erano Riccardo Cuor di Leone e il fratello Giovanni Senzaterra. Il primo morì nel 1199 lasciando al potere il secondo, sul quale si addensarono le nubi di una ventilata invasione dell'Inghilterra (1213).
Benché in posizione di debolezza, Giovanni tentò di reagire formando una coalizione con l'imperatore tedesco Ottone IV e il conte di Fiandra, che era anche re del Portogallo. La marina inglese affondò la flotta francese nel maggio 1213, ma le sorti del conflitto si decisero a terra, a Bouvines.
Il 27 luglio 1214 Filippo II ottenne una decisa vittoria sulla coalizione nella battaglia di Bouvines, segnando una svolta cruciale nella storia dell'Occidente. Da quel momento la Francia si avviò alla centralizzazione,
Nel viaggio di ritorno verso Parigi, il popolo francese rese vivaci omaggi al re vincitore.
Dopo la battaglia di Bouvines, la Francia di Filippo Augusto conobbe un secolo di pace.
[8] Battaglia di Bouvines - La Battaglia di Bouvines del 27 luglio 1214, fu il primo grande conflitto internazionale tra coalizioni di eserciti nazionali in Europa. Nel gioco delle alleanze, orchestrato dal papa Innocenzo III, Filippo Augusto di Francia inflisse ad Ottone IV di Germania e al conte Ferrante di Fiandra una sconfitta così decisiva che Ottone fu deposto e sostituito da Federico II Hohenstaufen. Ferrante fu catturato e imprigionato.
Quanto a Filippo, riuscì ad avere il controllo completo e indiscusso sui territori di Angiò, Bretagna, Maine, Normandia e Turenna, che aveva da poco strappato a Giovanni d'Inghilterra, parente e alleato di Ottone.
[9] La fine della dinastia capetingia – La dinastia capetingia s'interruppe in modo tumultuoso, con il regno successivo di tre dei figli di Filippo IV. Gli scandali legati alle infedeltà coniugali delle nuore del re minarono gravemente il prestigio della monarchia.
In mancanza di eredi maschi in linea diretta per l'ultimo dei Capetingi, il potere venne trasferito al ramo cadetto della Casa di Valois. Questa scelta si scontrava con le ambizioni di Edoardo III, re d'Inghilterra la cui discendenza da Filippo il Bello era attraverso la linea materna. La Legge salica venne usata anche in questo caso dai maggiori feudatari per allontanare la pretesa del re inglese, vista come un grave pericolo per la loro indipendenza. Tale contesa fu la causa diretta della guerra dei cent'anni.
[10]  La guerra dei cent'anni – Durante questo conflitto, il territorio francese fu il campo chiuso di combattimenti sporadici ma accaniti tra i re di Francia e d'Inghilterra. Gli Inglesi erano privilegiati dalla superiorità tattica del proprio esercito e furono in grado di infliggere alla cavalleria francese due sconfitte a Crécy e Poitiers. Carlo V evitò grandi battaglie affidò a valorosi condottieri la riconquista del territorio, riprendendo una a una le piazzeforti nemiche con una strategia di assedi successivi.
Nel 1337 agli Inglesi restava il controllo unicamente della Guyenne e di Bayonne, Calais e Cherbourg. Durante il regno di Carlo VI i grandi del regno stabilirono alleanze in funzione delle proprie strategie personali e la situazione divenne molto difficile. I parenti più prossimi del re, il fratello Luigi I d'Orléans e il potente duca di Borgogna Giovanni senza paura intesero cogliere l'occasione per estendere il proprio potere; ne scaturì un'aspra rivalità culminata nell'assassinio di entrambi i protagonisti e nel tentativo di modificare la successione per scalzare il delfino Carlo VII. Questi venne infatti costretto alla fuga da Parigi, mentre gli Inglesi riuscirono a far nominare il proprio sovrano grazie all'appoggio dei Borgognoni.
