Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

sabato 20 ottobre 2012

Il concetto di Bene culturale. di Massimo Capuozzo

Il termine “Beni Culturali”, insieme con quello di “Patrimonio culturale”, è molto diffuso, usato spesso abusato. Probabilmente non tutti quelli che utilizzano questo termine sono in grado di fornire una definizione formale di questo termine.
Le principali leggi in materia di tutela, almeno fino al Testo Unico sui beni culturali del 1999, non hanno fornito una definizione esauriente di  tali termini; il problema è analogo a quello di un altro termine e cioè quello di “arte”.
In mancanza di una definizione formale di bene culturale, si può affermare di individuarlo in tutto quello che la società riconosce come tale: questo potrebbe pure essere accettato se non si creassero problemi di interpretazioni: accettando, infatti, la suddetta definizione, si fornirebbe un concetto mutevole con i tempi e la cultura (basti pensare a cosa è avvenuto nel tempo per quello di arte), quello che oggi sarebbe definito un bene culturale potrebbe non esserlo più domani solo perché è cambiata la cultura (o comunque la classe dominante che potrebbe detenere il monopolio delle espressioni culturali) oppure diventare degno di tutela.
In campo internazionale solo nel 1954, durante la Convenzione dell’Aja, il termine “patrimonio culturale” sostituì quello di “cose di interesse storico, artistico, archeologico e le bellezze ambientali” indicato nell’art. 1 della legge 1089 del 1° giugno del 1939 “Tutela delle cose di interesse artistico e storico”.
In Italia solo nel 1967 la dizione patrimonio culturale apparve per la prima volta in un atto ufficiale: a conclusione dei lavori della “Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico, archeologico e del paesaggio” meglio nota come “Commissione Franceschini”, nel documento conclusivo fu proposta per la prima volta la definizione di "patrimonio culturale" e quindi di bene culturale: “Appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni aventi come riferimento alla storia della civiltà. Sono assoggettati alla legge i Beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”.
La Commissione proponeva inoltre una classificazione dei seguenti beni:
1.      beni archeologici “Si intendono per beni archeologici, ai fini della legge, indipendentemente dal loro pregio artistico, le cose immobili e mobili costituenti testimonianza storica di epoche, di civiltà, di centri od insediamenti la cui conoscenza si attua preminentemente attraverso scavi e rinvenimenti.
2.      beni artistici e storici “Sono beni culturali d' interesse artistico o storico le cose mobili o immobili di singolare pregio, rarità o rappresentatività, aventi relazione con la storia culturale dell'umanità.
3.      Beni ambientali “Si considerano beni culturali ambientali le zone corografiche costituenti paesaggi, naturali o trasformati dall'opera dell'uomo, e le zone delimitabili costituenti strutture insediative, urbane e non urbane, che, presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà, devono essere conservate al godimento della collettività. Sono specificamente considerati beni ambientali i beni che presentino singolarità geologica, floro-faunistica, ecologica, di cultura agraria, di infrastrutturazione del territorio, e quelle strutture insediative, anche minori o isolate, che siano integrate con l'ambiente naturale in modo da formare un'unità rappresentativa.” 
4.      Beni archivistici “Sono oggetto di questo titolo le fonti documentarie dell'attività dei pubblici poteri sotto specie di documenti prodotti, ricevuti od acquisiti in svolgimento della loro attività; e altresì quelle della attività di ogni altro soggetto il cui notevole lavoro valore di testimonianza storica ne raccomandi la conservazione.
5.      Beni librari “Sono beni culturali di interesse librario: a) i volumi manoscritti di particolare importanza per antichità, valore paleografico, storico, letterario, scientifico, artistico; b) i documenti relativi alla produzione letteraria e delle altre opere dell'ingegno anche in ordine alle persone e all'ambiente, ivi compresi gli autografi, i carteggi, gli inediti, i lavori preparatori; c) gli incunaboli, i libri rari, i libri di pregio; d) le incisioni, le carte geografiche, i manifesti, il materiale filatelico, le fotografie ed ogni altra opera comunque ottenuta con mezzi grafici o meccanici che presenti particolare importanza ai fini della lettera a) nonché le loro raccolte di particolare rappresentatività; e) le legature di particolare pregio documentario o artistico;
6.      Centri storici urbani. “In particolare sono da considerare Centri storici urbani quelle strutture insediative urbane che costituiscono unità culturale o la parte originaria e autentica di insediamenti, e testimonino i caratteri di una viva cultura urbana.
La definizione proposta dalla Commissione Franceschini è dunque molto estensiva soprattutto nella parte che dice: “ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà può essere interpretata in modo estensivo, in quanto gran parte delle cose che ci circondano, sono in qualche modo testimonianza di civiltà”.
Lo stesso concetto di “testimonianza di civiltà” è stato ripreso nel D.L. 31 marzo 1998, n. 112 dove all’art. 148 è data la seguente definizione di beni culturali: “Si intendono "beni culturali", quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà
Dall’espressione iniziale del 1939 “cose d’interesse storico, artistico e archeologico” si arriva quindi al concetto molto ampio di bene culturale, definizione che abbraccia tutto ciò che acquista significatività documentaria di civiltà quindi può essere accettata anche la seguente definizione, anch’essa in senso onnicomprensiva come le precedenti: si definisce Bene culturale “Tutto ciò che costituisce una  testimonianza, storicamente significativa, della civiltà  umana”.
Secondo questa definizione dunque un bene culturale non è solo, un quadro di Tiziano, ma anche un utensile artigianale non più in uso, in quanto questi costituisce una testimonianza storica di un certo periodo.
Quindi tutto è cultura: una penna stilo, una lattina di coca cola, una canzone, un libro, un radioricevitore, un costume tipico, una vanga, un paio di scarpe e pure i sacchetti di plastica che tanto abbelliscono il nostro paesaggio. Forse potrà sembrare esagerata l’affermazione che una lattina di coca cola sia un bene culturale, ma è proprio quello che sta avvenendo per alcune bottiglie di coca cola degli anni 40, le poche rimaste in circolazione sono oggetto di collezione ed è difficile pensare che non costituiscano una testimonianza storica del nostro secolo, lo stesso vale per i vecchi grammofoni o per le radio degli anni trenta; ecco quindi che dovrebbe venire il sospetto che le attuali lattine di coca cola possano diventare tra 50, 100, o forse più anni, testimonianza documentale del nostro tempo e quindi degni di tutela.
Ma se tutto è cultura, la tutela dei beni culturali è vista solo nell’ottica di tutelare quelle testimonianze della cultura che assumono rilevanza tale da essere meritevoli di tutela; ecco quindi la necessità di individuare dei criteri delimitativi che, all’interno dei beni culturali, individuino quelli tutelabili.
In Italia, fino al 1999 i criteri per delimitare i beni suscettibili di tutela erano dati principalmente dall’articolo 1 della legge 1089 del 1° giugno del 1939 “Tutela delle cose di interesse artistico e storico”.
Art. 1: Sono soggette alla presente legge le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi: a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b)   le cose di interesse numismatico; c)    i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi carattere di rarità e di pregio.
Vi sono pure comprese le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico.
Non sono soggette alla disciplina della presente legge le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni.
Con l’avvento del Testo Unico sui beni culturali l’articolo è stato sostituito dall’art. 2 del T.U:
Articolo 1 - Oggetto della disciplina
I beni culturali che compongono il patrimonio storico e artistico nazionale sono tutelati secondo le disposizioni di questo Titolo, in attuazione dell'articolo 9 della Costituzione.
Articolo 2 Patrimonio storico, artistico, demo-etno-antropologico, archeologico, archivistico, librario
1. Sono beni culturali disciplinati a norma di questo Titolo:
a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, o demo-etno-antropologico;
b) le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante;
c) le collezioni o serie di oggetti che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico;
d) i beni archivistici;
e) i beni librari.
2. Sono comprese tra le cose indicate nel comma 1, lettera a):
a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà;
b) le cose di interesse numismatico;
c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe, le incisioni aventi carattere di rarità e pregio;
d) le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico;
e) le fotografie con relativi negativi e matrici, aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico;
f) le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico;
3. Sono comprese tra le collezioni indicate nel comma 1, lettera c), quali testimonianze di rilevanza storico-culturale, le raccolte librarie appartenenti a privati, se di eccezionale interesse culturale.
4. Sono beni archivistici:
a) gli archivi e i singoli documenti dello Stato.
b) gli archivi e i singoli documenti degli enti pubblici;
c) gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono notevole interesse storico.
5. Sono beni librari le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato e degli enti pubblici, quelle indicate nel comma 3 e, qualunque sia il loro supporto, i beni indicati al comma 2, lettere c) e d).
6. Non sono soggette alla disciplina di questo Titolo, a norma del comma 1, lettera a), le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni. 
Il legislatore però, tenendo conto di alcune considerazioni specifiche che la legge 1089 aveva definito per alcune categorie di beni ha voluto inserire il seguente articolo:
Articolo 3 – Categorie speciali di beni culturali.
1. Indipendentemente dalla loro inclusione nelle categorie elencate all'articolo 2, sono altresì beni culturali ai fini delle specifiche disposizioni di questo Titolo che li riguardano:
a) gli affreschi, gli stemmi, i graffiti, le lapidi, le iscrizioni, i tabernacoli e gli altri ornamenti di edifici, esposti o non alla pubblica vista
b) gli studi d'artista definiti nell'articolo 52;
c) le aree pubbliche, aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale, individuate a norma dell'articolo 53;
d) le fotografie e gli esemplari delle opere cinematografiche, audiovisive o sequenze di immagini in movimento o comunque registrate, nonché le documentazioni di manifestazioni sonore o verbali comunque registrate, la cui produzione risalga ad oltre venticinque anni
e) i mezzi di trasporto aventi più di settantacinque anni;
f) i beni e gli strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica aventi più di cinquanta anni.
Infine, il Testo Unico, rende in qualche modo omaggio alla definizione “estesa” di bene culturale, per questo ha inserito il seguente articolo:
Articolo 4 Nuove categorie di beni culturali.
1. Beni non ricompresi nelle categorie elencate agli articoli 2 e 3 sono individuati dalla legge come beni culturali in quanto testimonianza avente valore di civiltà.
Articolo 10.
Beni culturali
1. Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
2. Sono inoltre beni culturali:
a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
b) gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
c) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico.
3. Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13:
a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1;
b) gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante;
c) le raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale;
d) le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose;
e) le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico.
4. Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a):
a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà;
b) le cose di interesse numismatico;
c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio;
d) le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio;
e) le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio;
f) le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico;
g) le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico;
h) i siti minerari di interesse storico od etnoantropologico;
i) le navi e i galleggianti aventi interesse artistico, storico od etnoantropologico;
l) le tipologie di architettura rurale aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale.
5. Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente Titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni.
Articolo 11
Beni oggetto di specifiche disposizioni di tutela.
1. Fatta salva l’applicazione dell’articolo 10, qualora ne ricorrano presupposti e condizioni, sono beni culturali, in quanto oggetto di specifiche disposizioni del presente Titolo:
a. Gli affreschi, gli stemmi, i graffiti, le lapidi, le iscrizioni, i tabernacoli e gli altri ornamenti di edifici, esposti o non alla pubblica vista, di cui all’articolo 50, comma 1;
b. gli studi d’artista, di cui all’articolo 51;
c. Le aree pubbliche di cui all’articolo 52;
d. Le opere di pittura, di scultura, di grafica e qualsiasi oggetto d’arte di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, di cui agli articoli 64 e 65;
e. le opere dell’architettura contemporanea di particolare valore artistico, di cui all’articolo 37;
f. Le fotografie, con relativi negativi e matrici, gli esemplari di opere cinematografiche, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento, le documentazioni di manifestazioni, sonore o verbali, comunque realizzate, la cui produzione risalga ad oltre venticinque anni, di cui all’articolo 65;
g. I mezzi di trasporto aventi più di settantacinque anni, di cui agli articoli 65 e 67, comma 2;
h. I beni e gli strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica aventi più di cinquanta anni, di cui all’articolo 65;
i. Le vestigia individuate dalla vigente normativa in materia di tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale, di cui all’articolo 50, comma 2.

venerdì 19 ottobre 2012

Lavoro di eccellenza per gli studenti di I, II e III B Marketing e III A Turistico

CLICCA: I Monti Lattari

Gli studenti con un miglior curriculum scolastico saranno ammessi a svolgere un lavoro di eccellenza che comporterà un credito scolastico sui voti delle discipline di Italiano, Storia e Storia dell'arte.

Il progetto prevede il censimento delle opere d'arte sul territorio compreso dal bacino idrografico del fiume Sarno ed il parco naturale regionale dei monti Lattari e nelle fattispecie i seguenti comuni
Costiera Amalfitana :* Vietri* Cetara* Tramonti* Maiori* MinoriAtraniAmalfiScalaRavelloFuroreConca dei MariniPraianoCava dei TirreniPositanoPenisola Sorrentina: 
Vico EquenseMeta di SorrentoPiano di SorrentoPimonteGragnano* Lettere
AgerolaCastellammare di StabiaAgro Nocerino
AngriNocera InferioreSant’Egidio del MontalbinoPaganiCorbara
* Nocera Superiore

Gli studenti impegnati nel progetto dovranno censire le opere di interesse culturale a seconda della scansione del programma di storia per le classi I, II e III B marketing e della III A turistico.
a seconda del lavoro svolto il sottoscritto attribuirà da 0 a 2 punti sulla media finale delle materie di sua competenza.
Ogni scheda dovrà contenere l'epoca, l'aurore, l'opera, la localizzazione, il comune di pertinenza.

Massimo Capuozzo

domenica 7 ottobre 2012

Racconti per la classe I di Massimo Capuozzo


Le leggende del castello nero
da Racconti fantastici[1] di Igino Ugo Tarchetti[2]
Non so se le memorie che io sto per scrivere possano avere interesse per altri che per me, - le scrivo ad ogni modo per me. Esse si riferiscono pressoché tutte ad un avvenimento pieno di mistero e di terrore, nel quale non sarà possibile a molti rintracciare il filo di un fatto, o desumere[3] una conseguenza, o trovare una ragione qualunque. Io solo il[4] potrò, io attore e vittima a un tempo.
Incominciato in quell’età in cui la mente è suscettibile delle allucinazioni più strane e più paurose, continuato, interrotto e ripreso dopo un intervallo di quasi venti anni, circondato di tutte le parvenze dei sogni, compiuti, - se così si può dire d’una cosa che non ebbe principio evidente - in una terra che non era la mia e alla quale mi avevano attratto delle tradizioni piene di superstizioni e di tenebre, io non posso considerare questo avvenimento imperscrutabile della mia vita che come un enigma[5] insolvibile, come l’ombra di un fatto, come una rivelazione incompleta, ma eloquente d’un’esistenza trascorsa.
Erano fatti, od erano visioni? L’uno e l’altro - né l’uno né l’altro forse. Nell’abisso che ha inghiottito il passato non vi sono più fatti od idee, vi è il passato: i grandi caratteri delle cose si sono distrutti come le cose, e le idee si sono modificate con esse - la verità è nell’istante - il passato e l’avvenire sono due tenebre che ci avviluppano da tutte le parti, e in mezzo alle quali noi trasciniamo, appoggiandoci al presente che ci accompagna e che viene con noi, come distaccato dal tempo, il viaggio doloroso della vita.
Ma abbiamo noi avuta una vita antecedente? Abbiamo previssuto in altro tempo, con altro cuore e sotto un altro destino, alla esistenza dell’oggi? Vi fu un’epoca nel tempo, nella quale abbiamo abitato quei luoghi che ora ignoriamo, amato quegli esseri che la morte ha rapito da anni, vissuto fra quelle persone di cui vediamo oggi le opere, o cerchiamo la memoria nelle storie o nell’oscurità delle tradizioni? Mistero!
E nondimeno... sì, io ho sentito spesso qualche cosa che mi parlava d’un’esistenza trascorsa, qualche cosa di oscuro, di confuso, è vero, ma di lontano, di infinitamente lontano. Vi sono delle rimembranze nella mia mente che non possono essere contenute in questo limite angusto della mia vita, per giungere alla cui origine io devo risalire la curva degli anni, risalire molto lontano… due o tre secoli…
Anche prima d’oggi mi era avvenuto più volte ne’ miei viaggi di arrestarmi in una campagna e di esclamare: «Ma io ho veduto già questo sito, io sono già stato qui altre volte!… questi campi, questa valle, questo orizzonte io li conosco!» E chi non ha esclamato talora, parendogli di ravvisare in qualche persona delle sembianze già note: «Quell’uomo l’ho già veduto: dove? quando? chi è egli? non lo so, ma per fermo noi ci siamo veduti altre volte, noi ci conosciamo!»
Nella mia infanzia vedeva spesso un vecchio che certo aveva conosciuto fanciullo, da cui certo era stato conosciuto già vecchio: non ci parlavamo, ma ci guardavamo come persone che sanno di conoscersi da tempo.
Lungo una via di Poole[6], rasente la spiaggia della Manica, ho trovato un sasso sul quale mi rammento benissimo di essermi seduto, saranno circa settant’anni, e ricordo che era un giorno triste e piovoso, e vi aspettava una persona di cui ho dimenticato il nome e le sembianze, ma che mi era cara.
In una galleria di quadri a Graz[7] ho veduto un ritratto di donna che io ho amato, e la riconobbi subito benché ella fosse allora più giovine, e il ritratto le fosse stato fatto forse vent’anni dopo la nostra separazione. La tela portava la data del 1647: press’a poco[8] a quell’epoca, risale la maggior parte di queste mie memorie.
Vi fu un tempo della mia fanciullezza durante il quale non poteva ascoltare la cadenza di certe canzoni che cantano da noi le donne di campagna nelle fattorie, senza sentirmi trasportare ad un tratto in un’epoca così remota della mia vita, che non avrei potuto risalirvi anche moltiplicando un gran numero di volte gli anni già vissuti nell’esistenza presente. Bastava che io ascoltassi quella nota per cadere sull’istante in uno stato come di paralisi, come di letargia[9] morale che mi rendeva estraneo a tutto ciò che mi circondava, qualunque fosse lo stato d’animo in cui essa mi avesse sorpreso. Dopo i venti anni non ho più riprovato quel fenomeno. Non aveva io più ascoltata quella nota? o la mia anima, già abbastanza immedesimata colla vita presente, si era resa insensibile a quel richiamo?
O che la mia natura è inferma, o che io concepisco in modo diverso dagli altri uomini, o che gli altri uomini subiscono, senza avvertirle, le medesime sensazioni. Io sento, e non saprei esprimere in qual guisa[10], che la mia vita - o ciò che noi chiamiamo propriamente con questo nome - non è incominciata col giorno della mia nascita, non può finire con quello della mia morte: lo sento colla[11] stessa energia, colla stessa pienezza di sensazione con cui sento la vita dell’istante, benché ciò avvenga in modo più oscuro, più strano, più inesplicabile. E d’altra parte come sentiamo noi di vivere nell’istante? Si dice, io vivo. Non basta: nel sonno non si ha coscienza dell’esistere - e nondimeno si vive.
Questa coscienza dell’esistere può non essere circoscritta esclusivamente negli stretti limiti di ciò che chiamiamo la vita. Vi possono essere in noi due vite - e sotto forme diverse la credenza di tutti i popoli e di tutte le epoche - l’una essenziale, continuata, imperitura forse, l’altra a periodi, a sbalzi più o meno brevi, più o meno ripetuti: l’una è l’essenza l’altra è la rivelazione, è la forma. Che cosa muore nel mondo? La vita muore, ma lo spirito, il segreto, la forza della vita non muore: tutto vive nel mondo.
Ho detto il sonno. E che cosa è il sonno? Siamo noi ben certi che la vita del sonno non sia una vita a parte, un’esistenza distaccata dall’esistenza della veglia? Che cosa avviene di noi in quello stato? Chi lo sa dire? Gli avvenimenti a cui assistiamo o prendiamo parte nel sogno[12] non sarebbero essi reali? Ciò che noi chiamiamo con questo nome non potrebbe essere che una memoria confusa di quegli avvenimenti?… Pensiero spaventoso e terribile! Noi forse, in un ordine diverso di cose, partecipiamo a fatti, ad affetti, ad idee di cui non possiamo conservare la coscienza nella veglia; viviamo in altro mondo e tra altri esseri che ogni giorno abbandoniamo, che rivediamo ogni giorno.
Ogni sera si muore di una vita, ogni notte si rinasce d’un’altra. Ma ciò che avviene di queste esistenze parziali, avviene forse anche di quell’esistenza intera e più definita che le comprende.
Gli uomini hanno sempre rivolto lo sguardo all’avvenire, mai al passato; al fine, mai al principio; all’effetto, mai alla causa; e non di meno quella porzione della vita a cui il tempo può nulla togliere o aggiungere, quella su cui la nostra mente avrebbe maggiori diritti a posarsi, e dalla cui investigazione potrebbe attingere le più grandi compiacenze, e gli ammaestramenti più utili, è quella che è trascorsa in un passato più o meno remoto. Perocché[13] noi abbiamo vissuto, noi viviamo, vivremo.
Vi sono delle lacune tra queste esistenze, ma saranno riempite. Verrà un’epoca in cui tutto il mistero ci sarà rivelato; in cui si spiegherà tutto intero ai nostri occhi lo spettacolo di una vita, le cui fila incominciano nell’eternità e si perdono nell’eternità; nella quale noi leggeremo, come sopra un libro divino, le opere, i pensieri, le idee concepite o compiute in un’esistenza trascorsa, o in una serie di esistenze parziali che abbiamo dimenticate.
Se gli altri uomini serbino o no questa fede, non so; ma ciò non potrebbe né fortificare, né abbattere il mio convincimento. Ad ogni modo, ecco il mio racconto.
Nel 1830 io aveva quindici anni, e conviveva colla famiglia in una grossa borgata del Tirolo, di cui alcuni riguardi personali mi costringono a sopprimere il nome. Non erano passate più di tre generazioni dacché i miei antenati erano venuti ad allogarsi[14] in quel villaggio: essi vi erano bensì venuti dalla Svizzera, ma la linea retta della famiglia era oriunda della Germania: le memorie che si conservavano della sua origine erano sì inesatte e sì oscure, che non mi fu mai dato di poterne dedurre delle cognizioni ben definite: ad ogni modo, mi preme soltanto di accertare questo fatto, ed è che il ceppo della mia casa era originario della Germania.
Eravamo in cinque: mio padre e mia madre, nati in quel villaggio, vi avevano ricevuto quell’educazione limitata e modesta che è propria della bassa borghesia. Vi erano bensì delle tradizioni aristocratiche nella mia famiglia, delle tradizioni che ne facevano risalire l’origine al vecchio feudalismo sassone; ma la fortuna della nostra casa si era talmente ristretta che aveva fatto tacere in noi ogni istinto di ambizione e di orgoglio. Non vi era differenza di sorta tra le abitudini della mia famiglia e quelle delle famiglie più modeste del popolo; i miei genitori erano nati e cresciuti tra di esse, la loro vita era tutta una pagina bianca, né io aveva potuto attingere dalla loro convivenza, né trarre dal loro metodo di educazione alcuna di quelle idee, di quelle memorie di fanciullezza che predispongono alla superstizione e al terrore.
L’unico personaggio la cui vita racchiudeva qualche cosa di misterioso e d’imperscrutabile, e che era venuto ad aggiungersi, per così dire, alla mia famiglia, era un vecchio zio legato a noi, dicevasi[15], da una comunanza d’interessi, di cui però non ho potuto decifrarmi in alcun modo le ragioni, dopo che, e per la morte di lui e per quella di mio padre, io venni in possesso della fortuna della mia casa.
Egli toccava allora - e parlo di quell’età a cui risalgono queste mie memorie - i novant’anni. Era una figura alta e imponente, benché leggermente curvata; aveva tratti di volto maestosi, marcati, direi quasi plastici; l’andamento fiero quantunque vacillante per vecchiaia, l’occhio irrequieto e scrutatore, doppiamente vivo su quel viso, di cui gli anni avevano paralizzata la mobilità e l’espressione.
Giovine ancora, aveva abbracciato la carriera del sacerdozio, spintovi dalle pressioni insistenti della famiglia; poi aveva buttata la tonaca e s’era dato al militare; la rivoluzione francese lo aveva trovato nelle sue file; egli aveva passato quarantadue anni lontano dalla sua patria, e quando vi ritornò - poiché non aveva rotti i voti contratti colla Chiesa - riprese l’abito di prete che portò senza macchie e senza affettazione di pietà fino alla morte.
Lo si sapeva dotato d’indole pronta benché abitualmente pacata, di volontà indomabile, di mente vasta e erudita, quantunque s’adoprasse a non parerlo. Capace di grandi passioni e di grandi ardimenti, lo si teneva in concetto di uomo non comune, di carattere grande e straordinario. Ciò che contribuiva per altro a circondarlo di questo prestigio, era il mistero che nascondeva il suo passato, erano alcune dicerie che si riferivano a mille strani avvenimenti cui volevasi che egli avesse preso parte - certo egli aveva reso dei grandi servigi alla rivoluzione; quali e con quale influenza non lo si seppe mai: egli morì a novantasei anni portando seco nella sua tomba il segreto della sua vita.
Tutti conoscono le abitudini della vita di villaggio, non mi tratterrò a discorrere di quelle speciali della mia famiglia. Noi ci radunavamo tutte le sere d’inverno in una vasta sala a pian terreno, e ci sedevamo in circolo intorno ad uno di quegli ampi camini a cappa sì antichi e sì comodi, che il gusto moderno ha ora abolito, sostituendovi le piccole stufe a carbone. Mio zio, che abitava un appartamento separato nella stessa casa, veniva qualche volta a prender parte alle nostre riunioni, e ci raccontava alcune avventure de’ suoi viaggi o alcune scene della rivoluzione che ci riempivano di terrore e di meraviglia. Taceva però sempre di sé; e richiesto della parte che vi aveva preso, distoglieva la narrazione da quel soggetto.
Una sera - lo ricordo come fosse ieri - eravamo riuniti, secondo il solito in quella sala; era d’inverno, ma non vi era neve; il suolo gelato e imbiancato di brina rifletteva i raggi della luna in guisa da produrre una luce bianca e viva come quella di un’aurora.
Tutto era silenzio, e non si udiva che il martellare alternato di qualche goccia che stillava dai ghiacciuoli[16] delle gronde. Ad un tratto un rumore sordo e improvviso di un oggetto gettato nel cortile dal muricciuolo[17] di cinta, viene ad interrompere la nostra conversazione; mio padre si alza, esce e si precipita fuori della porta che mette sulla via, ma non ode rumore alcuno di passi, né vede, per tutto quel tratto di strada che si distende d’innanzi a lui, alcuna persona che si allontani. Allora raccoglie dal suolo un piccolo involto che vi era stato gettato, e rientra con esso nella sala. Ci raccogliamo tutti intorno a lui per esaminarlo.
Era, meglio che un involto, un grosso plico[18] quadrato in vecchia carta grigiastra macchiata di ruggine, e cucita lungo gli orli con filo bianco e a punti esatti e regolari che accusavano l’ufficio di una mano di donna[19]. La carta, tagliata qua e là dal filo, e arrossata e consumata sugli orli, indicava che quel piego[20] era stato fatto da lungo tempo.
Mio zio lo ricevette dalle mani di mio padre, e lo vidi tremare ed impallidire nell’osservarlo. Tagliatane la carta, ne trasse due vecchi volumi impolverati, e non v’ebbe gettato su gli occhi, che il suo volto si coperse di un pallore cadaverico, e disse, dissimulando un senso di dolore e di meraviglia più vivo: «È strano!» E dopo un breve istante in cui nessuno di noi aveva osato parlare riprese: «È un manoscritto, sono due volumi di memorie che risalgono alle prime origini della nostra famiglia, e contengono alcune gloriose tradizioni della nostra casa. Io ho dato questi due volumi ad un giovine che, quantunque non appartenesse direttamente alla nostra famiglia, vi era congiunto per certi legami che non posso ora qui rivelare. Furono il pegno d’una promessa, cui non io, ma il tempo mi ha impedito di mantenere: sì, il tempo…» aggiunse tra di sé a bassa voce. «Io lo aveva conosciuto all’Università di * * *, allorché vi studiava teologia: egli fu ghigliottinato sulla piazza della Greve, e la sua famiglia fu distrutta dalla rivoluzione, saranno ora quarant’anni… non uno gli sopravvisse… È strano!…»
E dopo un breve intervallo, osservando che verso la cucitura dei fogli si era accumulata una polvere rossastra leggerissima, ci disse, come si fosse risovvenuto di un pericolo: «Lavatemi le mani.»
«Perché?»
«Nulla...»
Ubbidimmo. Si passò tutta quella sera in silenzio: mio zio era in preda a tristi pensieri, e si vedeva che egli si sforzava di evocare o di scacciare delle memorie assai dolorose. Si ritirò assai presto, si rinchiuse nel suo appartamento, e vi stette due giorni senza lasciarsi vedere.
In quella sera io mi coricai in preda a pensieri strani e paurosi di cui non sapeva darmi ragione. Era preoccupato dall’idea di quell’avvenimento più che non avrei dovuto, più che un fanciullo della mia età non avrebbe potuto esserlo. Indarno[21] io tenterei ora di rendere qui colla parola i sentimenti inesplicabili e singolari che si agitavano dentro di me in quell’istante. Parevami[22] che tra quei volumi e mio zio, e me stesso, corressero dei rapporti che non aveva avvertito fino allora, delle relazioni misteriose e lontane, di cui non giungeva a decifrarmi in alcun modo la natura, né a comprendere il fine. Erano, o mi parevano rimembranze[23]. Ma di che cosa? Non lo sapeva. Di che tempo? Remote. Nella mia giovine intelligenza tutto si era alterato e confuso.
Mi addormentai sotto l’impressione di quelle idee, e feci questo sogno.
Aveva venticinque anni: nella mia mente si erano come agglomerate tutte quelle idee, tutte quelle esperienze, tutti quegli ammaestramenti che il tempo mi avrebbe fatto subire durante gli anni che segnavano quella differenza tra l’età sognata e l’età reale; ma io rimaneva nondimeno[24] estraneo a questo maggiore perfezionamento, benché il[25] comprendessi. Sentiva in me tutto lo sviluppo intellettuale di quell’età, ma ne giudicava col senno e cogli apprezzamenti propri de’ miei quindici anni. Vi erano due individui in me, all’uno apparteneva l’azione, all’altro la coscienza e l’apprezzamento dell’azione. Era una di quelle contraddizioni, di quelle bizzarrie, di quelle simultaneità di effetti che non sono proprie che dei sogni.
Mi trovava in una gran valle fiancheggiata da due alte montagne: la vegetazione, la coltivazione, la forma e la disposizione delle capanne, e non so che di diverso, di antico nella luce, nell’atmosfera, in tutto ciò che mi circondava, mi diceano[26] ch’io mi trovava colà in un’epoca assai remota dalla mia esistenza attuale - due o tre secoli almeno. Ma come era ciò avvenuto? Come mi trovava in quelle campagne? Non lo sapeva. Ciò era bensì naturale nel sogno: vi erano degli avvenimenti che giustificavano il mio ristarmi in quel luogo, ma non sapeva quali fossero; non aveva coscienza del loro valore, della loro entità, non l’aveva che della loro esistenza. Era solo e triste. Camminava per uno scopo determinato, prefisso, per un fine che mi attraeva in quel luogo, ma che ignorava.
All’estremità della valle s’innalzava una rupe tagliata a picco, alta, perpendicolare, profonda, solcata da screpolature dove non germogliava una liana; e sulla sua sommità vi era un castello che dominava tutta la valle, e quel castello era nero. Le sue torri munite di balestriere erano gremite di soldati, le porte dei ponti calate, le altane[27] stipate d’uomini e di arnesi da difesa; negli appartamenti del castello era rinchiusa una donna di prodigiosa bellezza, che nella consapevolezza del sogno io sapeva essere la dama del castello nero, e quella donna era legata a me da un affetto antico, e io doveva difenderla, sottrarla da quel castello.
Ma giù nella valle a’ piedi della rupe ove io mi era arrestato[28], un oggetto colpiva dolorosamente la mia attenzione: sui gradini di un monumento mortuario sedeva un uomo che ne era uscito allora; egli era morto e tuttavia viveva; presentava un assieme di cose impossibile a dirsi, l’accoppiamento della morte e della vita, la rigidità, il nulla dell’una temperata dalla sensitività, dall’essenza dell’altra: le sue pupille che io sapeva essere state abbacinate[29] con un chiodo rovente, erano ancora attraversate da due piccoli fori quadrati che davano al suo sguardo qualche cosa di terribile e di compassionevole a un tempo.
A quel fatto si legavano delle memorie di sangue, delle memorie di un delitto a cui io aveva preso parte. Fra me e lui e la dama del castello correvano dei rapporti inesplicabili. Egli mi guardava colle sue pupille forate; e col gesto, e con una specie di volontà che egli non manifestava, ma che io, non so come, leggeva in lui, m’incitava a liberare la dama.
Una via scavata lateralmente nella rupe conduceva al castello. Una immensa quantità di proiettili lanciatimi dai mangani[30] delle torri m’impedivano di giungervi. Ma, strana cosa! Tutti quei proiettili enormi mi colpivano, ma non mi uccidevano - nondimeno mi arrestavano.
Attraverso le mura del castello, io vedeva la dama correre sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti, col volto e coll’abito bianchi come la neve, protendendomi le braccia con espressione di desiderio e di pietà infinita; e io la seguiva collo sguardo attraverso tutte quelle sale che io conosceva, nelle quali aveva vissuto un tempo con lei.
Quella vista mi animava[31] a correre in suo soccorso, ma non lo poteva, i proiettili lanciatimi dalle torri me lo impedivano: a ogni svolto del sentiero la grandine diventava più fitta e più atroce; e quegli svolti erano molti - dopo questo un altro, dopo quello ancora un altro… io saliva e saliva… la dama mi chiamava dal castello, si affacciava dalle ampie finestre coi capelli che le piovevano giù dal seno, mi accennava colla mano di affrettarmi, mi diceva parole piene di dolcezza e di amore, né io poteva giungere fino a lei - era un’impotenza straziante.
Quanto durasse quella terribile lotta non so, tutta la durata del sogno, tutto lo spazio della notte... Finalmente, e non sapeva in che modo, era arrivato alle porte del castello; esse erano rimaste indifese, i soldati erano spariti: le imposte serrate si spalancarono da sé cigolando sui cardini irruginiti[32], e nello sfondo nero dell’atrio vidi la dama col suo lungo strascico bianco, e colle braccia aperte, correre verso di me, attraversando con una rapidità sorprendente, e rasentando appena lo spazio, la distanza che ci separava.
Essa si gettò tra le mie braccia coll’abbandono di una cosa morta, colla leggerezza, coll’adesione di un oggetto aereo, flessibile, soprannaturale. La sua bellezza non era della terra; la sua voce era dolce, ma debole come l’eco di una nota; la sua pupilla nera e velata come per pianto recente, attraversava le più ascose[33] profondità della mia anima senza ferirla, investendola anzi della sua luce come per effetto di un raggio. Noi passammo alcuni istanti così abbracciati: una voluttà mai sentita da me né prima né dopo quell’ora, mi ricercava tutte le fibre.
Per un momento io subii tutta l’ebbrezza di quell’amplesso senza avvertirla: ma non m’era posato su questo pensiero, non era appena discesa in me la coscienza di quella voluttà, che sentii compiersi in lei un’orribile trasformazione. Le sue forme piene e delicate che sentiva fremere sotto la mia mano, si appianarono, rientrarono in sé, sparirono; e sotto le mie dita incespicate tra le pieghe che s’erano formate a un tratto nel suo abito, sentii sporgere qua e là l’ossatura di uno scheletro...
Alzai gli occhi rabbrividendo e vidi il suo volto impallidire, affilarsi, scarnarsi, curvarsi sopra la mia bocca; e colla bocca priva di labbra imprimervi un bacio disperato, secco, lungo, terribile… Allora un fremito, un brivido di morte scorse per tutte le mie fibre; tentai svincolarmi dalle sue braccia, respingerla… e nella violenza dell’atto il mio sonno si ruppe - mi svegliai urlando e piangendo.
Tornai a’ miei quindici anni, alle mie idee, a’ miei apprezzamenti, alle mie puerilità di fanciullo. Tutto quel sogno mi pareva assai più strano, assai più incomprensibile che spaventoso. Quali erano i sentimenti che si erano impossessati di me in quello stato? Io non aveva ancora conosciuta la voluttà di un bacio, non aveva pensato ancora all’amore, non poteva darmi ragione delle sensazioni provate in quella notte. Ciò non ostante era triste, era posseduto da un pensiero irremovibile, mi pareva che quel sogno non fosse altrimenti un sogno, ma una memoria un’idea confusa di cose, la rimembranza di un fatto molto remoto dalla mia vita attuale.
Nella notte seguente ebbi un altro sogno.
Mi trovava ancora in quel luogo, ma tutto era cambiato, il cielo, gli alberi, le vie non erano più quelli; i fianchi della rupe erano intersecati da sentieri coperti di madreselve; nel castello non rimanevano che poche rovine, e nei cortili deserti e negli interstizi delle stanze terrene crescevano le cicute e le ortiche.
Passando vicino al monumento che sorgeva prima nella valle e di cui pure non restavano che alcune pietre, l’uomo abbacinato che stava ancora seduto sopra un gradino rimasto intatto, mi disse porgendomi un fazzoletto bruttato di sangue: «Recatelo alla signora del castello.»
Mi trovai assiso sulle rovine: la signora del castello era seduta al mio fianco - eravamo soli - non si udiva una voce, un’eco, uno stormire di fronde nella campagna - essa, afferrandomi le mani, mi diceva: «Sono venuta tanto da lontano per rivederti, senti il mio cuore come batte… senti come batte forte il mio cuore!… tocca la mia fronte e il mio seno: oh! sono assai stanca, ho corso tanto; sono spossata dalla lunga aspettazione… erano quasi trecento anni che non ti vedeva.»
«Trecento anni!»
«Non ti ricordi? Noi eravamo assieme in questo castello: ma sono memorie terribili! non le evochiamo.»
«Sarebbe impossibile, io le ho dimenticate.»
«Li ricorderai dopo la tua morte.»
«Quando?»
«Assai presto.»
«Quando?»
«Fra venti anni, al venti di gennaio: i nostri destini, come le nostre vite, non potranno ricongiungersi prima di quel giorno.»
«Ma allora?»
«Allora saremo felici, realizzeremo i nostri voti.»
«Quali?»
«Li ricorderai a suo tempo… ricorderai tutto. La tua espiazione sta per finire tu hai attraversate undici vite prima di giungere a questa, che è l’ultima. Io ne ho attraversate sette soltanto, e sono già quarant’anni che ho compiuto il mio pellegrinaggio nel mondo: tu lo compirai con questa fra venti anni. Ma non posso rimanere più a lungo con te, è necessario che ci separiamo.»
«Spiegami prima questo enigma.»
«È impossibile… Può avvenire però che tu lo abbia a comprendere. Ho rinfacciato ieri a lui la sua promessa; te ne ho restituito il mezzo, quei due volumi, quelle memorie scritte da te, quelle pagine sì colme di affetto… Le avrai, se quell’uomo che ci fu allora sì fatale non t’impedirà di averle.»
«Chi?»
«Tuo zio… egli… l’uomo della valle.»
«Egli? mio zio!»
«Sì, e lo hai tu veduto?»
«Lo vidi, e ti manda per me questo fazzoletto insanguinato.»
«È il tuo sangue, Arturo,» diss’ella con trasporto, «sia lodato il cielo! egli ha mantenuto la sua promessa.» Dicendo queste parole la signora del castello sparve - io mi svegliai atterrito.
Mio zio stette rinchiuso per due giorni nel suo appartamento: appena ne fu uscito mi precipitai nelle sue stanze per impadronirmi di quei volumi, ma non vi trovai che un mucchio di cenere; egli li aveva dati alle fiamme. Quale non fu però il mio terrore quando nel rimescolare quelle ceneri vi rinvenni alcuni frammenti che parevano scritti di mio pugno; e da alcune parole sconnesse che erano rimaste intelligibili[34], potei ricostruire con uno sforzo potente di memoria degli interi periodi che si riferivano agli avvenimenti accennati oscuramente in quei sogni!
Io non poteva più dubitare della verità di quelle rivelazioni; e benché non giungessi mai ad evocare tutte le mie rimembranze per modo da dissipare[35] le tenebre che si distendevano su quei fatti, non era più possibile che io potessi metterne in dubbio l’esistenza. Il castello nero era spesso nominato in quei frammenti, e quella passione d’amore che pareva legarmi alla signora del castello, e quel sospetto di delitto che pesava sull’uomo della valle vi erano in parte accennati. Oltre a ciò, per una combinazione singolare altrettanto che[36] spaventevole[37], la notte in cui aveva fatto quel sogno era appunto la notte del venti gennaio: mancavano adunque[38] venti anni esatti alla mia morte.
Dopo quel giorno io non aveva dimenticato mai quel presagio, ma quantunque non ponessi in dubbio che vi fosse un fondo di verità in tutto quell’assieme di fatti, era riuscito a persuadermi che la mia gioventù, la mia sensibilità, la mia immaginazione, avevano contribuito in gran parte a circondarli del loro prestigio. Mio zio, morto sei anni dopo, mentre io era assente dalla famiglia, non aveva fatto alcuna rivelazione che si riferisse a quegli avvenimenti; io non aveva più avuto alcun sogno che potesse considerarsi come uno schiarimento od una continuazione di quelli; e degli affetti nuovi, e delle cure nuove, e delle nuove passioni erano venute a distogliermi da quel pensiero, a crearmi un nuovo stato di cose, un nuovo ordine di idee, ad allontanarmi da quella preoccupazione triste e affannosa.
Non fu che diciannove anni dopo che io dovetti persuadermi per una testimonianza irrefragabile[39], che tutto ciò che io aveva sognato e veduto era vero, e che il presagio della mia morte doveva conseguentemente avverarsi.
Nell’anno 1849, viaggiando al nord della Francia, aveva disceso il Reno fin presso al confluente della piccola Mosa[40], e m’era trattenuto a cacciare in quelle campagne. Errando solo un giorno lungo le falde di una piccola catena di monti mi era trovato ad un tratto in una valle nella quale mi pareva esser stato altre volte, e non aveva fatto questo pensiero che una memoria terribile venne a gettare una luce fosca e spaventosa nella mia mente, e conobbi che quella era la valle del castello, il teatro de’ miei sogni e della mia esistenza trascorsa. Benché tutto fosse mutato, benché i campi, prima deserti, biondeggiassero adesso di messi, e non rimanessero del castello che alcuni ruderi sepolti a metà dalle ellere[41], ravvisai tosto quel luogo, e mille e mille rimembranze, mai più evocate, si affollarono in quell’istante nella mia anima conturbata.
Chiesi ad un pastore che cosa fossero quelle rovine, e mi rispose: «Sono le rovine del castello nero; non conoscete la leggenda del castello nero? Veramente ve ne sono di molte e non si narrano da tutti allo stesso modo, ma se desiderate di saperla come la so io… se…»
«Dite, dite,» io interruppi sedendomi sull’erba al suo fianco. E intesi da lui un racconto terribile, un racconto che io non rivelerò mai, benché altri il[42] possa allo stesso modo sapere, e sul quale ho potuto ricostruire tutto l’edificio di quella mia esistenza trascorsa.
Quando egli ebbe finito, io mi trascinai a stento fino ad un piccolo villaggio vicino, d’onde[43] fui trasportato, già infermo a Wiesbaden, e vi tenni il letto tre mesi.
Oggi, prima di partire, mi sono recato a rivedere le rovine del castello - è il primo giorno di settembre, mancano sei mesi all’epoca della mia morte - sei mesi, meno dieci giorni - giacché non dubito che morrò in quel giorno prefisso. Ho concepito lo strano desiderio che rimanga alcuna[44] memoria di me. Assiso[45] sopra una pietra del castello ho tentato di richiamarmi tutte le circostanze lontane di questo avvenimento, e vi scrissi queste pagine sotto l’impressione di un immenso terrore.
***
L’autore di queste memorie, che fu mio amico e letterato di qualche fama, proseguendo il suo viaggio verso l’interno della Germania, morì il venti gennaio 1850, come gli era stato presagito, assassinato da una banda di zingani[46] nelle gole così dette di Giessen presso Freiburgo.
Io ho trovate queste pagine tra i suoi molti manoscritti, e le ho pubblicate.