Ma la chiave del conflitto risiedeva nella scelta della nazionalità. A causa delle strategie di saccheggi e scorrerie, gli Inglesi erano odiati dal popolo e sostenuti principalmente dagli artigiani e dagli universitari delle città. Il ruolo di Giovanna d'Arco fu in questo contesto più politico che militare, agendo da catalizzatore di questa volontà "di ricacciare gli Inglesi fuori dalla Francia". Giovanna partecipò all'assedio di Orléans e dopo la battaglia di Patay insistette affinché l'incoronazione di Carlo VII si tenesse a Reims. La sua azione consentì di rilegittimare la nascita del re, mettendo a tacere le voci che lo indicavano come figlio naturale del duca d'Orléans e rendendone possibile l'ascesa al trono. Questo fatto spianava la strada verso la riconquista del territorio francese. Il ruolo militare di Giovanna d'Arco fu modesto: nell'inverno del 1429 venne bloccata davanti al borgo di La Charité-sur-Loire prima di essere fatta prigioniera di fronte a Compiègne.
La fine del conflitto era ormai vicina: dopo che Carlo VII si fu rappacificato con i duchi di Borgogna gli Inglesi si trovarono privi di un potente alleato e del sostegno necessario sul terreno, venendo obbligati ad abbandonare la Francia nel 1453.
I re di Francia tornarono allora a godere di prestigio e autorità, anche se si trovarono comunque a fronteggiare avversari temibili quali i duchi di Borgogna, i Granduchi d'Occidente Filippo il Buono e Carlo il Temerario, principali rivali di Carlo VII e del figlio di questi Luigi XI. Ai possedimenti in Borgogna si sono infatti aggiunti i Paesi Bassi, arrivando a costituire uno dei regni più potenti d'Europa.
Alla morte di Carlo il Temerario (1477), però, una parte dei suoi possedimenti andò in eredità alla figlia Maria di Borgogna, moglie di Massimiliano d'Austria, aprendo un nuovo fronte di pericolo.
Con la conclusione del Medio Evo ebbe termine anche l'epoca dei grandi principati: prima il ducato di Borgogna e poi quello di Bretagna.
[11] Luigi XI il Prudente – Re di Francia dal 1461 al 1483, figlio e successore di Carlo VII, rasentò a tal punto i limiti del cinismo, da essere soprannominato il ragno universale. Proseguì l'opera paterna riportando l'unità e la stabilità nel paese dopo le devastazioni della guerra dei Cent'anni.
[12] Carlo VIII – Re dal 1483 al 1498, figlio di Luigi XI e di Carlotta di Savoia, fu affidato dal padre morente alla tutela della sorella Anna e del marito di lei sotto la cui reggenza regnò fino al 1491.
Anna represse agevolmente la guerra folle capeggiata dal duca d'Orléans nel 1488, e preparò l'annessione della Bretagna alla Francia mediante il matrimonio del fratello con la duchessa Anna nel 1491.
Raggiunta la maggiore età, Carlo VIII, sollecitato da vari signori italiani, soprattutto da Ludovico il Moro, diresse le sue mire verso l'Italia, dove aveva ereditato le pretese di Carlo d'Angiò sul regno di Napoli.
La sua impresa, inoltre, tendeva anche al trono di Costantinopoli. Per raggiungere tali scopi pagò la neutralità dei vicini: alla Spagna donò le regioni del Rossiglione e della Cerdaña, all'Austria cedette l'Artois e la Franca Contea, a Enrico VII d'Inghilterra promise 745.000 scudi d'oro.
Facilitato dalle numerose rivalità presenti tra i vari Stati della penisola compì facilmente la sua conquista, anche se si formò presto contro di lui una forte coalizione formata da papa Alessandro VI, Ludovico il Moro ed i Veneziani, che era anche favorita da Ferdinando il Cattolico e da Massimiliano d'Austria, allarmati dai successi francesi. Carlo dovette pertanto abbandonare in fretta la regione di Napoli e battere in ritirata.
L'anno dopo, mentre attendeva alla preparazione finanziaria e diplomatica di una nuova spedizione in Italia, Carlo VIII morì per aver battuto la fronte contro l'architrave d'una porticina del castello d'Amboise.
[13] Reconquista – La Reconquista fu la conquista dei Regni moreschi di Spagna da parte dei sovrani Cristiani, che culminò il 2 gennaio 1492, quando Ferdinando e Isabella, i Re Cattolici, espulsero l'ultimo dei governanti moreschi dalla Penisola Iberica, unendo gran parte di quella che è la Spagna odierna sotto il loro potere.