Rosso Malpelo
Da Vita dei campi[47] di Giovanni Verga[48]
La novella ‘Rosso Malpelo’ fu scritta quando era molto vivo il dibattito sulla realtà del meridione e in particolare sul la­voro minorile nelle cave.
Nel 1876 era stata avviata un’inchiesta parlamentare sulle condi­zioni economico-sociali del Sud, la cosiddetta ‘Inchiesta in Sicilia’, che aveva fra i suoi scopi anche quello di conoscere le condizioni di lavoro dei minori, impiegati soprattutto nelle miniere di zolfo e nelle cave di rena.
L’inchiesta, condotta da Franchetti e Sonnino, si concludeva con un capitolo il ‘Lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane’, dal quale emergeva un quadro drammatico della situazione: i ragazzi lavoravano dalle dieci alle dodici ore il giorno in condizioni di estrema difficoltà e di pericolo, dormivano vicino alla miniera e tornavano a casa una volta la settimana, si nutrivano solo del pane che portavano da ca­sa ed erano costretti a un lavoro durissimo. Dovevano trasportare pesanti carichi di minerale lungo salite ripidissime all’interno di gallerie nelle quali il calore raggiungeva i 40° e da li uscivano all’aria aperta, esponendosi spesso a un vento ghiacciato e comunque sempre a dannosi sbalzi di temperatura. A ciò si aggiungevano i maltrattamenti subiti da parte degli operai e dei sorveglianti e gli incidenti a causa dei quali si rompevano o si lussavano gli arti, rimanendo storpi a vita.
Verga conosceva questa situazione, non solo perché aveva letto l’inchiesta Franchetti-Sonnino che aveva suscitato enorme scalpore, ma anche perché una miniera di zolfo si trovava nei sobborghi di Catania, la città nella quale aveva trascorso gli anni della sua giovinezza. Anche se egli si poneva politicamente su posizioni conservatrici, non poteva restare indifferente di fronte a una situazione di tal genere.
La novella narra la storia di un ragazzo siciliano di cui perfino la madre non ricor­da più il nome, dato che, per i suoi capelli rossi e la sua indole bizzarra, è chiamato da tutti Rosso Malpelo (da un popolare detto siciliano «pilu russu, malu pilu», che associa i capelli rossi alla cattive­ria). Malpelo lavora nella cava di sabbia dove è morto suo padre, sepolto dal crollo di una galleria, e do­ve lui stesso sparirà inghiottito nel nulla. Assistiamo al suo duro lavoro quotidiano, in cui gli sono com­pagni l’asino grigio e un ragazzina debole e malaticcio, Ranocchio, a cui Rosso a modo suo vuole bene e che protegge, pretendendo di insegnargli a sopravvivere e a difendersi nella loro difficile realtà. Ma sia «il grigio» che Ranocchio muoiono, e Rosso Malpelo accetta di andare ad esplorare un passaggio perico­loso, consapevole che, se gli succederà qualcosa, non importerà niente a nessuno, e per lui sarà una li­berazione.
Il racconto costruito secondo le tecniche della narrativa ve­rista, sviluppatasi in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. Gli scrittori che aderivano a questa cor­rente narravano nelle loro opere vicende che avevano come protagonisti personaggi appartenenti di solito a classi sociali basse e davano una rappresentazione oggettiva della realtà, aderendo al princi­pio dell’impersonalità dell’arte, secondo il quale lo scrittore non doveva intervenire con osservazioni e giudizi personali a commentare i fatti narrati.

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire[49] un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa[50] lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello[51] fra le gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane bigio[52], come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo[53], e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante[54] lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa[55], e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica[56] per tutto Monserrato e la Caverna[57], tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu[58], suo padre, era morto in quella stessa cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo[59], di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell’ingrottato[60], e dacché non serviva più, s’era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra[61] di rena. Invece mastro Misciu sterrava[62] da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione[63] come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto[64] di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie[65] cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -.
Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché[66] fosse una buona bestia. Zio Mommu[67] lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze[68], tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l’avvocato[69].
Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio[70]. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava: - Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata[71]! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto[72], il cottimante[73]!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.
Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia[74] e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa[75], la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana[76]. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!
Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.
- To’! - disse infine uno. - È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso?
- Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia... –
Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati[77], e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo[78] e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio[79]. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l’asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:
- Così creperai più presto! –
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo[80] il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse[81] senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: - È stato lui! per trentacinque tarì[82]! - E un’altra volta, dietro allo Sciancato: - E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera! –
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore[83], e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: - To’, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! –
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito[84], curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze[85], non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a Ranocchio: - L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.
Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. - La rena è traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -.
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: - Taci, pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo[86] -.
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel’aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano[87] addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull’uscio in quell’arnese[88], ché avrebbe fatto scappare il suo damo[89] se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone[90] come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare[91] nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese[92], come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio[93] com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano[94] se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja[95], a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi.
Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara[96] nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento[97]. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente[98] come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l’aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt’ora che[99] mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte.
- Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame[100], trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara.
- Così si fa, - brontolava Malpelo; - gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -.
Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio.
I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando[101] sui greppi[102] dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più -. L’asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po’ di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche[103]; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!».
Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.
La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato da giovane, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s’era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.
- Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.
- Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà -.
Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria[104] dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente - perché allora la sciara sembra più bella e desolata.
- Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo, - dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -.
La civetta strideva sulla sciara, e ramingava[105] di qua e di là; ei pensava:  - Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli -.
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.
- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti-.
Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l’ha detto? - domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella -.
E dopo averci pensato un po’:  - Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -.
Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe[106], tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere[107], e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue[108]; allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: - Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! –
Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c’era modo di vincere il ribrezzo[109] della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava: - È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! –
E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che[110] da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali[111] colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa[112]. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi.
- Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò Malpelo.
- Perché non sono malpelo come te! - rispose lo Sciancato. - Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! –
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo[113], per tutto l’oro del mondo.
Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui[114]. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

Libertà
da Novelle rusticane[115] di Giovanni Verga
Una rivolta di contadini siciliani inizia e finisce nel sangue.
‘Libertà’ è una parola affascinante, ma ingannevole che crea illusioni e fa nascere speranze presto distrutte dalla brutalità dell’esercito garibaldino.
Alla fine pagano come al solito i più deboli.
La novella prende spunto da un fatto storico e rievoca la sanguinosa rivolta di Bronte, un paese vicino a Catania, seguita da un’altrettanto san­guinosa repressione da parte dei garibal­dini, guidati da Nino Bixio (luglio-agosto 1860). A Bronte nei giorni dal 2 al 5 agosto 1860 la popolazione, formata in gran parte da poveri contadini, si sollevò contro i locali proprietari terrieri. Dopo la caduta del governo borbonico, c’erano stati vari proclami rivoluzionari, secondo i quali la terra, già di proprietà di pochi galantuomini, come erano detti i proprietari terrieri, doveva essere distribuita ai capifamiglia contadini.
Queste le ragioni della rivolta: le condizioni miserevoli dei contadini, la fame, il desiderio di «libertà» dalla schiavitù e dalla miseria. La popolazione siciliana, in gran parte, aiutò Garibaldi ed i Mille nella vittoriosa guerra contro i Borbone, perché vedeva in questa la possibilità di un miglioramento della sua condizione di vita.
La rivolta di Bronte fu sanguinosa, e si risolse in un eccidio spaventoso. Fu repressa personalmente da Nino Bixio, che fece fucilare alcuni dei rivoltosi, prendendo quasi a caso quelli che dovevano essere giustiziati. Gli altri furono condannati ed imprigionati a vita.
Verga riferisce con esattezza la storia con il suo contenuto drammatico. Descrive le uccisioni, la psicologia della folla impazzita, i drammi. Notevole è l’uso l’uso di paragoni tratti dalla natura: i rivoltosi sono come un «torrente», come la «piena del fiume», e travolgono tutto senza ormai rendersi conto di ciò che fanno. Passata la follia e finito l’eccidio, il giorno che sorge porta una calma strana e piena di paure; i soldati che arrivano e fucilano sono accolti quasi con un senso di liberazione; la tragedia che si è consumata ha lasciato tutti stravolti ed esterrefatti.
Alla fine, tutto torna come prima: i «signori» al loro posto, i poveri contadini sempre più poveri. La tragedia si è chiusa, e non è servita a niente. Solo i condannati continueranno a chiedersi il perché, gridando che loro volevano solo «la libertà». E un mondo senza speranza, che neppure la vittoria garibaldina ed il cambio di Re riescono a mutare.
I contadini siciliani di Bronte ave­vano occupato abusivamente le terre che nel 1799 il re Ferdinando IV di Borbone aveva donato all’ammiraglio inglese Nelson. Garibaldi non esitò a domare con la vio­lenza una rivolta che minacciava di incri­nare m modo grave un ordine faticosamente conquistato. La narrazione dei fatti segue la successione logico-cronologica, in cui fabula e intreccio coinci­dono, dallo scoppio dell’insurrezione all’intervento dell’esercito e al successivo processo ai responsabili.
Il sistema dei personaggi appare nettamente diviso in due gruppi: da un lato la folla impazzita, ubriaca di sangue; dall’altro le vittime, i cappelli.
I protago­nisti sono colti nel loro ruolo rispettivamente di persecutori e di perseguitati, colpiti, questi ultimi, da una vendetta che non risparmia neppure i più deboli o indifesi.
I contadini, in genere salariati a giornata chiamati coppole per i caratteristici berretti rotondi, non hanno un’identità precisa: sono soprattutto voci furibonde, prima ancora che volti, e ver­ranno indicati con un nome o un riferi­mento al mestiere solo dopo la tragedia, quando diventeranno vittime a loro vol­ta e subiranno l’arresto e la prigione.
I galantuomini sono invece meglio deli­neati e rappresentano una classe sociale più differenziata rispetto a quella dei contadini: sono, infatti, esponenti della borghesia (il notaio, lo speziale), del clero (il prete) e dell’aristocrazia (il barone, la baronessa), ma il denaro che possiedono o il potere che esercitano non li salvano dalla furia omicida degli oppressi.
Il narratore esterno e oggettivo, come esige la poetica del Verismo, mani­festa m questa novella un punto di vista complesso. Egli, infatti, non divide i per­sonaggi semplicemente m «buoni» e «cattivi», ma coglie ed esprime le sfuma­ture del loro comportamento. Così nel giorno della strage i contadini sono de­scritti come lupi feroci a caccia della pre­da, ma nel racconto dei mesi successivi se ne sottolinea la miseria e la sofferen­za, un calvario che si conclude con un processo-farsa. Allo stesso modo i signori appaiono vittime della crudeltà e della follia dei braccianti, ma non sono esenti da colpe, la cui denuncia è messa dal narratore in bocca ai persecu­tori (A te prima, barone) che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!’).

Sciorinarono[116] dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: - Viva la libertà! –
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini[117], davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche[118]; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe[119] in una stradicciuola.
- A te prima, barone! che hai fatto nerbare[120] la gente dai tuoi campieri[121]! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! - A te, ricco epulone[122], che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì[123] al giorno!
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini! Ai cappelli![124] Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! -Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te’! tu pure! - Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché[125] sono in peccato mortale! - La gnà[126] Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e rimpieva la Ruota[127] e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo speziale[128], nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello[129].
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. - Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere[130] di cinquant’anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! - Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto[131], colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. - Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! - Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te’! Te’! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove[132], lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate[133], perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. - Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo[134] del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi[135] della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio[136], fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi[137]. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava[138]; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello[139] sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. - Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! - Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino.
- Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! - Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo[140], avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa![141] - E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io -. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale[142], quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna[143], e dicendo - ahi! - ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade[144] color d’oro, trafelate[145], zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo[146] costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie[147], e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: - Sta tranquilla che non ne esce più -. Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci[148].
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia[149] - ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui![150]
Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano[151] fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: - Sul mio onore e sulla mia coscienza!...
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - O perché? Non mi è toccato neppure un palmo[152] di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...


La roba
da Novelle rusticane (1883)
La roba è una delle novelle più note di Giovanni Verga. Essa si confi­gura come l’abbozzo del suo secondo grande romanzo, Mastro-don Gesualdo.
Il protagonista, Mazzarò, vive la sua affannosa avventura di accaparramento della roba, incurante di ogni altro idea­le e fermamente convinto in ciò che fa. Ma la vecchiaia non tarderà a venire, e con essa la solitudi­ne, la certezza della morte e dell’inutilità di possedere tante ricchezze. Sacrificando tutto alla logica economi­ca, è diventato il maggiore proprietario terriero della regione. Ma proprio perché è vissuto solo in funzione della roba, non riesce ad accettare la morte e di fronte a essa ha una reazione disperata e assurda.

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini[153], steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie[154] riarse[155] della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto[156] e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga[157] suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi[158] per vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo[159], accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese[160], e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria[161], sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo[162] nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. - Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco[163], a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo.
Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere[164]; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera[165], era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche[166], senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello[167], nelle calde giornate della mèsse[168]. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì[169], quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante[170] a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate[171] se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto[172] alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie[173] larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: - Curviamoci, ragazzi! - Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria[174] il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto[175]; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia[176] per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re[177], o gli altri; e alle fiere gli armenti[178] di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda[179], alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei[180] avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri[181] dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione[182], sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. - Costui vuol essere rubato per forza! - diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: - Chi è minchione se ne stia a casa, - la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni[183], cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro.
- Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! - diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa[184] limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini[185], e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava - per un pezzo di pane. - E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! - I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare.
- Lo vedete quel che mangio io? - rispondeva lui, - pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva.
E non l’aveva davvero. Ché[186] in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! –
Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! –

La fine di Candia
Da Le novelle della Pescara[187] di Gabriele D’Annunzio[188]
Strani sono, a volte, i fili della sorte e imprevedibili, nella loro tragicità, le vicende dell’esistenza umana: Candia sperimenta l’ossessione torturante dell’innocente, che tutti credono colpevole.

Donna Cristina Lamonica, tre giorni dopo il convito[189] pasquale che in casa Lamonica soleva essere grande per tradizione e magnifico e frequente di con­vitati[190], numerava[191] la biancheria e l’argenteria delle mense[192] e con perfetto ordi­ne riponeva ogni cosa nei canterani e nei forzieri[193] pei conviti futuri.
Erano presenti, per solito, alla bisogna[194] e porgevano aiuto, la cameriera Maria Bisaccia e la lavandaia Candida Marcanda detta popolarmente Candia. Le vaste canestre[195] ricolme di tele fini giacevano in fila sul pavimento. I vasella­mi di argento e gli altri strumenti da tavola rilucevano sopra una spasa[196]; ed erano massicci, lavorati un po’ rudemente da argentarli rustici, di forme quasi liturgiche[197], come sono tutti i vasellami che si trasmettono di generazione in generazione nelle ricche famiglie provinciali. Una fresca fragranza di bucato spandevasi nella stanza.
Candia prendeva dalle canestre i mantili, le tovaglie, le salviette[198]; faceva esaminare alla signora la tela intatta, e porgeva via via ciascun capo a Maria che riempiva i tiratoi[199], mentre la signora spargeva negli interstizi[200]- un aroma e segnava nel libro la cifra. Candia era una femmina alta, ossuta, segaligna[201], di cinquantanni; aveva la schiena un po’ curvata dall’attitudine abituale del suo mestiere, le braccia molto lunghe, una testa d’uccello rapace sopra un collo di testuggine[202]. Maria Bisaccia era un’ortonese[203] un po’ pingue[204], di carnagione lattea, d’occhi chiarissimi; aveva la parlatura molle[205], e i gesti lenti e delicati co­me colei ch’era usa[206] a esercitar le mani quasi sempre tra la pasta dolce, tra gli sciroppi, tra le conserve e tra le confetture.
Donna Cristina, anche nativa di Ortona[207], educata nel monastero benedet­tino[208], era piccola di statura, con il busto un po’ abbandonato sul davanti; ave­va i capelli tendenti al rosso, la faccia sparsa di lentiggini, il naso lungo e gros­so, i denti cattivi[209], gli occhi bellissimi e pudichi[210], somigliando un chierico ve­stito d’abiti muliebri[211].
Le tre donne attendevano all’opera con molta cura; e spendevano così gran parte del pomeriggio.
Ora, una volta, come[212] Candia usciva con le canestre vuote, Donna Cristina numerando le posate trovò che mancava un cucchiaio.
Maria! Maria! — ella gridò, con una specie di spavento. — Conta! Manca ‘na cucchiara[213]... Conta tu!
- Ma come? Non può essere, signò - rispose Maria.- Mo’ vediamo.
E si mise a riscontrare[214] le posate, dicendo il numero ad alta voce. Donna Cristina guardava, scotendo il capo. L’argento tintinniva chiaramente.
- È vero! - esclamò alla fine Maria, con un atto di disperazione. — E mo’ che facciamo?
Ella era sicura da[215] ogni sospetto. Aveva dato prove di fedeltà e di onestà per quindici anni, in quella famiglia. Era venuta da Ortona insieme con Donna Cristina, all’epoca delle nozze, quasi facendo parte dell’appannaggio matrimo­niale[216]; ed oramai nella casa aveva acquistata una certa autorità, sotto la prote­zione della signora. Ella era piena di superstizioni religiose, devota al suo santo e al suo campanile[217], astutissima. Con la signora aveva stretto una specie di alleanza ostile contro tutte le cose di Pescara, e specialmente contro il santo dei Pescaresi. Ad ogni occasione nominava il paese natale, le bellezze e le ric­chezze del paese natale, gli splendori della sua basilica, i tesori di San Tomma­so[218], la magnificenza delle cerimonie ecclesiastiche, in confronto alle miserie di San Cetteo che possedeva un solo piccolo braccio d’argento. Donna Cristina disse:
- Guarda bene di là.
Maria uscì dalla stanza per andare a cercare. Rovistò tutti gli angoli della cucina e della loggia[219] inutilmente. Tornò a mani vuote.
- Non c’è! Non c’è!
Allora ambedue si misero a pensare, a cumular congetture[220], a investigar nella loro memoria. Uscirono su la loggia che dava nel cortile, su la loggia del lavatoio, per fare l’ultima ricerca. Come[221] parlavano a voce alta, alle finestre delle case in torno si affacciarono le comari.
- Che v’è successo, Donna Cristi? Dite! Dite!
Donna Cristina e Maria raccontarono il fatto, con molte parole, con molti gesti.
- Gesù! Gesù! Dunque ci stanno i ladri?
In un momento il rumore[222] del furto si sparse pel vicinato, per tutta Pe­scara. Uomini e donne si misero a discutere, a immaginare chi potesse essere il ladro. La novella, giungendo alle ultime case di Sant’Agostino, s’ingrandì: non si trattava più di un semplice cucchiaio, ma di tutta l’argenteria di casa Lamonica.
Ora, come il tempo era bello e su la loggia le rose cominciavano a fiorire e due lucherini[223] in gabbia cantavano, le comari si trattennero alle finestre per il piacere di ciarlare al bel tempo[224], con quel dolce calore. Le teste femminili ap­parivano tra i vasi di basilico e il ciaramellìo[225] pareva dilettare i gatti in su le gronde[226].
Donna Cristina disse, congiungendo le mani:
- Chi sarà stato?
- Donna Isabella Sertale, detta la Faina, che aveva i movimenti lesti e furti­vi[227] di un animaletto predatore[228], chiese con la voce stridula[229]:
- Chi ci stava con voi, Donna Cristi? Mi pare che ho visto ripassare Candia...
- Aaaah! - esclamò Donna Felicetta Margasanta, detta la Pica per la sua continua garrulità[230].
- Ah! - ripeterono le altre comari.
- E non ci pensavate?
- E non ve n’accorgevate?
- E non sapete chi è Candia?
- Ve lo diciamo noi chi è Candia!
- Sicuro!
- Ve lo diciamo noi!
- I panni li lava bene, non c’è che dire. È la meglio lavandaia che sta a Pescara, non c’è che dire. Ma tiene lu difetto delle cinque dita[231]... Non lo sape­vate, comma?
- A me ‘na volta mi mancò due mantili.-
- A me ‘na tovaglia.
- A me ‘na camicia.
- A me tre paia di calzette.
- A me due federe.
- A me ‘na sottana nuova.
- Io non ho potuto riavere niente.
- Io manco[232].
- Io manco.
- Io non l’ho cacciata; perché chi prendo? Silvestra[233]?
- Ah! Ah!
- Angelantonia? Babascetta?
- Una peggio dell’altra!
- Bisogna ave’ pazienza.
- Ma ‘na cucchiara, mo’ !
- È troppo, mo’!
- Non vi state zitta, Donna Cristi; non vi state zitta!
- Che zitta e non zitta! - proruppe Maria Bisaccia che, quantunque avesse l’aspetto placido[234] e benigno, non si lasciava sfuggire nessuna occasione per opprimere o per mettere in mala vista[235] gli altri serventi della casa. - Ci pense­remo noi, Donn’Isabbè, ci penseremo!
E le ciarle dalla loggia alle finestre seguitavano. E l’accusa di bocca in boc­ca si propalò[236] per tutto il paese.
II
La mattina vegnente[237], mentre Candia Marcanda teneva le braccia nella li­sciva[238], comparve su la soglia la guardia comunale Biagio Pesce soprannomi­nato il Caporaletto[239].
Egli disse alla lavatrice:
- Ti vuole il signor Sindaco sopra il Comune» subito.
- Che dici? - domandò Candia aggrottando le sopracciglia, ma senza tra­lasciare la sua bisogna[240].
- Ti vuole il signor Sindaco sopra il Comune, subito.
- Mi vuole? E perché? - seguitò a domandare Candia, con un modo un po’ brusco, non sapendo a che attribuire quella chiamata improvvisa, inalberandosi[241] come fanno le bestie caparbie[242] dinanzi a un’ombra.
- Io non posso sapere perché - rispose il Caporaletto. - Ho ricevuto l’ordine.
- Che ordine?
La donna, per una ostinazione naturale in lei, non cessava dalle[243] domande. Ella non sapeva persuadersi della cosa.
- Mi vuole il Sindaco? E perché? E che ho fatto io? Non ci voglio venire. Io non ho fatto nulla.
Il Caporaletto, impazientito, disse:
- Ah, non ci vuoi venire? Bada a te!
E se ne andò, con la mano su l’elsa[244] della vecchia daga[245], mormorando. Intanto per il vico[246] alcuni che avevano udito il dialogo uscirono su gli usci e si misero a guardare Candia che agitava la lisciva con le braccia. E, poiché sapevano del cucchiaio d’argento, ridevano tra loro e dicevano motti ambigui[247] che Candia non comprendeva. A quelle risa e a quei motti, l’inquietudine pre­se l’animo della donna; e crebbe quando ricomparve il Caporaletto accompa­gnato dall’altra guardia.
- Cammina! - disse il Caporaletto, risolutamente.
Candia si asciugò le braccia, in silenzio; e andò. Per la piazza la gente si ferma­va. Rosa Panara, una nemica, dalla soglia della bottega gridò con una risata feroce:
- Posa l’osso[248]!
La lavandaia, smarrita, non immaginando la causa di quella persecuzione, non seppe che rispondere.
Dinanzi al Comune stava un gruppo di persone curiose che la volevano ve­der passare. Candia, presa dall’ira, salì le scale rapidamente; giunse in conspet­to[249] del Sindaco, affannata; chiese:
- Ma che volete da me?
Don Silla, uomo pacifico, rimase un momento turbato dalla voce aspra del­la lavandaia, e volse uno sguardo ai due fedeli custodi della dignità sindacale[250]. Quindi disse prendendo il tabacco nella scatola di corno[251]:
- Figlia mia, sedetevi.
Candia rimase in piedi[252]. Il suo naso ricurvo era gonfio di collera, e le sue guance rugose tremolavano alle contratture delle mascelle mordaci.
- Dite, Don Sì[253].
- Voi siete stata ieri a riporta’ la biancheria a Donna Cristina Lamonica?
- Be’, che c’è? che c’è? Manca qualche cosa? Tutto contato, capo per capo[254]... Non manca nulla. Che c’è, mo’?
- Un momento, figlia mia! C’era nella stanza l’argenteria...
Candia, indovinando, si voltò come un falchetto inviperito che stia per ghermire[255]. E le labbra sottili le tremavano.
- C’era nella stanza l’argenteria, e Donna Cristina trova mancante ‘na cucchiara... Capite, figlia mia? L’avete presa voi... pe’ sbaglio?
Candia saltò come una locusta[256], a quell’accusa immeritata. Ella non aveva preso nulla, in verità.
- Ah, io? Ah, io? Chi lo dice? Chi mi ha vista? Mi faccio meraviglia di voi, Don Sì! Mi faccio meraviglia di voi! Io ladra? io? io?...
E la sua indignazione non aveva fine. Ella più era ferita dall’ingiusta accusa perché si sentiva capace dell’azione che le addebitavano[257].
- Dunque voi non l’avete presa? - interruppe Don Siila, ritirandosi in fon­do alla sua grande sedia curule[258], prudentemente[259].
- Mi faccio meraviglia! - garrì[260] di nuovo la donna, agitando le lunghe braccia come due bastoni.
- Be’, andate. Si vedrà.
Candia uscì, senza salutare, urtando contro lo stipite[261] della porta. Ella era diventata verde: era fuori di sé. Mettendo il piede nella via vedendo tutta la gente assembrata[262], comprese che oramai l’opinione popolare era contro di lei; che nessuno avrebbe creduto alla sua innocenza. Nondimeno si mise a gri­dare le sue discolpe[263]. La gente rideva, dileguandosi. Ella, furibonda, tornò a casa; si disperò; si mise a singhiozzare su la soglia. Don Donato Brandimarte, che abitava a canto, le disse per beffa:
- Piangi forte, piangi forte, che mo’ passa la gente[264].
Come i panni ammucchiati aspettavano il ranno[265], ella finalmente si ac­quetò; si nudò le braccia, e si rimise all’opera. Lavorando, pensava alla discol­pa, architettava un metodo di difesa, cercava nel suo cervello di femmina astu­ta un mezzo artifizioso[266] per provare l’innocenza; arzigogolando sottilissima­mente[267], si giovava di tutti gli spedienti della dialettica plebea[268] per mettere in­sieme un ragionamento che persuadesse gli increduli. Poi, quando ebbe termi­nata la bisogna, uscì; volle andare prima da Donna Cristina.
Donna Cristina non si fece vedere. Maria Bisaccia ascoltò le molte parole di Candia scotendo il capo, senza risponder niente; e si ritrasse con dignità.
Allora Candia fece il giro di tutte le sue clienti. Ad ognuna raccontò il fatto, ad ognuna espose la discolpa, aggiungendo sempre un nuovo argomento, au­mentando le parole, accalorandosi[269], disperandosi dinanzi alla incredulità e alla diffidenza, e inutilmente. Ella sentiva che oramai non era più possibile la difesa. Una specie di abbattimento cupo le prese l’animo. — Che più fare! Che più dire!
III


Donna Cristina Lamonica intanto mandò a chiamare la Cinigia, una fem­mina del volgo, che faceva professione di magia e di medicina empirica[270] con molta fortuna. La Cinigia già qualche volta aveva scoperta la roba rubata; e si diceva ch’ella avesse diverse pratiche[271] con i ladroncelli.
Donna Cristina le disse:
- Ritrovami la cucchiara, e ti darò ‘na regalia forte[272].
La Cinigia rispose:
- Va bene. Mi bastano ventiquattr’ore.
E, dopo ventiquattr’ore, ella portò la risposta. - Il cucchiaio si trova in una buca, nel cortile, vicino al pozzo.
Donna Cristina e Maria discesero nel cortile, cercarono e trovarono, con grande meraviglia.
Rapidamente, la novella si sparse per Pescara.
Allora, trionfante, Candia Marcanda si diede a percorrere le vie. Ella pareva più alta; teneva la testa eretta, sorrideva, guardava tutti negli occhi come per dke:
- Avete visto? Avete visto?
La gente su le botteghe, vedendola passare, mormorava qualche parola e poi rompeva in uno sghignazzìo significativo[273]. Filippo La Scivi, che stava be­vendo un bicchiere d’acquavite fine nel caffè d’Angeladea, chiamò Candia.
- ‘Nu bicchiere pe’ Candia, di questo qua!
- La donna, che amava i liquori ardenti[274], fece con le labbra un atto di cu­pidigia[275].
Filippo La Selvi soggiunse: Te lo meriti, non c’è che di’.
Una torma[276]88 di oziosi erasi ragunata89 innanzi al caffè. Tutti avevano su la faccia un’aria burlevole[277].
Filippo La Selvi, rivoltosi all’uditorio, mentre la donna beveva:
- L’ha saputa fa’; è vero? Volpe vecchia[278].. .
E battè familiarmente la spalla ossuta della lavandaia.
Tutti risero.
Magnafave, un piccolo gobbo, scemo e bleso[279], unendo insieme l’indice della mano destra con quello della sinistra, e impuntandosi su le sillabe, disse:
- Ca... ca... ca... Candia... la... la... Cinigia...
E seguitò a gesticolare e a balbettare con un’aria furbesca, per indicare che Candia e la Cinigia erano comari[280]. Tutti, a quella vista, si contorcevano nell’i­larità[281].
Candia rimase un momento smarrita, co ‘1 bicchiere in mano. Poi d’un tratto comprese. Non credevano alla sua innocenza. L’accusavano di aver riportato il cucchiaio d’argento segretamente, d’accordo con la strega[282], per non aver guai.
Un impeto cieco di collera allora la invase. Ella non trovava parole. Si gittò su ‘1 più debole, su ‘1 piccolo gobbo, a tempestarlo di pugni e di graffi. La gen­te, con una gioia crudele, in conspetto di quella lotta, schiamazzava a torno in cerchio, come dinanzi a un combattimento d’animali; ed aizzava le due parti con le voci e con le gesticolazioni[283].
Magnafave, sbigottito da quella furia improvvisa, cercava di fuggire, sgam­bettando come uno scimmiotto; e, tenuto dalle mani terribili della lavandaia, girava con rapidità crescente, come un sasso nella fionda, sinché cadde con grande veemenza bocconi[284].
Alcuni corsero a. rialzarlo. Candia si allontanò tra i sibili; andò a chiudersi in casa; si gìttò a traverso il letto, singhiozzando e mordendosi le dita, pe ‘1 gran dolore. La nuova accusa le coceva[285] più della prima, tanto più ch’ella si sentiva capace di quel sotterfugio[286]. Come discolparsi ora? Come chiarire la verità? — Ella si disperava, pensando di non poter addurre[287] in discolpa dif­ficoltà materiali che avessero potuto impedire l’esecuzione dell’inganno. L’accesso al cortile era facilissimo: una porta, non chiusa, corrispondeva al primo pianerottolo della scalinata grande; per togliere l’immondizie o per al­tre bisogne[288] una quantità di gente entrava ed usciva liberamente da quella porta. Dunque ella non poteva chiudere la bocca agli accusatori dicendo: -Come avrei fatto ad entrare? — I mezzi per condurre a termine l’impresa era­no molti ed agevoli[289], e su questa agevolezza[290] si fondava la credenza po­polare[291].
Candia allora cercò differenti argomenti di persuasione; aguzzò l’astuzia; immaginò tre, quattro, cinque casi diversi per spiegare come mai si trovasse il cucchiaio nella buca del cortile; ricorse ad artifizi e a cavilli[292] d’ogni genere; sottilizzò con una ingegnosità singolare. Poi si mise a girare per le botteghe, per le case, cercando in tutti i modi di vincere l’incredulità delle persone. Le perso­ne ascoltavano quei ragionamenti capziosi[293], dilettandosi. In ultimo dicevano: - Va bene! Va bene!
Ma con tal suono di voce che Candia rimaneva annichilata[294]. Tutte le sue fatiche dunque erano inutili! Nessuno credeva! Nessuno credeva! Ella, con una pertinacia mirabile[295], tornava all’assalto. Passava le notti intere pensando sempre a trovar nuove ragioni, a costruire nuovi edifizi[296], a superare nuovi ostacoli. E a poco a poco, in questo continuo sforzo, la sua mente s’indeboli­va, non sosteneva più altro pensiero che non fosse quello del cucchiaio, non aveva quasi più consapevolezza della vita comune. Più tardi, per la crudeltà della gente, una vera manìa prese il cervello della povera donna.
Ella, trascurando le sue bisogne, s’era ridotta quasi alla miseria. Lavava ma­le i panni, li perdeva, li faceva strappare. Quando scendeva alla riva del fiume, sotto il ponte di ferro, dove erano raccolte le altre lavandaie, a volte si lasciava sfuggir di mano le tele che rapiva per sempre la corrente. Parlava continua­mente, senza, stancarsi «vai, della medesima cosa. Per non udirla, le lavandai giovani si mettevano a cantare e la beffavano nei canti con rime improvvise[297]. Ella gridava e gesticolava, come una pazza.
Nessuno più le dava lavoro. Per compassione le antiche clienti le mandava­no qualche cosa da mangiare. A poco a poco ella si abituò a mendicare. Andava per le strade, tutta cenciosa[298], curva e disfatta. I monelli le gridavano dietro:
- Mo’ dicci la storia de la cucchiara, che nun la saperne, zi’[299] Ca’!
Ella fermava i passanti sconosciuti, talvolta per raccontare la storia e per arzigogolare[300] su la discolpa. I giovinastri la chiamavano e per un soldo le facevano fare tre, quattro volte la narrazione; sollevavano difficoltà contro gli argomenti; ascoltavano sino alla fine, per poi ferirla con una sola parola. Ella scoteva il ca­po; passava oltre, si univa alle altre femmine mendicanti e ragionava con loro, sempre, sempre, infaticabile, invincibile. Prediligeva una femmina sorda, che aveva su la pelle una sorta di lebbra[301] rossastra e zoppicava da un piede.
Nell’inverno del 1874 la colse una febbre maligna. Fu assistita dalla femmi­na lebbrosa. Donna Cristina Lamonica le mandò un cordiale e un cassetto di brace[302].
L’inferma, distesa su ‘1 giaciglio, farneticava[303] del cucchiaio; si levava su i gomiti, tentava di agitar le mani, per secondare la perorazione[304]. La lebbrosa le prendeva le mani e la riadagiava pietosamente.
Nell’agonia, quando già gli occhi ingranditi si velavano come per un’acqua torbida[305] che vi salisse dall’interno, Candia balbettava:
- No so’ stata io, signò... vedete... perché... la cocchiara...
(da G. D’Annunzio, Novelle della Pescara, Mondadori, Milano)