Dopo l'invasione musulmana dell'Iberia nel 711, i Mori avevano conquistato gran parte della penisola nel giro di cinque anni.
Alcuni secoli dopo i cristiani iniziarono a vedere la conquista come parte di uno sforzo secolare per ripristinare l'unità del Regno Visigoto.
Le battaglie contro i Mori non impedirono ai regni cristiani di combattersi l'un l'altro o di allearsi con i re islamici. I re moreschi spesso avevano mogli o madri nate cristiane.
Negli ultimi anni dell'Al-Andalus, la Castiglia aveva la potenza militare necessaria a conquistare i resti del Regno di Granada.
I Papi chiamarono i cavalieri d'Europa alle crociate nella penisola iberica. Eserciti francesi, navarresi, castigliani, e aragonesi si riunirono nella Battaglia di Las Navas de Tolosa (1212). I cristiani nominarono San Giacomo, loro santo protettore.
I grandi territori concessi in premio agli ordini militari e ai nobili furono le origini del latifondismo nell'odierna Andalusia ed Estremadura.
Il miscuglio di Cristiani, Musulmani ed Ebrei venne ufficialmente cessato dalla limpieza de sangre, termine che, dato il contesto storico completamente diverso, non è accomunabile all'odierna pulizia etnica.
[14] La Riforma imperiale - Nel 1495, una Dieta a Worms in Germania concluse la Riforma imperiale, una raccolta di testi legali tendente a dare qualche struttura all'Impero in via di disgregazione. Tra le altre cose furono istituiti i Circoli Imperiali di Stato e la Corte della Camera Imperiale.
[15] Massimiliano I del Sacro Romano Impero – Massimiliano I d'Asburgo, figlio dell'Imperatore Federico III e di Eleonora del Portogallo, fu imperatore del Sacro Romano Impero.
Nel 1477 sposò, Maria di Borgogna, unica figlia del duca Carlo. Grazie a questa unione Massimiliano ottenne la Contea di Borgogna ed i Paesi Bassi, sebbene la Francia avesse ottenuto il controllo della Borgogna propriamente detta.
Nel 1486 fu eletto Re dei Romani per iniziativa di suo padre
Nel 1490 acquistò il Tirolo e l'Austria interna dal cugino Sigismondo d'Austria.
Nel 1493, con la morte di suo padre, Massimiliano I divenne imperatore del Sacro Romano Impero. ereditò i restanti possedimenti asburgici, riunificando così i territori della casata sposò Bianca Maria Sforza, figlia del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e decise di unirsi alla Lega Santa per far fronte all'intervento del re di Francia Carlo VIII in Italia. Il lungo conflitto che ne derivò sarebbe poi terminato solo dopo la sua morte.
Nel 1495 Massimiliano presiedette il Reichstag a Worms, portando alla Riforma imperiale con la quale si rimodellò la gran parte della costituzione del Sacro Romano Impero.
Nel 1508, Massimiliano assunse di propria iniziativa il titolo di Imperatore Romano Eletto, ponendo così fine alla secolare incoronazione dell'imperatore da parte del papa.
Al fine di ridurre le crescenti pressioni sui confini dell'Impero, Massimiliano stipulò trattati con i sovrani di Francia, Polonia, Ungheria, Boemia e Russia; in particolare, per assicurare agli Asburgo la Boemia e l'Ungheria, Massimiliano I incontrò i re della dinastia Jagellone Ladislao II di Boemia e Ungheria e Sigismondo I di Polonia a Vienna nel 1515.
I matrimoni così organizzati consentirono l'espansione del regno degli Asburgo sui territori dell'Ungheria e della Boemia nel 1526.
Massimiliano morì a Wels ed alla sua morte il titolo imperiale fu concesso a suo nipote Carlo V del Sacro Romano Impero.
Negli anni precedenti Massimiliano aveva nominato la figlia Margherita d'Austria tutrice dei nipoti Carlo e Ferdinando.