L'assassinio di via Belpoggio
da Racconti scritti e autobiografici di Italo Svevo[306]
I
Dunque uccidere era cosa tanto facile? Si fermò per un solo istante nella sua corsa e guardò dietro a sé: Nella lunga via rischiarata da pochi fanali vide giacere a terra il corpo di quell'Antonio di cui egli neppure conosceva il nome di famiglia e lo vide con un'esattezza di cui subito si meravigliò. Come nel breve istante aveva quasi potuto percepirne la fisionomia, quel volto magro da sofferente e la posizione del corpo, una posizione naturale ma non solita. Lo vedeva in iscorcio, là sull'erta, la testa piegata su una spalla perché aveva battuto malamente il muro; in tutta la figura, solo le punte dei piedi ritte e che si proiettavano lunghe lunghe a terra nella scarsa luce dei lontani fanali, stavano come se il corpo cui appartenevano si fosse adagiato volontario; tutte le altre parti erano veramente di un morto, anzi di un assassinato.
Scelse le vie più dirette; le conosceva tutte ed evitava i viottoli per i quali non direttamente si allontanava.
Era una fuga smodata come se avesse avuto le guardie alla calcagna. Quasi gettò a terra una donna e passò oltre non badando alle grida d'imprecazione ch'ella gli lanciava.
Si fermò sul piazzale di S. Giusto. Sentiva che il sangue gli correva vertiginosamente le vene, ma non aveva alcun affanno e non era dunque la corsa che lo aveva affaticato. Forse il vino poco prima? Non l'assassinio, sicuramente non quello; non lo aveva né affaticato né spaventato.
Antonio lo aveva pregato di tenergli per un istante quel pacco di banconote. Poco dopo, quando Antonio gliene chiese la restituzione a lui balenò alla mente l'idea che ben poca cosa lo divideva dalla proprietà assoluta di quel pacco: La vita di Antonio! Non ne aveva ancor ben concepita l'idea che già l'aveva posta ad esecuzione e si meravigliava che quella idea che ancora non era una risoluzione gli avesse dato l'energia di menare quel colpo formidabile tale che dello sforzo si risentiva nei muscoli del braccio.
Prima di lasciare il piazzale stracciò l'involucro che chiudeva il pacco di banconote, lo gettò via e ne distribuì disordinatamente per le tasche il contenuto; poi s'incamminò con passo che volle calmo ma che ben presto e per quanto egli tentasse di frenarlo, ridivenne celere perché moderarlo sul piano era difficile, dopo esser salito di corsa. Finì che fu preso da un grande affanno che lo costrinse a fermarsi, proprio sotto il castello, con la sentinella che guardava la città nella quale allora allora era stato commesso il grande delitto.
Sulla scalinata che conduceva alla piazza della Legna gli fu più facile di moderare il passo ma soltanto badando di portare sempre tutti e due i piedi su uno scalino prima di scendere al prossimo. Voleva riflettere ma non seppe che prenderne l'atteggiamento. Ben presto si disse che non ve n'era bisogno visto che ogni suo movimento era ora dettato dalla necessità! Accelerò di nuovo il passo. Senza ritardo egli si sarebbe recato alla ferrovia e avrebbe tentato di partire per Udine; di là gli sarebbe stato facile di passare in Svizzera.
Allora era perfettamente in sé. S'era dileguata la leggera nebbia prodotta nel suo cervello dalla cena che gli aveva pagata il povero Antonio. Non era stata la causa del delitto, ma il vino, fornitogli dalla sua vittima stessa, gliene aveva reso più facile l'esecuzione.
Se non avesse avuto quei fumi alla testa non avrebbe saputo dimenticare che commesso il delitto, molto ancora gli restava da fare prima di assicurarsene il frutto, e col suo carattere poco energico, inerte, avrebbe sempre cercato mezzi e modi e finito col non agire che al sicuro, dunque mai.
Dove si poteva uccidere al sicuro? E se ci fosse stato il luogo, Antonio si sarebbe potuto trascinare? Gli venne da ridere; quell'Antonio era tale un imbecille che lo si avrebbe potuto far andare espressamente ad un macello più lontano.
Camminava ora franco e calmo per la via ma non si dissimulava che la sua tranquillità veniva dal sapere che nessuno dei passanti poteva ancora essere a conoscenza del delitto da lui commesso. Per costoro, assolutamente, egli era ancora un uomo onesto e li guardava franco in faccia quasi per usufruire per l'ultima volta del diritto che stava per perdere.
Alla stazione però lo colse di nuovo l'agitazione di poco prima. Là egli aveva da fare il passo che doveva avere tanta importanza sul suo destino. Se lo si lasciava partire era salvo. Quale calma non gli sarebbe stata data dal sentirsi trascinare lontano con la rapidità vertiginosa del celere; perché, con un senso ch'egli non aveva saputo di avere, dall'altra estremità della città egli sentiva avanzarsi la notizia dell'omicidio e la persecuzione e sapeva che se non fuggiva, ben presto ne sarebbe stato raggiunto.
Alla una doveva partire il treno e ci mancava una mezz'ora circa. Egli non voleva entrare nell'atrio vuoto molto tempo prima della partenza, ma non seppe rimanere lungo tempo, solo, nell'oscurità e ciò non per timore ma per impazienza. Aveva guardato a lungo l'orologio della stazione sorvegliando su esso l'avanzare del tempo, poi osservato il cielo stellato e senza nubi.
Che cosa gli restava a fare? “Se avessi qualcuno con cui parlare!”, pensò e fu in procinto di abbordare un cocchiere che dormicchiava a cassetta della sua carrozza. Ma si trattenne perché correva pericolo di parlargli del suo delitto e come all'infuori della grande paura del giudizio dei suoi simili, a sua sorpresa egli non sentiva affatto rimorso ma invece una specie di superbia per la risoluzione ferrea presa improvvisamente e per la esecuzione ardita e sicura.
Entrò nell'atrio. Voleva vedere le facce dei presenti ritenendo di poter comprendere da queste il destino che lo attendeva.
Sulla panca accanto alla porta erano sedute due donne friulane vicino ai loro cesti, a mezzo addormentate. In fondo alcuni doganieri maneggiando dei colli e a sinistra, nella birraria, v'era un solo uomo grasso che fumava seduto dinanzi ad un bicchiere di birra semivuoto.
Si meravigliò di nuovo dell'acutezza della sua vista e mai non s'era sentito così forte ed elastico, pronto a lottare o a fuggire. Pareva che il suo organismo avvisato del pericolo che correva avesse raccolto tutte le forze per mettergliele a disposizione in quel frangente.
Il suo passo risonava forte nel locale vuoto e destava una eco confusa. Le due friulane alzarono il capo e lo guardarono.
Egli picchiò al finestrino della dispensa per chiamare l'impiegato e non senza sforzo, seppe attendere senza muoversi i parecchi minuti che costui ci mise a rispondere.
– Un biglietto per Udine!
– Che classe?
Non ci aveva pensato.
– Terza. – Non sceglieva quella per economia ma per prudenza; bisognava viaggiare in conformità ai vestiti molto sdrusciti.
– Andata e ritorno – aggiunse rapidamente e sorpreso della buona idea venutagli.
Per pagare levò un pacco di banconote ma le rimise subito in tasca; ve ne erano da mille fiorini. Trovò un piccolo pacchetto da dieci fiorini e pagò.
Gli sembrò che l'opera fosse compita a metà ora che aveva il biglietto in tasca. Anzi meglio che a metà perché non aveva più da parlare con nessuno. Gli bastava sedersi tranquillamente nel suo compartimento con quelle friulane che gli davano poco sospetto e il resto era affare della locomotiva.
Bisognava occupare in qualche modo il tempo che mancava alla partenza. Pose le mani in tutte le tasche e palpò i biglietti di banca. Erano soffici quasi volessero simboleggiare la vita che potevano dare.
Così con le mani in tasca si appoggiò ad un pilastro della porta, il punto più oscuro dell'atrio donde poteva sorvegliare tutto l'ambiente senza venir veduto. Anche sentendosi perfettamente al sicuro non voleva tralasciare alcuna precauzione.
Non sentiva una grande gioia al contatto delle banconote e andava dicendosi ch'era perché non se ne sentiva ancora sicuro possessore. Invece, anche senza questo dubbio, il pensiero del suo delitto non avrebbe lasciato luogo in lui ad altri sentimenti. Non era preoccupazione e non rimorso ma quell'impressione al braccio destro col quale aveva dato il colpo gli sembrava si fosse estesa a tutto il suo organismo. L'atto così breve e fulmineo aveva lasciato traccie sul corpo che lo aveva fatto. Il suo pensiero non sapeva staccarsene.
– Dammi i miei denari! – gli aveva detto Antonio fermandosi tutt'ad un tratto. Avendo già preso la decisione di non restituire il pacco, egli dubitò che Antonio non l'avesse indovinata e intanto non fece altro che un atto designato a distruggere in costui il sospetto. Stese la sinistra a porgergli il pacco ben sapendo ch'erano tanto distanti uno dall'altro che le loro mani non giungevano a toccarsi. Antonio si avvicinò subito troppo e in parte la violenza del colpo che ricevette derivò dal suo movimento verso il ferro. Già si piegava e non ancora aveva compreso ciò che gli succedeva. Portò le mani alla ferita e le ritirò bagnate di sangue. Gettò un urlo e stramazzò a terra ove subito s'irrigidì. Strano! In quell'urlo, la voce di Antonio era divenuta seria e solenne; non era più quella che fino ad allora aveva balbettato le parole dell'imbecille e dell'ubriaco: “Gli accadeva infatti cosa molto seria al povero Antonio”, pensò Giorgio seriamente.
Bruscamente venne tolto ai suoi sogni. Con passo rapido era entrata una guardia ed era andata direttamente alla dispensa. A Giorgio si gelò il sangue nelle vene. Lo cercavano diggià? Stette fermo vincendo il movimento istintivo che lo avrebbe gettato sulla via, ma poi, osservando la vivacità con la quale la guardia parlava con l'impiegato, gli parve di indovinare ch'essa era venuta precipitosamente a dare l'ordine di non lasciarlo partire e uscì dall'atrio senza far rumore in modo che persino le due friulane vicinissime alla porta non s'accorsero della sua uscita.
Nell'oscurità della piazza ebbe tanta calma da dubitare che quella sua fuga fosse giustificata ma non tanto da ritornar nell'atrio. Risolse di fermarsi per qualche tempo a quel posto sperando che la sua fortuna gli avrebbe dato qualche altra indicazione per poter orientarsi. Non era piccola risoluzione o di facile esecuzione neppure quella di rimanere là fermo, perché calmo non si sarebbe sentito che obbedendo al suo istinto e correndo all'impazzata lontano da quel luogo. La vista di persona che forse poteva avere il mandato di arrestarlo era bastata a togliergli tutta l'audacia di cui poco prima s'era gloriato.
Cercò una posizione naturale per dare anche meno nell'occhio e si sedette su una scalinata. Si sentiva a disagio così, ma sapeva che quella era una posizione naturale perché pochi giorni prima, dopo aver desinato abbondantemente una volta in quarant'otto ore, s'era seduto sui gradini di una chiesa e aveva potuto osservare che i passanti non lo vedevano.
Partire? Giocare d'audacia e partire alla cieca, senza curarsi di sapere se alla partenza stessa o alla prossima stazione sarebbe stato fermato? Lo fermò più che questo dubbio, l'orrore di quelle ore di un'angoscia che da poco conosceva. Travestì la sua paura in un ragionamento.
“Partire significava fuggire e la fuga era una confessione. Se fosse stato colto nella fuga era perduto senza misericordia”.
Sarebbe rimasto, e non gli mancarono gli argomenti neppure per rendere ragionevole il suo desiderio di non allontanarsi affatto dalla città. Chi poteva rintracciarlo? Due o tre persone che non lo conoscevano lo avevano veduto con Antonio e dalla parte proprio opposta a quella ove abitava.
Ma dopo quella prima vigliaccheria non si sentì più capace di audacie. Un'audacia utile gli veniva consigliata dal suo mobile cervello, ma anche mentre che con essa si baloccava, neppure per un istante non ebbe l'intenzione di porla ad esecuzione. Lo torturava una grande curiosità di sapere quello che la gente sapesse dell'assassinio e quali ipotesi facesse sull'assassinio. Egli avrebbe potuto portarsi di nuovo sul luogo del misfatto e informarsi con cautela. Ma a quest'uopo bisognava naturalmente parlare dell'assassinio e forse con guardie... tutta roba da far rizzare i capelli in testa.
No! Sarebbe ritornato immediatamente a quella specie di tana che da oltre un anno gli serviva d'abitazione e per lungo tempo non l'avrebbe abbandonata. Avrebbe continuato a fare la vita che aveva fatto fino allora, concedendosi soltanto quelle comodità che non potevano dare nell'occhio.
Per andare alla sua abitazione in Barriera vecchia egli avrebbe dovuto passare la spaziosa via del Torrente. Un'insormontabile paura della luce glielo impedì e spiegando a se stesso che la sua paura era cautela, infilò una viuzza solitaria che lo portò sulla collina adiacente ad una via larga ma fuori di mano, poco frequentata a quell'ora e poco illuminata. Poi con un giro enorme, sempre preferendo le vie più oscure, arrivò all'altra parte della città. Si fermò dinanzi ad una porta per uno scalino più bassa della via. Entrò, chiuse dietro a sé la porta, e nella profonda oscurità si sentì subito tranquillo. Egli aveva commesso un errore, quella passeggiata alla stazione, e, ritornato salvo in casa, gli parve di averlo annullato.
Là nessuno sapeva del suo tentativo di fuga; in uno dei canti della stanza sentiva russare Giovanni, probabilmente ubbriaco.
Cercò a tastoni il suo materasso, vi si stese e si spogliò. Cacciò la giubba nella quale v'erano i denari, sotto il guanciale e s'addormentò dopo aver brancolato verso il sonno in una fantasia disordinata. Non gli sembrava di essere stato lui l'uccisore. Quella via lontana ch'egli fuggendo aveva guardato anche una volta, l'assassinato che per sì breve tempo aveva conosciuto e quella fuga alla stazione, gli balzavano bensì dinanzi alla mente, ma senza commuoverlo o spaurirlo. Nella sua immensa stanchezza gli parve che l'oscurità in cui si trovava non avesse a diradarsi mai più. Chi sarebbe venuto a cercarlo là?
II
Giorgio nella triste società nella quale viveva, veniva chiamato il signore. Non doveva questo nomignolo alle sue maniere che pur si tradivano superiori a quelle degli altri ma più al disprezzo ch'egli dimostrava per le abitudini e i divertimenti dei suoi compagni. Costoro all'osteria erano felici mentre Giorgio vi entrava svogliato, vi stava per lo più silenzioso, e quanto più beveva tanto più triste diveniva. Il volgo ha un gran rispetto per la gente che non si diverte e Giorgio accorgendosi dell'impressione che produceva affettava maggior tristezza di quanto realmente sentisse.
In fondo la sua storia era molto semplice e solita, né egli aveva il passato splendido che voleva far credere. Gli studi di cui si vantava erano stati fatti in due classi liceali a percorrere le quali aveva messo cinque anni. Poi aveva abbandonato le scuole e in brevissimo tempo aveva dilapidato lo scarso peculio della madre. Fece vari tentativi per conservarsi il posto di borghese colto a cui la madre aveva tentato di portarlo, ma invano, perché non trovò altro impiego che di facchino. Non potendola mantenere aveva abbandonato la madre e viveva in quella stalla con altro facchino, certo Giovanni, lavorando, quando era molto attivo, due o tre giorni per settimana.
Era malcontento di sé e degli altri. Lavorava brontolando, brontolava quando riceveva la mercede e non sapeva quietarsi neppure nelle sue lunghe ore d'ozio.
Ricco non era stato mai, ma s'era trovato in condizioni nelle quali aveva potuto sognare di arrivare a stato migliore e altri a lui d'intorno, la madre principalmente, avevano sognato con lui e, certo, erano stati questi sogni e l'amarezza di vederne sempre più lontana la realizzazione che avevano costato la vita ad Antonio.
Si svegliò con un sussulto in seguito ad un grande rumore. Giovanni stava vestendosi, ed essendosi messo per errore uno stivale di Giorgio, bestemmiando se l'era levato e l'aveva gettato con violenza a terra.
Giorgio finse di dormire ancora e per proposito respirando rumorosamente ripensò con sorpresa al suo delitto. Se non fosse già stato commesso probabilmente egli non avrebbe avuto il coraggio di commetterlo, ma giacché era cosa fatta e ch'egli coi nervi quietati dal lungo riposo si trovava in quel luogo dimenticato da tutti, al sicuro, poggiando la testa sul suo tesoro, non provò né rimpianto né rimorso. Questo fu il primo sentimento in quella lunga giornata.
Giovanni oramai vestito lo prese per un braccio e lo scosse: – Non vai a cercare lavoro, poltrone?
Giorgio aperse gli occhi e stirandosi come se si fosse destato allora, brontolò: – Già oggi non se ne trova. Resterò ancora un poco a letto.
Giovanni esclamò: – Oh! il signore! Continui pure a riposare. – Uscì sbattacchiando dietro a sé l'uscio.
Già così, senza chiave, dal di fuori non si poteva entrare, ma a Giorgio non bastò. Si levò e andò a tirare il catenaccio. Poi trasse dalle tasche le banconote e le contò.
La vista di quel denaro gli dava un sentimento di certo non giocondo: Era il ricordo del suo delitto e poteva divenirne la prova. La vista della via illuminata dal sole mattutino lo aveva agitato e invano, affannosamente, per essere di nuovo soddisfatto della sua azione, andava calcolando quanti anni con quella somma avrebbe potuto vivere libero e ricco. La preoccupazione maggiore interrompeva il calcolo e la compiacenza. “Dove celarli?”
Il pavimento era coperto di tavole che all'infuori di qualche leggera saldatura alle estremità erano semplicemente poggiate sul terrazzo. Di buoni nascondigli ve n'erano abbastanza, ma nessuno sicuro perché essendovi in tutta la stanza un solo armadio, e quello senza chiave, i due inquilini avevano l'abitudine di usare spesso di quei ripostigli.
Ma le buone idee non mancavano a Giorgio. Nascose le banconote sotto il materasso di Giovanni.
Mentre era intento al lavoro con un sorriso di compiacenza sulle labbra, un leggero rumore proveniente da un canto della stanza lo fece trasalire e abbandonato un tavolo che aveva sollevato, questo, cadendo, gli contuse una mano, producendogli un dolore che dovette morsicarsi le labbra per non gridare. Gli parve che quello schiamazzo somigliasse a quello di una lotta e fu tale il suo spavento che quando si calmò, avvilito dovette riconoscere che se le buone idee non gli mancavano, gli mancava qualche cosa che avrebbe potuto essergli di utilità immensamente maggiore in quelle circostanze.
Decise di non uscire per il momento. Gli era ben facile di trattenersi là nella semioscurità piuttosto che di andare al sole, sulla via. Vedeva la luce che penetrava dall'unica finestra e calcolava quale impressione gli doveva produrre di camminare per le vie di giorno quando s'era sentito tanto male a camminarle di notte.
Giovanni gli avrebbe portato delle notizie, le voci che correvano sull'assassino. Aveva l'abitudine di leggere giornalmente il «Piccolo Corriere», e così sarebbe stato bene informato.
L'avvenimento probabilmente più importante del giorno innanzi era il suo misfatto!
Il più importante! Si sentì un malessere come se qualche peso violentemente gli si posasse sul cuore.
Anche i suoi compagni si sarebbero occupati di tale avvenimento.
Come avrebbe avuto il coraggio di parlare del suo delitto, come prima o poi vi sarebbe stato costretto? Fare l'attore in una simile parte, lui che per quanto perverso aveva il sangue che alla menoma emozione gli arrossava la faccia?
Studiò la sua parte. Comprese subito che in quelle circostanze e per quanto fosse da persona poco raffinata, di fronte al delitto, egli era costretto di dimostrare una grande, immensa indignazione. Né calma né indifferenza, perché la finzione sarebbe stata troppo difficile. L'indignazione avrebbe spiegato il rossore, avrebbe spiegato il tremito delle mani e l'attenzione intensa ch'egli non avrebbe saputo rifiutare ad ogni più piccolo particolare che gli sarebbe stato riferito sul delitto.
Si vestì, e alle 11, l'ora in cui gli operai non ancora l'invadevano, si portò all'osteria vicina. Prima di uscire dalla sua tana la guardò lungamente; aveva l'aspetto solito dopo ch'egli aveva pulita certa polvere che s'era ammassata accanto al letto di Giovanni, sotto al quale erano state smosse le tavole.
Nessuno avrebbe potuto supporre che in quella stanza era celato un tesoro.
All'osteria all'infuori della fantesca non vide nessuno. Con costei, una bella donna quantunque passatella, egli aveva amato talvolta di scherzare; in quel giorno gli riuscì impossibile.
Rimase seduto al suo posto trasalendo ad ogni rumore che poteva annunciare la venuta di altre persone.
Non aveva udito ancora neppure una parola sull'assassinio! Volle tentare di udire questa prima parola.
Era già avviato per uscire e ritornò a Teresina che portava delle stoviglie alla dispensa. La prese sotto il mento e guardandola fissa negli occhi: – Niente di nuovo Teresina? – le chiese, non trovando una domanda più abile, e nella sua voce vibrò una commozione che lo sorprese.
– Oh! Meno male! – esclamò ella allontanandosi da lui, perché erano troppo vicini alla porta. – Temevo foste ammalato vedendovi oggi così serio!
– Sto poco bene! – disse lui, e acciocché ella più facilmente glielo credesse ripeté la frase più volte. Ella si attendeva di ricevere qualche bacio ora che si era messa all'oscuro, ma egli le andò vicino, la prese per mano amichevolmente, e ripeté la sua domanda: – Niente di nuovo?
– Non sa dire altro quest'oggi? – chiese ella, e volendo fare la smorfiosa si liberò della sua stretta e fuggì.
Sulla via egli camminò con passo che volle sicuro diffilato verso la sua abitazione. Si trovava molto debole, vigliacco in modo sorprendente. Il pensiero al suo misfatto gli aveva tolto ogni naturalezza. Il suo contegno non era più naturale neppure con quella servetta! Perché andava figurandosi che tutta la città si preoccupasse dell'assassinio? Aveva chiesto alla Teresa se nulla sapesse di nuovo e s'era atteso ch'ella subito in risposta alla sua vaga domanda gli raccontasse quanto ella aveva sentito parlare del misfatto. – Oh! Bisogna mutare di contegno –, si disse, nella fiera risoluzione morsicandosi le labbra, – ne va della pelle –. Si era contenuto tanto scioccamente con Teresa che l'aveva resa capace di divenire un testimonio a suo carico.
Forse in città nulla si sapeva dell'assassinio! Questa speranza per quanto insensata diminuì il suo abbattimento. Era l'unica ipotesi felice per lui perché egli aveva capito che non rimaneva impunito se anche non veniva scoperto; quel terrore continuo era già per sé una grave punizione. Chi poteva saperlo? Per un fenomeno qualunque il cadavere di Antonio poteva essere scomparso dalla faccia della terra. Probabilmente sempre è stata la speranza che ha supposto nella natura il miracolo.
Ma troppo presto questa speranza venne distrutta. A mezzodì capitò Giovanni e anche a lui egli disse di essere indisposto per scusarsi di non essere andato al lavoro.
– Ah! Così – fece Giovanni e finché non continuò, Giorgio attribuì il sorriso ironico che gli vedeva errare sulle labbra ad un sospetto. – Sei ammalato come al solito, eh?
Infatti non era la prima volta che Giorgio si diceva ammalato per scusare la sua infingardaggine.
Poi subito senz'altra transizione che uno sbadato: – Hai inteso? – Giovanni incominciò a raccontare del delitto di via Belpoggio. Mangiava del pane che s'era portato di pranzo e quelle parole attese da Giorgio con febbrile impazienza uscivano dalla sua bocca una alla volta con lunghi intervalli. – Certo, Antonio Vacci... pare si tratti di oltre trentamila fiorini. Un bel colpo! Il cuore spaccato! Se è vissuto dieci secondi dopo di aver ricevuto quel colpo è assai.
Giorgio non si agitava soltanto per la sua ultima speranza che crollava. Era stato quel cuore spaccato che gli aveva dato il dolore al braccio; forse nel suo braccio aveva sentito le ultime vibrazioni del viscere moribondo, e l'idea di quel contatto immediato lo faceva fremere. Si sapevano da tutti persino i particolari del delitto; doveva sembrare enorme. Sul corpo di Antonio non era rimasta traccia della istantaneità del fatto, ma della violenza sì.
Non ardiva aprir bocca. Cribrava ogni parola che gli saliva alle labbra e la ringoiava perché ognuna gli pareva dovesse dare sospetto. Non c'era mezzo di far parlare quell'individuo tutto occupato dal suo magro cibo e che nelle tante riflessioni che emetteva non aveva detto ancora nulla sulle supposizioni che dovevano essere state fatte in città sul suo conto?
Finalmente Giorgio trovò una frase che gli parve un capolavoro di naturalezza: – E l'assassino chi è? – Per trovare questa frase aveva dovuto prima esaminare quanta parte del fatto di cui trattavasi fosse a sua conoscenza soltanto perché egli lo aveva commesso, poi esaminare quanto nelle parole di Giovanni vi fosse di oscuro perché era pericoloso dimostrare di aver capito troppo presto tutto – Sì l'assassino chi è?
Con grande gioia egli osservò che l'altro s'impazientava. Mettendovisi con tutt'attenzione egli sapeva dunque ingannare abbastanza abilmente e questa volta non ebbe che un solo rimorso. Nella gioia di aver trovato quella frase l'aveva ripetuta quasi inconsapevole.
– Non te l'ho già detto? Non l'hanno trovato finora. Non si sa chi sia.
E da Giovanni di più non poté sapere ed egli vi rinunciò. Per avere le notizie che Giovanni gli poteva dare non aveva il bisogno di sottostare al supplizio di un colloquio. Se le sarebbe procurate da un giornale.
Un quarto d'ora dopo l'uscita del facchino con un coraggio ch'egli stesso ammirava, egli uscì non senza avere titubato per qualche istante. Col desiderio di notizie ch'era stato stimolato in lui da Giovanni non poteva attendere più oltre.
Per giungere all'edicola più vicina del «Piccolo Corriere» gli occorreva camminare per dieci minuti circa. Camminava dapprima rasente ai muri, poi, per il volgare ragionamento che l'aspetto di voler celarsi avrebbe potuto dar sospetto, franco in mezzo alla via, con passo che voleva essere disinvolto ma che s'impacciava continuamente. Aveva dunque disimparato di camminare?
Avuto il giornale si rintanò immediatamente. Si gettò sul materasso che aveva trascinato sotto all'unica finestra e si mise a leggere. Mai in tutta la sua esistenza egli non aveva trovato tanto interesse a un pezzo di carta stampata, giammai su questa carta egli aveva saputo rivolgere tutta la sua attenzione e dimenticare il proprio contorno da sembrargli, cessata la lettura, di destarsi da un lungo sogno.
L'assassinio era il fatto più importante della cronaca locale e la riempiva quasi del tutto. Il racconto del misfatto era preceduto da alcune considerazioni fatte dal giornale sulla frequenza con cui simili fatti di sangue si verificano in città e con un tono d'amarezza che certamente impressionò maggiormente l'assassino che leggeva che le autorità a cui era destinato, si lagnava della trascuratezza con cui s'invigilava alla pubblica sicurezza.
Leggendo a lui sembrava di odiare il giornale! Perché quell'accanimento? Certamente anche se egli fosse stato punito l'altro non si sarebbe risvegliato più. Non bastava l'accanimento che già naturalmente ci avrebbe messo l'autorità a ricercarlo?
Da tutto l'articolo appariva o si voleva far apparire, che l'assassinio aveva destato la massima sensazione in città. Si trattava di un misfatto, diceva il giornalista, commesso con un'audacia inaudita, in una via della città abbastanza vicina al centro e ad un'ora avanzata bensì, ma non tanto che si dovesse supporne specialmente spopolato quel rione. Un passante qualunque per la sola ragione che aveva seco del denaro era stato ucciso proditoriamente.
S'ingannavano e Giorgio avrebbe dovuto esserne lieto perché in tale modo il sospetto sarebbe caduto anche più difficilmente su lui; nessuno aveva veduto la vittima accompagnata dall'assassino. Però descritto in tale modo quale l'opera di un aggressore che aveva ucciso un passante qualunque solo perché nelle sue tasche aveva supposto del denaro il delitto diveniva ben più terribile; il malessere di Giorgio ne veniva aumentato. Costoro che di lui parlavano non sapevano a quale tentazione egli era stato esposto dall'imbecillità di Antonio.
Era facile a comprendere che descritto in tale guisa l'assassinio doveva commuovere tutta la città. Ognuno sentiva minacciata la propria amata persona e sarebbe divenuto al caso un utile ausiliare della polizia.
Dell'assassino non una sola parola giusta.
Poco prima del fatto, raccontava il giornale, erano stati veduti aggirarsi in quei pressi due individui di pessimo aspetto presumibilmente gli autori dell'omicidio.
Quest'errore era assolutamente consolante per Giorgio ed egli stesso si meravigliò di non sentirsi scendere nel cuore un po' di calma all'apprenderlo.
Quell'articolo l'aveva scosso profondamente. Egli aveva sospettato delle persecuzioni fatte con maggiore fortuna, ma, per quanto sfortunate ora che vi si trovava di fronte, lo agitavano e lo impaurivano. Forse esiste nel nostro organismo qualche parte tanto delicata che già si risente al solo augurio del male. Egli sentiva convergere sul suo tale un cumulo di odio, che, per quanto impotente dovesse sembrargli per il momento, lo opprimeva.
Il giornale che non poteva dire una parola sull'assassino, si sfogava col fare una biografia particolareggiata dell'assassinato.
Antonio Vacci era maritato e padre di due ragazze. La famiglia era vissuta poveramente fino a qualche mese prima, in cui le era toccata inaspettata una vistosa eredità. Il Vacci veniva descritto quale persona di poco cervello e che dacché era arricchito aveva l'abitudine di portare seco una grossa somma di denaro che faceva vedere a chi lo desiderava.
Non era quindi possibile di elevare dei sospetti contro quelle persone che sapevano di questo tesoro ambulante perché erano troppe. «Intanto», soggiungeva il giornale, «l'autorità fa subito degli interrogatori a tutti gli abitanti della casa ove abitava il povero Vacci».
“Oh! Fossi fuggito”, pensò con rammarico cocente l'assassino. Da quanto aveva letto era chiaro che il sospetto fino ad allora non era caduto su di lui e partendo da Trieste la sera innanzi egli sarebbe potuto giungere fino in Isvizzera[307] prima di aver a temere persecuzioni. Riteneva fondatamente che il profondo malessere che lo rendeva tanto infelice non lo avrebbe colto se si fosse trovato lontano dal luogo ove aveva ucciso.
Verso sera si recò anche una volta all'aperto. Camminò più franco ed egli si affrettò ad attribuire quel coraggio alla certezza di sapersi inosservato. Ma la paura regnava sovrana nel suo organismo. A farlo trasalire bastava qualche cosa d'immediato e impreveduto, per esempio di trovarsi improvvisamente faccia a faccia con una montura qualunque che magari somigliasse soltanto a quella di una guardia. Non era la lettura del giornale, la sicurezza di sapersi non sospettato che gli dava coraggio, e finì col riconoscerlo anche lui. Era l'abitudine alla nuova posizione che gli permetteva di muoversi più sciolto. Gran parte di quello che noi diciamo coraggio è l'esperienza e l'abitudine del pericolo.
III
Giovanni entrando alle sette di sera lo guardò con cipiglio comicamente serio: – Sai che si sospetta che tu sii l'assassino di Antonio Vacci? – gli disse a bruciapelo.
Giorgio era nell'oscurità, sul suo giaciglio. Egli sentì che se non fosse stato così, l'altro, alla sola vista della sua fisonomia, che doveva essersi alterata orribilmente, avrebbe compreso che quel sospetto di cui parlava scherzosamente era ben fondato. Ove erano iti i suoi propositi di freddezza e di disinvoltura? – Chi? – balbettò. Non si poteva movere una domanda più sciocca ma l'aveva preferita a tutte le altre perché la più breve che gli fosse venuta in mente.
Giovanni rispose che tutti i loro amici ne parlavano. A quanto raccontava il «Piccolo Corriere della Sera» una donna aveva veduto fuggire l'assassino dal luogo del delitto, anzi quasi ne era stata gettata a terra, e aveva saputo dare sul suo aspetto dei particolari abbastanza precisi: Intanto dei capelli ricci neri, abbondantissimi, e un cappello a cencio.
Lo spavento che in Giorgio era stato provocato dalle prime parole di Giovanni, da queste ultime venne alquanto diminuito. Piccolissima, ma qualche tranquillità gliene doveva derivare. Egli si rammentava di quella donna la quale lo aveva visto nell'oscurità e per un breve istante, tale che sicuramente non le aveva concesso di osservare in lui altro all'infuori del cappello a cencio e dei capelli neri. Di più ella non lo aveva visto uccidere e se anche lo avesse ritrovato e riconosciuto, egli non era del tutto perduto; poteva salvarsi negando. Certo! Era atroce la sua situazione ed egli ne era consapevole, ma tutt'altro che disperata. I capelli si potevano tagliare e mutare il cappello.
– Guarda quale combinazione! – disse pronto a Giovanni con un'audacia di cui poco prima non si sarebbe creduto capace. – Nell'ozio di quest'oggi io avevo deciso di tagliare i capelli che mi pesano, e anche... anche mutare questo cappello a cencio che non mi piace.
Non c'era male, ma lo spavento trapelava se non dalle parole dal suono della voce, e un osservatore più abile di Giovanni se ne sarebbe accorto.
Con intelligenza costui osservò: – Se non vuoi avere seccature da parte della polizia farai bene a non mutare per ora né la tua barba né il tuo cappello.
– Ma se ci sei tu per dichiarare che avevo l'intenzione di fare questi mutamenti prima che del cappello o della barba dell'assassino si parlasse.
Oh! Se avesse potuto trarre Giovanni nella sua orbita, farne il suo complice! Se non fosse stata quella orribile paura di vederlo sorgere quale primo accusatore gli avrebbe gettato le braccia al collo, gli si sarebbe confidato e gli avrebbe offerto metà del suo tesoro imponendogli metà delle sue torture. Gli sarebbe sembrata la liberazione quella di avere un complice, perché egli credeva che avrebbe mutato natura il suo terrore se avesse potuto metterlo in parole. Quel pensiero continuo dei suoi persecutori gli sembrava più terribile perché non espresso. Causa la mancanza della parola ragionata egli credeva di non aver saputo prendere una risoluzione energica che lo avrebbe salvato. Si ragionava tanto male con quelle idee mobili che passavano per la mente senza lasciarvi traccia, inafferrabili pochi istanti dopo nate.
Fece un leggero tentativo di ottenere aiuto da Giovanni non appellandosi però con una confessione alla sua amicizia, ma confidando nella debolezza del cervello di costui. – Del resto – disse con noncuranza – sai bene che all'ora in cui dicono che il misfatto è stato commesso, io ero già a letto, tant'è vero che mi salutasti entrando.
– Non rammento! – disse Giovanni con un'esitazione che chiuse definitivamente la bocca a Giorgio; somigliava molto a un sospetto.
E tacque quantunque Giovanni poi sembrasse parlare appositamente per ridargli il coraggio che gli aveva tolto.
Poco prima di uscire disse: – Ecco un colpo di coltello che frutta bene a quel brav'uomo che lo diede. Io se vivessi cento anni e sempre lavorassi, non guadagnerei quanto costui ha conquistato in un solo istante. In fondo sono pregiudizi che ci trattengono dal fare il nostro interesse. Paff! Un colpo bene assestato e si ha tutto quello che occorre!
Guardandolo uscire Giorgio pensava che forse Giovanni sarebbe stato capace di ammazzarlo al sicuro per trafugargli il suo tesoro ma che non avrebbe accettato la complicità in un affare pericoloso. Egli si sentiva migliore di molto di lui che a sangue freddo predicava l'assassinio. Egli l'aveva commesso ma in un dato momento, vinto dalla tentazione di rendere suoi quei denari che lo salvavano dalla sua infelicissima vita. Non aveva ragionato e in quell'istante nemmeno se avesse avuto presente la punizione che gli sarebbe potuta toccare per quel fatto, la forca, il boia, non si sarebbe lasciato trattenere. Aveva dunque arrischiato la propria vita per prendersi l'altrui e, non come vigliaccamente faceva Giovanni, accarezzato l'idea di uccidere al sicuro.
O forse ora se ne era dimenticato? L'atto di cui egli ricordava l'istantaneità non era stato prodotto da un'aberrazione momentanea e lo provava la soddisfazione ch'egli lungamente aveva sentita scoprendosi in quello stesso atto forte ed energico. Oscuramente poi si ricordò che qualche idea molto simile a quella enunciata da Giovanni doveva essere passata anche per la sua mente. Quale strano indebolimento della memoria! L'assassinio era venuto a dividere la sua vita in due parti e al di là di quell'avvenimento egli non ricordava le proprie idee, le proprie sensazioni, il proprio individuo che oscuramente come se si fosse trattato di cose non vissute ma udite raccontare, molti, molti anni prima.
Ora, doveva rassegnarsi a riconoscerlo, egli era un individuo di cui la soppressione veniva desiderata da un'intera società.
Come sfuggire a tale odio, come rendersene meno degno? Se egli fosse stato chiamato a dare ragione del suo misfatto, che cosa avrebbe detto per diminuirne agli occhi altrui la crudeltà, convincerli ch'egli era migliore di quanto poteva apparire se giudicato unicamente da quella sua azione? Egli avrebbe raccontato che un individuo ch'egli appena conosceva gli aveva consegnato del denaro quasi dicendogli: – Se mi uccidi sono tuoi! – che egli seguendo l'invito lo aveva ucciso. Non avrebbe trovato altro da dire? Sicuramente ciò non bastava a giustificarlo né a far apparire minore la sua colpa e scoprendo che vi era l'impossibilità di convincere altri della propria innocenza, egli finì col riconoscere che il suo sentimento era anormale, irragionevole. Strano infatti il sentimento d'innocenza in un individuo che aveva ucciso e non per amore o per odio ma per avidità.
Egli non poteva più ingannare se stesso, ma gl'importava tanto di diminuire l'odio e il disprezzo nei suoi futuri giudici che a quello scopo dedicò tutto il suo pensiero e quando credette di aver scoperto i mezzi per raggiungerlo, in quell'opera impiegò un tempo prezioso, nel quale avrebbe potuto fors'anche salvarsi.
Da parecchi anni non s'era rammentato di sua madre ed ora pensava a lei per farsi aiutare in una finzione che aveva progettato. Se il suo delitto fosse stato scoperto, e non stava in suo potere d'impedirlo, egli avrebbe asserito che l'aveva commesso per porsi in stato di aiutare la sua vecchia madre.
A notte fatta egli fece la lunga gita a S. Giacomo ove doveva trovarsi la madre. Camminando non pensava affatto al piacere di rivederla; rifaceva la scena su cui aveva già fantasticato, in cui si sarebbe giustificato dinanzi ai giudizi.
Il suo delitto non aveva avuto altro scopo che di rendere aggradevoli gli ultimi anni di vita di una povera vecchia, di sua madre. Non ne dubitava più. Gli sarebbe stato facile di mutare in un'indulgenza commessa l'orrore che avrebbe ispirato la sua azione.
Era certo di poter indurre sua madre a recitare la commedia. Era una donna intelligente che non lo amava dacché egli aveva tradito le speranze ch'ella in lui aveva riposte, ma che lo avrebbe accarezzato non appena saputolo ricco. A lui era di grande conforto quella speranza di affetto ch'egli avrebbe corrisposto con tutte le forze dell'anima sua. In quell'affetto si sarebbe quietata la sua agitazione, si sarebbero annegati quelli che impropriamente egli chiamava rimorsi. L'avrebbe trattata dolcemente, si sarebbe confidato a lei come a se stesso, e avrebbe posto a sua disposizione tutto il suo denaro. Quell'amore gli nasceva nel cuore addirittura violento. Nulla di simile era mai passato per la sua anima. Egli era stato sempre egoista e duro ed ora si compiaceva nell'idea di accarezzare un essere debole e farsene lo schiavo e il difensore.
Scorse un ragazzo seduto accanto alla prima casa operaia. Lo riconobbe e provò un sentimento giocondo: Era Giacomino, il figliuolo di un vicino della madre.
Il ragazzo nell'ombra fumava con voluttà; vedendo Giorgio arrossendo si levò in piedi e celò la sigaretta nel cavo della mano.
Giorgio gli sorrise e voleva rassicurarlo, dirgli ch'egli di certo non lo avrebbe denunciato al padre, ma non aveva tempo e si limitò a quel sorriso.
– Mia madre dov'è? – chiese con premura come se avesse da portarle una notizia urgente.
Più rassicurato da quel sorriso che attristato dalla triste notizia che doveva dare, il ragazzo disse: – Sua madre? – e spese queste due uniche parole per preparare Giorgio, aggiunse rapidamente: – Sua madre è morta da otto giorni all'ospedale. Anzi papà sarà contento di vederla perché da parte della signora Annetta ha da dirle qualche cosa. Vado a chiamarlo!
– Non occorre, non occorre – disse Giorgio con voce afona, e, già allontanandosi, in modo che il ragazzo forse non poté udirlo aggiunse: – Ritornerò domani, addio.
Così perdette quella speranza che in poche ore aveva accarezzato tanto da finire col tenerci addirittura quanto alla speranza di non venir scoperto. Non era il dolore per la morte della madre che lo faceva barcollare e che gli offuscava la vista. Egli non vedeva dinanzi a sé il volto della defunta ora illividito, o non richiamava alla mente la voce che non doveva udire più mai, o il gesto che tanto spesso era stato affettuoso per lui. Era morta inopportunamente quella vecchia e la sua morte faceva di lui di nuovo un vile assassino rapace.
Fu questa notizia sorprendente che gli tolse la capacità di pensare e lo gettò in braccio ai suoi persecutori. In quelle ore in cui s'era cullato nel sogno di fingere al suo delitto uno scopo nobile e guadagnarsi nel caso in cui fosse stato preso la commiserazione dei suoi simili, egli non aveva pensato al difficile compito di sfuggire alla pena. Perduta questa speranza la paura lo aveva guadagnato di nuovo del tutto ed egli fuggiva anche adesso che ritornando in città si avvicinava maggiormente al pericolo.
Nella oscurità accanto a piazza della Barriera, ebbe una strana visione. Con lo stesso suo passo veloce camminava dinanzi a lui un ometto curvo, piccolo, misero, le mani ostinatamente in tasca, Antonio Vacci insomma. Lo vedeva distintamente, scorgeva tutte le particolarità della miserabile personcina, persino i radi capelli grigi accuratamente lisciati sulle tempie, e per un istante non ebbe dubbio di sorta: Antonio era vivo!
Non si fermò a riflettere come ciò potesse essere dopo ch'egli l'aveva visto giacere in terra come cosa senza vita. Antonio era vivo ed egli non aveva ucciso. Si cacciò innanzi con un urlo. Voleva offrirgli la restituzione di tutti i suoi denari, magari obbligandosi a dargliene degli altri in futuro e non chiedergli nulla in compenso, soltanto che vivendo testificasse ch'egli non aveva ucciso.
Stupefatto si trovò dinanzi ad una faccia misera, dalla pelle incartapecorita ma del tutto sconosciuta, non quella di Antonio, e ripiombò nella sua disperazione con questo di più che essendosi trovato a desiderare la vita di Antonio con una intensità maggiore, egli si giudicò anche meno degno di odio e di persecuzione e provò una forte compassione di se stesso che gli cacciò le lagrime agli occhi. Egli si vedeva come un uomo che capitato per propria colpa su un'erta china precipita e rimangono inutili tutti i suoi sforzi per fermarsi perché il terreno frana sotto ai suoi piedi e gli arbusti a cui si attacca non resistono. Gli sembravano sforzi per fermarsi quella gita in cerca di sua madre e la speranza di ritrovare Antonio vivo!
Invece appena allora, in quell'agitazione in cui si trovava, fece l'unico sforzo per salvarsi, ma tanto balordamente che fu quello stesso sforzo che lo perdette. L'uomo sulla china, per salvarsi, non aveva trovato di meglio che secondarla e precipitarsi da sé a valle.
Bisognava liberarsi da quel cappello a cencio che gli pesava sulla testa come il suo delitto stesso. Non rammentò l'intelligente osservazione di Giovanni e risoluto entrò da un cappellaio. Era l'ora in cui si doveva venir osservati meno perché si stava già chiudendo il negozio, ma egli non pensò che trasudato dalla corsa e agitato da tante emozioni, sarebbe bastato un solo sospetto per scoprire in lui il malfattore che fugge.
Una ragazza già vestita per abbandonare il negozio, inguantata, elegante, con certi occhi neri spiritati dall'impazienza, gli chiese che cosa desiderasse e udito che voleva un cappello con una smorfia ritornò dietro il banco. Il padrone un giovine alto e magro si alzò da un piccolo tavolo posto nel fondo del negozio. Prima che si alzasse Giorgio non lo aveva veduto ed ora non lo guardava ma si sentiva osservato da lui, ciò che finì con lo sconcertarlo.
– Presto – mormorò con accento supplichevole che alla ragazza dovette sembrare fuori di posto.
Ella gli offerse un altro cappello a cencio. – No – disse lui con qualche vivacità.
Ella gliene porse un altro ch'egli prese in mano risoluto di non rimanere più oltre in quella luce, osservato con intensa curiosità dalla ragazza, dal padrone e dal facchino che aveva tralasciato di ritirare i cappelli esposti evidentemente soltanto per guardarlo.
Egli ben volentieri avrebbe fatto a meno di provare il cappello nuovo prima di pagarlo, ma capì che ne era obbligato dalla più rudimentale prudenza. Si levò il cappello a cencio e la faccia venne inondata da un sudore abbondante.
– Caldo? – chiese la ragazza motteggiando.
Egli esitò un istante prima di rispondere. Gli parve che da quella domanda gli fosse stata data l'occasione di spiegare che si trovava in quello stato in seguito alla lunga gita da lui fatta e non per altra ragione. Ma non seppe avere tanta audacia. – Sì! Molto caldo! – mormorò rasciugandosi il fronte.
Pagò e uscì dimenticandosi di prendere con sé il cappello a cencio. Il cappello nuovo, troppo piccolo, gli stava in testa in equilibrio e malfermo gli dava immenso fastidio.
In piazza della Barriera per la quale dovette ripassare vide Giovanni con altri tre operai. Si avvicinò loro esitante, sapendo allora per esperienza che ogni sua parola ogni suo gesto sarebbe stato tanto strano da destare sospetto.
L'accolsero con saluto glaciale e lo guardarono con diffidenza. Non era un inganno della sua paura; così non lo avevano trattato mai. Lo guardavano con curiosità e nessuno gli rivolse la parola.
A mezzo ubbriaco dal terrore egli ebbe un ultimo tentativo di disinvoltura: – Si va all'osteria? Pagherò io per questa sera.
Giovanni gli disse: – Essi sospettano che tu sii l'assassino di via Belpoggio e finché non ti sei nettato di questo sospetto non vogliono venire con te! –
Egli comprese che se fosse stato innocente avrebbe dovuto atterrare chi per primo elevava un simile sospetto. Ma che cosa poteva fare con quel tremito che gl'invadeva le membra e gl'impediva persino la parola?
I quattro operai si allontanarono inorriditi da lui. Il loro sospetto era divenuto certezza.
Barcollando egli si allontanò.
Aveva fatto pochi passi quando si sentì preso con violenza per ambedue le braccia e udì qualcuno che vicinissimo al suo orecchio gridò: – In nome della legge...
Ebbe una violenta allucinazione mentre gli rimaneva abbastanza di coscienza per capire che non era altro che un'allucinazione. Intese un enorme fragore, il rumore di cose che crollavano, le imprecazioni di una folla armata e vide dinanzi a sé Antonio che rideva sgangheratamente, le mani nelle tasche, nelle quali certo aveva riposto il suo tesoro riconquistato. Poi più nulla.
Si ritrovò adagiato sul suo giaciglio. Nella stanza v'era una sola guardia.
Due uomini vestiti in borghese, di cui uno, piccolo e tarchiato, con un volto grasso e dolce sembrava il superiore, contavano i denari che già avevano trovati sotto il giaciglio di Giovanni.
Costui li aveva aiutati e stava in posizione rispettosa in un canto della stanza. Alla porta vi era un'altra guardia, che tratteneva la folla che si spingeva innanzi.
– Assassino! – gli gridò una vecchia alla quale era riuscito di giungere fino sul limitare della porta, e sputò.
Era perduto! Non poteva negare, ma quello ch'era peggio non avrebbe mai trovato le parole per descrivere le torture da lui sofferte e che avrebbero attenuato la sua colpa. Per tutti costoro egli era una macchina malvagia di cui ogni movimento era una mala azione o il desiderio di farla, mentre egli sentiva di essere un miserabile giocattolo abbandonato in mano capricciosa.
Con voce dolcissima l'uomo dal volto dolce gli chiese se stesse meglio, poi il nome. In quella faccia non vi era segno di odio o di disprezzo e Giorgio dicendo il proprio nome lo guardò fisso per non vedere la folla alla porta.
Poi la medesima persona comandò alla guardia di far entrare per il confronto quella donna e il cappellaio.
– No! – pregò Giorgio, e abbondanti lagrime gl'irrigarono il volto. – Ella mi sembra buono e non mi torturerà inutilmente; le dirò tutto, tutta la verità. – Poi indugiò alquanto quasi per attendere una ispirazione che lo portasse a tacere, a salvarsi, ma bastò un piccolo movimento d'impazienza del suo interlocutore per far cessare ogni esitazione. – Sono io l'assassino di Antonio – disse con voce semispenta.