[16] La corte feudale - La residenza del signore, la corte, comin­ciò ad essere anche un centro culturale do­ve si crearono le condizioni per la nascita di una cultura laica capace di differen­ziarsi e anche di contrapporsi a quella ec­clesiastica. Le corti dei grandi feudatari che conquistarono una vasta autonomia dall’autorità reale o imperiale nel XI seco­lo, necessitavano di funzionari e intellet­tuali alle dipendenze del signore, il quale chiedeva loro anche opere letterarie per esaltare e celebrare i valori feudali, gli ideali della cavalleria, i costumi e il gusto che nobilitavano il mondo del signore, dei cavalieri e delle dame della corte.
Na­sce così una nuova figura, quella del letterato di corte che abbandona il latino della cultura ecclesiastica per il volgare e che trasferisce e trasfigura in prosa e in poesia i valori della cortesia, cioè l’insieme dei comportamenti, delle regole, degli ideali che contraddistinguevano la cerchia privilegiata delle grandi corti, prima proven­zali poi anche di quelle tedesche e dell’Italia settentrionale.
[17] Le UniversitàIl risveglio delle città dopo il Mille portò al potenziamento delle scuole collegate ai vescovadi alle quali si af­fiancarono scuole laiche. In tutte si im­partiva l’insegnamento elementare della grammatica latina, svolto su testi per lo più di carattere religioso.
Studi di livello su­periore erano possibili nelle città in cui si trovavano abbazie di antica tradizione, in particolare Parigi (abbazia di S. Vittore) e Bologna (abbazia di S. Felice).
Le discipli­ne che s’insegnavano erano quelle eredi­tate dalle scuole di Roma antica: gramma­tica, retorica dialettica (chiamate il trivio, «incrocio delle tre strade»), aritmetica, geo­metrìa, astronomia, musica (quadrivio); al­tri insegnamenti come la medicina e il dirit­to cominciarono poi ad essere oggetto di studio, mentre la teologia continuava ad essere la disciplina considerata al di sopra di tutte le altre.
Quando queste scuole per il numero degli studenti, in genere legato alla fama degli insegnanti, divenivano centri di studio famosi, ricevevano dal­l’autorità ecclesiastica o politica il ricono­scimento di studium generale(come av­venne per Bologna e Parigi, e per Salerno, centro degli studi di medicina).
La deno­minazione di universitas indicò inizialmente la corporazione degli studenti (a Bologna) o degli insegnanti (a Parigi), vale a dire l’organizzazione che pagava i mae­stri, gestiva la copiatura dei testi e tutto quanto era legato ai bisogni dell’univer­sità.
La Chiesa, dopo un’iniziale diffiden­za verso fonti d’insegnamento che pote­vano contrapporsi alle scuole ecclesiasti-che, cercò di assumerne il controllo e a po­co a poco impose la sua giurisdizione sul­le università facendo accettare il principio che solo la Chiesa poteva dare alla fine de­gli studi la licentia docendi (abilitazione all’insegnamento) valida per tutti i paesi della cristianità.
[18] La Scolastica
[19]  San Francesco d’Assisi - Nacque ad Assisi nel 1182 e morì alla Porziuncola, presso Assisi, nel 1226. Figlio di un ricco mercante, dopo una giovinezza mondana e dissipata, rinunciò a tutte le ricchezze, e fece voto di povertà, raccogliendo intorno a sé numerosi compagni. Fondò l’ordine dei Frati minori, cui segui l’ordine femminile delle Clarisse, fondato da Santa Chiara dietro ispirazione di Francesco, e infine l’ordine dei Terziari per i secolari d’ambo i sessi. Vissuto in un’età di lotte feroci, San Francesco predicò l’amore fra gli uomini, e, in tempo di spietate ambizioni che si risolvevano in sopraffazioni dei pochi sui molti, esaltò l’umiltà e la povertà. Volle richiamare alla povertà evangelica anche la Chiesa,invischiata in interessi mondani, proponendo l’esempio dell’ordine da lui fondato.