Il viaggio
da Novelle per un anno di Luigi Pirandello[308]
Adriana Braggi è una donna di tren­tacinque anni, che vive in Sicilia nel­la prima metà del Novecento. Sposatasi a diciotto anni, è rimasta ve­dova dopo quattro anni di matrimo­nio e da allora vive in una sorta di clausura con i due figli nella casa di famiglia, in una cittadina dell’interno dell’isola. Secondo le usanze, esce pochissimo, solo accompa­gnata, e segue con rassegnata dedizione la crescita dei figli e i lavori dei domestici nel palazzo. Con lei vive l’anziana madre e Cesare Braggi, il fratello maggiore del marito, ancora scapolo. L’uomo, dopo la morte del fratello, ha provveduto al mantenimento dell’intera famiglia. Morta la madre e divenuti adolescenti i due figli, Adriana, nonostante la giovane età, si sente vec­chia e stanca.
L’angoscia e l’oppressione si acutizzano in concomitanza di alcuni malesseri che preoccupano il suo medico curante; quest’ultimo le consiglia di recarsi a Palermo per consultare uno specialista.
L’i­dea di un viaggio verso la città, e forse verso altre mete, la anima di un fervore e di un’ansia febbrili, quasi infantili. Cesare Braggi la accompagna e tra i due si accende un’improvvisa, tumultuosa passione. Amareggiata dal fatto di non poter dare una forma conven­zionale a questa unione, e di non poter quindi ritorna­re a casa, la donna, giunta dopo un lungo itinerario a Milano, si suicida.
Adriana è sul treno diretto a Palermo; arrivata in città, viene visitata da un illustre medico e dopo qualche giorno parte, sempre in compagnia del cognato, alla volta di Napoli.

Andava in treno per la prima volta. A ogni tratto, a ogni giro di ruota, aveva l’im­pressione di penetrare, d’avanzarsi in un mondo ignoto, che d’improvviso le si crea­va nello spirito con apparenze che, per quanto le fossero vicine, pur le sembravano come lontane e le davano, insieme col piacere della loro vista, anche un senso di pena sottilissima e indefinibile: la pena ch’esse fossero sempre esistite oltre e fuori dell’esistenza e anche dell’immaginazione di lei; la pena d’essere tra loro estranea e di pas­saggio, e ch’esse senza di lei avrebbero seguitato a vivere per sé con le loro proprie vicende.
Ecco lì le umili case di un villaggio: tetti e finestre e porte e scale e strade: la gente che vi dimorava era, come per tanti anni era stata lei nella sua cittaduzza, chiusa lì in quel punto di terra, con le sue abitudini e le sue occupazioni: oltre a quello che gli occhi arrivavano a vedere, non esisteva più nulla per quella gente; il mondo era un sogno: tanti e tanti lì nascevano e lì crescevano e morivano, senza aver visto nulla di quel che ora andava a veder lei in quel suo viaggio[309], che era così poco a petto della grandezza del mondo, e che tuttavia a lei sembrava già tanto.
Nel volgere gli occhi, incontrava a quando a quando lo sguardo e il sorriso del cognato, che le domandava:
«Come ti senti?».
Gli rispondeva con un cenno del capo:
«Bene».
Più d’una volta il cognato venne a sederlesi accanto per mostrarle e nominarle un paese lontano, ov’era stato, e quel monte là dal profilo minaccioso, tutti gli aspetti di maggior rilievo che si figurava dovessero più vivamente richiamare l’attenzione di lei.
Non intendeva che tutte le cose, anche le minime, quelle che per lui erano le più comuni, destavano intanto in lei un tumulto di sensazioni nuove; e che le indicazio­ni, le notizie ch’egli le dava, anziché accrescere, diminuivano e raffreddavano quella fervida, fluttuante immagine di grandezza, ch’ella, smarrita, con quel sentimento di pena indefinibile, si creava alla vista di tanto mondo ignoto.
Nel tumulto interno delle sensazioni, inoltre, la voce di lui, anziché far luce, le cagionava quasi un arresto buio e violento, pieno di fremiti pungenti; e allora quel sentimento di pena si faceva più acuto in lei, più distinto. Si vedeva meschina nella sua ignoranza; e avvertiva un oscuro e quasi ostile rincrescimento della vista di tutte quelle cose che ora, troppo tardi per lei, all’improvviso, le riempivano gli occhi e le entravano nell’anima.
A Palermo, scendendo il giorno dopo dalla casa del clinico primario dopo la lunghissima visita, comprese bene dallo sforzo che faceva il cognato per nascondere la profonda costernazione, dalla premura affettata[310] con cui ancora una volta aveva vo­luto farsi insegnare il modo di usare la medicina prescritta e dall’aria con cui il me­dico gli aveva risposto; comprese bene che questi aveva dato su lei sentenza di morte, e che quella mistura di veleni da prendere a gocce con molta precauzione, due volte al giorno prima dei pasti, non era altro che un inganno pietoso o il viatico[311] di una lenta agonia.
Eppure, appena, ancora un po’ stordita e disgustata dal diffuso odore dell’etere[312] nella casa del medico, uscì dall’ombra della scala sulla via, nell’abbagliamento del sole al tramonto, sotto un ciclo tutto di fiamma che dalla parte della marina lanciava come un immenso nembo sfolgorante sul Corso lunghissimo; e vide tra le vetture entro quel baglior d’oro il brulichio della folla rumorosa, dai volti e dagli abiti acce­si da riflessi purpurei, i guizzi di luce, gli sprazzi colorati[313], quasi di pietre preziose, delle vetrine, delle insegne, degli specchi delle botteghe; la vita, la vita, la vita soltan­to si sentì irrompere in subbuglio nell’anima per tutti i sensi commossi ed esaltati quasi per un’ebbrezza divina; né potè avere alcuna angustia, neppure un fuggevole pensiero per la morte prossima e inevitabile, per la morte ch’era pure già dentro di lei, appiattata là, sotto la scapola sinistra, dove più acute a tratti sentiva le punture. No, no, la vita, la vita! E quel subbuglio interno che le sconvolgeva lo spirito, le face­va impeto intanto alla gola, ove non sapeva che cosa, quasi un’antica pena sommos­sa dal fondo del suo essere le si era a un tratto ingorgata, ed ecco la forzava alle lagri­me, pur fra tanta gioia.
«Niente... niente...» disse al cognato, con un sorriso che le s’illuminò vividissimo negli occhi attraverso le lagrime. «Mi par d’essere... non so... Andiamo, andiamo...»
«All’albergo?»
«No... no...»
«Andiamo allora a cenare allo "Chalet" a mare, al Foro Italico; ti piace?»
«Sì, dove vuoi.»
«Benissimo. Andiamo! Poi vedremo il passeggio al Foro; sentiremo la musica...» Montarono in vettura e andarono incontro a quel nembo sfolgorante, che accecava.
Ah, che serata fu quella per lei, nello «Chalet» a mare, sotto la luna, alla vista di quel Foro illuminato, corso da un continuo fragore di vetture scintillanti, tra l’odore delle alghe che veniva dal mare, il profumo delle zagare[314] che veniva dai giardini! Smarrita come in un incanto sovrumano, a cui una certa angoscia le impediva di abbandonarsi interamente, l’angoscia destata dal dubbio che non fosse vero quanto vedeva, si senti va lontana, lontana anche da se stessa, senza memoria né coscienza né pensiero, in una infinita lontananza di sogno.
L’impressione di questa lontananza infinita la riebbe più intensa la mattina se­guente, percorrendo in vettura gli sterminati viali deserti del parco della Favorita, per­ché, a un certo punto, con un lunghissimo sospiro potè quasi rivenire a sé da quella lontananza e misurarla, pur senza rompere l’incanto né turbare l’ebbrezza di quel sogno nel sole, tra quelle piante che parevano assorte anch’esse in un sogno senza fine.
E, senza volerlo, si voltò a guardare il cognato, e gli sorrise, per gratitudine.
Subito però quel sorriso le destò una viva e profonda tenerezza per sé condanna­ta a morire, ora, ora che le si schiudevano davanti agli occhi stupiti tante bellezze meravigliose, una vita, quale anche per lei avrebbe potuto essere, qual era per tante creature che lì vivevano. E sentì che forse èra stata una crudeltà farla viaggiare.
Ma poco dopo, quando la vettura finalmente si fermò in fondo a un viale remoto, ed ella, sorretta da lui, ne scese per vedere da vicino la fontana d’Ercole; lì, davanti a quella fontana, sotto il cobalto del cielo[315] così intenso che quasi pareva nero attorno alla fulgida statua marmorea del semidio su l’alta colonna sorgente in mezzo all’am­pia conca, chinandosi a guardare l’acqua vitrea, su cui nuotava qualche foglia, qualche cuora verdastra[316] che riflettevano l’ombra sul fondo; e poi, a ogni lieve ondulìo di quell’acqua, vedendo vaporare come una nebbiolina sul volto impassibile delle sfin­gi che guardano la conca, quasi un’ombra di pensiero si sentì anche lei passare sul volto che come un alito fresco veniva da quell’acqua; e subito a quel soffio un gran silenzio di stupore le allargò smisuratamente lo spirito; e, come se un lume d’altri cieli[317] le si accendesse improvviso in quel vuoto incommensurabile, ella sentì d’attin­gere in quel punto quasi l’eternità, d’acquistare una lucida, sconfinata coscienza di tutto, dell’infinito che si nasconde nella profondità dell’anima misteriosa, e d’aver vissuto, e che le poteva bastare, perché era stata in un attimo, in quell’attimo, eterna.