[20] Jacopone da Todi - Jacopo de’ Benedetti, chiamato da Todi dal nome della sua città natale, visse dal 1230 al 1306. Studiò legge a Bologna, poi tornò a Todi dove fece con successo l’avvocato e il notaio. Condusse vita mondana e brillante finché, dopo la morte della moglie avve­nuta in tragiche circostanze, si diede a vita ascetica. Entrò nell’ordine francescano, e fu tra coloro (gli Spirituali) che chiesero un irrigidimento della regola francescana. Avver­so al papa Bonifacio VIII che aveva condannato gli Spirituali, partecipò a una congiu­ra contro di lui; e fu per questo imprigionato e scomunicato (1298). Dalla prigionia e dalla scomunica lo liberò il successore di Bonifacio Vili, Benedetto XI. Fu autore di numerose laudi che rivelano una profonda tensione religiosa, e, pur nel tono spesso vo-lutamente popolare, una cultura aristocratica. Diversa da quella francescana è la religiosità che si esprime nelle liriche di Jacopone da Todi.
Mentre San Francesco è proteso verso gli aspetti del creato, nei quali vede Dio manifestarsi, Jacopone invece tende a stabilire un rapporto diretto con Dio e a perdersi misticamente in lui. E perché questo rapporto sia più intenso ed esclusivo egli si estra­nea con l’animo dal mondo terreno e dai suoi valori, o, se vi rivolge l’attenzione, ne mette a fuoco gli aspetti più negativi.
Non mancano tuttavia alcune eccezioni a questa tendenza prevalente; fra esse la più fe­lice artisticamente è la lauda Il pianto della Madonna.
[21] Guido Guinizelli - Poco sappiamo della sua vita. Nacque a Bologna fra il 1230 e il 1240; fu giurista. Im­pegnato politicamente, militò nella fazione ghibellina. Fu perciò mandato in esilio con gli altri ghibellini bolognesi nel 1274 e in esilio morì nel 1276 a Monselice. La sua poesia lo rivela uomo di ricca cultura, oltre che di gusto raffinato e di vivace fantasia. Dante lo chiama «padre», e lo considera iniziatore della lirica stilnovistica. E in realtà la sua canzone Al cor gentil è una specie di manifesto poetico dello «Stil no­vo». In essa sono proposti i due temi che diventeranno tipici dello Stil novo: il tema della donna-angelo e quello della nobiltà (o gentilezza) da identificarsi con la nobiltà dell’animo.
[22] Guido Cavalcanti - Nacque a Firenze da famiglia nobile fra il 1255 e il 1259. Come il suo amico Dante, fu guelfo di parte bianca, e fu appassionato uomo di fazione, tanto che, per la sua violen­ta partecipazione a scontri con esponenti della fazione avversa, nel 1300 fu mandato in esilio a Sarzana, dove si ammalò di febbri malariche. Morì a Firenze nello stesso anno, 1300, subito dopo essere stato richiamato in patria.
«Primo amico» di Dante, secondo la definizione data da Dante stesso, Guido Cavalcanti fu uomo solitario, di gusti aristocratici e di aristocratica cultura. Le sue riflessioni filosofi-che pare approdassero alla negazione dell’esistenza di Dio. Poeticamente fu la voce più in­tensa e originale del gruppo dello Stil novo.
La sua concezione dell’amore non coincide sempre con quella comune alla maggior parte degli stilnovisti: se a volte l’amore è anche da lui rappresentato come mezzo di elevazione, più frequentemente - e nelle liriche migliori - Cavalcanti lo sente come una forza distruttiva che sconvolge e devasta la vita dell’uomo.
[23] La cornice - Una caratteristica significativa presente nelle raccolte orientali entrò a far parte anche del nuovo genere narrativo elaborato da Boccaccio: l’in­serimento delle novelle in una cornice, all’interno, cioè, di una struttura por­tante, di una narrazione principale, che includesse i vari racconti proprio come una cornice racchiude un quadro, a garanzia dell’unitarietà dell’opera. Nelle Mille e una notte, ad esempio, la narrazione-cornice era rappresentata dalla vicenda della principessa Sherazade che, per ritardare la propria condanna a morte, teneva desta ogni sera la curiosità del sultano con un nuovo racconto; nel Decameron di Boccaccio, invece, sette fanciulle e tre giovani fiorentini si ritirano in una villa, fuori città, per sfuggire al contagio della terribile peste del 1348 e deci­dono di raccontarsi a turno, per dieci giorni, una novella ciascuno.

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