Propose al cognato di ripartire quello stesso giorno. Voleva ritornarsene a casa, per lasciarlo libero, dopo quei quattro giorni sottratti alle sue vacanze. Un altro giorno egli avrebbe perduto per riaccompagnarla; poi poteva riprendere la via, la sua corsa an­nuale per paesi più lontani, oltre quell’infinito mare turchino. Senza timore poteva, che di sicuro lei non sarebbe morta così presto, in quel mese delle sue vacanze.
Non gli disse tutto questo; lo pensò soltanto; e lo pregò che fosse contento di ricondurla al paese.
«Ma no, perché?» le rispose egli. «Ormai ci siamo; tu verrai con me a Napoli. Consulteremo là, per maggior sicurezza, qualche altro medico.»
«No, no, per carità, Cesare! Lasciami ritornare a casa. È inutile!»
«Perché? Nient’affatto. Sarà meglio. Per maggior sicurezza.»
«Non basta quello che abbiamo saputo qua? Non ho nulla; mi sento bene, vedi? Farò la cura. Basterà.»
Egli la guardò serio e disse:
«Adriana, desidero così».
E allora ella non potè più replicare: vide in sé la donna del suo paese che non deve mai replicare a ciò che l’uomo stima giusto e conveniente; pensò che egli volesse per sé la soddisfazione di non essersi contentato d’un solo consulto, la soddisfazione che gli altri, là in paese, domani, alla morte di lei, potessero dire: «Egli fece di tutto per salvarla; la portò a Palermo, anche a Napoli...». O forse era in lui veramente la speranza che un altro medico di più lontano, più bravo, riconoscesse curabile il male, scoprisse un rimedio per salvarla? O forse... ma sì, questo era da credere piuttosto: sapendola irremissibilmente perduta, egli voleva, poiché si trovava in viaggio con lei, procurarle quell’ultimo e straordinario svago, come un tenue compenso alla crudeltà della sorte.
Ma ella aveva orrore, ecco, orrore di tutto quel mare da attraversare. Solo a guar­darlo, con questo pensiero, si sentiva mozzare il fiato, quasi avesse dovuto attraver­sarlo a nuoto.
«Ma no, vedrai», la rassicurò egli, sorridendo. «Non avvertirai neppure d’esserci, di questa stagione. Vedi com’è tranquillo? E poi vedrai il piroscafo... Non sentirai nulla.»
Poteva ella confessargli l’oscuro presentimento che la angosciava alla vista di quel mare, che cioè, se fosse partita, se si fosse staccata dalle sponde dell’isola che già le parevano tanto lontane dal suo paesello e così nuove; in cui già tanta agitazione, e così strana, aveva provato; se con lui si fosse avventurata ancor più lontano, con lui sperduta nella tremenda, misteriosa lontananza di quel mare, non sarebbe più ritor­nata alla sua casa, non avrebbe più rivalicato quelle acque, se non forse morta? No, neanche a se stessa poteva confessarlo questo presentimento; e credeva anche lei a quell’orrore del mare, per il solo fatto che prima non lo aveva mai neppur veduto da lontano; e, doverci ora andar sopra[318]...
S’imbarcarono quella sera stessa per Napoli. Di nuovo, appena il piroscafo si mosse dalla rada[319] e uscì dal porto, passato lo stor­dimento per il trambusto e il rimescolio di tanta gente che saliva e scendeva per il pontile, vociando, e lo stridore delle gru su le stive; vedendo a grado a grado allontanarsi è rimpiccolirsi ogni cosa, la gente su lo scalo, che seguitava ad agitare in salu­to i fazzoletti, la rada, le case, finché tutta la città non si confuse in una striscia bian­ca, vaporosa, qua e là trapunta da pallidi lumi sotto la chiostra ampia dei monti[320] grigi rossigni; di nuovo si sentì smarrire nel sogno, in un altro sogno meraviglioso, che le faceva però sgranare gli occhi di sgomento, quanto più, su quel piroscafo, pur gran­de, sì, ma forse fragile se vibrava tutto così ai cupi tonfi cadenzati delle eliche, entra­va nelle due immensità sterminate del mare e del cielo.
Egli sorrise di quello sgomento e, invitandola ad alzarsi e passandole con una inti­mità che finora non s’era mai permessa un braccio sotto il braccio, per sorreggerla, la condusse a vedere di là, su la coperta stessa, i lucidi possenti stantuffi d’acciaio[321] che movevano quelle eliche. Ma ella, già turbata di quel contatto insolito, non potè resistere a quella vista e più al fiato caldo, al tanfo grasso[322] che vaporavano di là, e fu per mancare e reclinò e quasi appoggiò il capo su la spalla di lui. Si contenne subito, quasi atterrita di quella voglia istintiva d’abbandono a cui stava per cedere.
E di nuovo egli, con maggior premura, le chiese:
«Ti senti male?».
Col capo, non trovando la voce, gli rispose di no. E andarono tutti e due, così a braccio, verso la poppa, a guardar la lunga scia fervida fosforescente sul mare già divenuto nero sotto il cielo polverato di stelle, in cui il tubo enorme della ciminiera esalava con continuo sbocco il fumo denso e lento, quasi arroventato dal calore della macchina. Finché, a compir l’incanto, non sorse dal mare la luna; dapprima tra i vapori dell’orizzonte come una lugubre maschera di fuoco che spuntasse minaccio­sa a spiare in un silenzio spaventevole quei suoi dominii d’acqua; poi a mano a mano schiarendosi, restringendosi precisa nel suo niveo fulgore[323] che allargò il mare in un argenteo pàlpito senza fine. E allora più che mai Adriana sentì crescersi dentro l’angoscia e lo sgomento di quella delizia che la rapiva e la traeva irresistibilmente a nascondere, esausta, la faccia sul petto di lui.

Fu a Napoli, in un attimo, nell’uscire da un caffè-concerto, ove avevano cenato e passato la sera. Solito egli, nei suoi viaggi annuali, a uscire di notte da quei ritrovi con una donna sotto il braccio, nel porgerlo ora a lei, colse all’improvviso sotto il gran cappello nero piumato il guizzo d’uno sguardo acceso, e subito, quasi senza volerlo, diede col braccio al braccio di lei una stretta rapida e forte contro il suo petto. Fu tutto. L’incendio divampò.
Là, al buio, nella vettura che li riconduceva all’albergo, allacciati, con la bocca su la bocca insaziabilmente, si dissero tutto, in pochi momenti, tutto quello che egli or ora, in un attimo, in un lampo, al guizzo di quello sguardo aveva indovinato: tutta la vita di lei in tanti anni di silenzio e di martirio. Ella gli disse come sempre, sempre, senza volerlo, senza saperlo, lo avesse amato; e lui quanto da giovinetta la aveva desi­derata, nel sogno di farla sua, così, sua! sua!
Fu un delirio, una frenesia, a cui diedero una violenta lena instancabile la brama di ricompensarsi in quei pochi giorni sotto la condanna mortale di lei, di tutti quegli anni perduti, di soffocato ardore e di nascosta febbre; il bisogno d’accecarsi, di per­dersi, di non vedersi quali finora l’uno per l’altra erano stati per tanti anni, nelle com­poste apparenze oneste, laggiù, nella cittaduzza dai rigidi costumi, per cui quel loro amore, le loro nozze domani sarebbero apparse come un inaudito sacrilegio.
Che nozze? No! Perché lo avrebbe costretto a quell’atto quasi sacrilego per tutti? perché lo avrebbe legato a sé che aveva ormai tanto poco da vivere? No, no: l’amore, quell’amore frenetico e travolgente, in quel viaggio di pochi giorni; viaggio d’amore, senza ritorno; viaggio d’amore verso la morte.


[1] Racconti fantastici –  I Racconti fantastici di Tarchetti, raccolti in un volume postumo del 1869, sono il primo esempio in Italia di letteratura fantastica. Ma Tarchetti non  si  limita  a  guardare  ad Hoffmann,  Poe  e  Gautier  per confezionare  oscuri  quadri  e inquietanti  atmosfere evocanti  sinistre  influenze,  tormentate chiaroveggenze, apparizioni oltretombali, schizofrenie atterrite e sdoppiamenti della personalità.
Seguendo un originale modello di racconto fantastico, Tarchetti ne viola in più di un’occasione il codice,  introduce  elementi  formali  inediti,  tenta  la  via sperimentale  del  linguaggio  psicotico  e  paranoide,  mescola  il patetico  con  l’umorismo  e  lo  straordinario  col  grottesco.
Due racconti, in particolare, mostrano la lucida strategia del narratore che vuole rinnovare l’istituto del fantastico europeo integrandovi il  registro  dell’autobiografia  simulata  (I  fatali)  ed  il  verismo linguistico della scrittura stilizzante una forma modernissima di visionaria psicofollia espressionista (La lettera U).
Tarchetti non ambisce  ad  emulare  ad  arte  una  drammatica  del  racconto fantastico,  ma  punta  a  rivoluzionarne  la grammatica  retorico-formale, attingendo ai contenuti del recente repertorio scientifico e ad un verismo stilistico che organizza e caratterizza la semantica dell’angoscia paranoide.
[2] Iginio Ugo Tarchetti – Iginio Pietro Teodoro Tarchetti nacque a San  Salvatore Monferrato il 9 giugno 1839. Quinto di otto figli di una famiglia agiata compì studi classici presso i Padri Somaschi.
Alla fine del liceo classico, Tarchetti si arruolò nell’Esercito ed iniziò la sua breve e tempestosa carriera di ufficiale nel Commissariato militare.
Nel 1861, Tarchetti fu inviato con il proprio reggimento a Foggia, e quindi a Lecce, a Taranto e a Salerno, per la repressione del brigantaggio meridionale.
Nel 1863, Tarchetti ottenne il trasferimento a Varese e qui conobbe Carlotta Ponti, con la quale  iniziò  una relazione amorosa (osteggiata dal padre della giovane che arrivò a minacciarlo con la pistola), che durò circa un anno e di cui resta traccia nel fitto epistolario.
Negli anni 1863-65 maturarono le sue esperienze più importanti: terminata la travagliata  relazione con Carlotta, gli affanni maggiori gli derivarono dall’impiego militare e dall'insofferenza per la disciplina, acuitasi soprattutto dopo il periodo trascorso nell’Italia meridionale, durante il quale si era rafforzato  il suo fondamentale antimilitarismo che spesso gli aveva procurato punizioni.
Nel 1864, Tarchetti ottenne un’aspettativa per motivi di salute: si recò a  Milano e qui avviò, con alcuni amici, un cenacolo letterario ed in omaggio ad Ugo Foscolo, assunse  il secondo nome di Ugo.
Il 31 ottobre 1865 sulla Rivista minima, Tarchetti pubblicò le Idee minime sul romanzo  e, nel mese di novembre, proprio pochi giorni dopo l’inizio della pubblicazione di Paolina sulla stessa rivista, fu richiamato in servizio e destinato a Parma, dove intrecciò una scandalosa relazione con la parente di un suo superiore, Carolina, una donna epilettica di cui rimane traccia nella protagonista del romanzo Fosca.
Congedatosi dall’Esercito, ritornò a Milano e qui, insieme agli amici scapigliati cominciò a condurre una vita disordinata e turbolenta, ma anche  letterariamente impegnata, alternando fughe a Torino e a San  Salvatore alla frequentazione di salotti borghese, come quello della contessa Clara Maffei, e delle redazioni dei periodici radicali come il Gazzettino rosa.
Amico dei coetanei scapigliati, per qualche tempo Tarchetti fece parte della redazione dell’Emporio pittoresco, pubblicando diversi articoli. Intanto, oltre alle  novelle e  ad alcune poesie, pubblicò a puntate su Il Sole  il romanzo antimilitarista Drammi della vita militare .Vincenzo D***,  Una nobile follia.
Fra il 1868 e il 1869, Tarchetti visse ospite dell'amico Salvatore Farina, che spesso lo aiutò anche economicamente.
Il 25 marzo 1869, con il fisico già minato dalla tisi, per un attacco di febbre tifoide Tarchetti si aggravò e  morì in casa di Farina.
Nel 1869, postumi furono pubblicati: Racconti fantastici,  L'amore nell'arte, Storia di una gamba,  L'innamorato della montagna e Fosca.
Nel 1879 fu pubblicato Disjecta.
[3] Desumere: Trarre notizie da una fonte
[4] Il: lo
[5] Enigma: Fatto inspiegabile, mistero
[6] Poole: Poole è una città del Dorset in Inghilterra. Nell'abitato si segnalano alcune belle costruzioni tardo-medievali, fra cui il palazzo municipale, del XIV secolo. Poole, con le sue spiagge ed il porto turistico, attraeva numerosi visitatori durante il periodo estivo.
[7] Graz: Graz è il capoluogo della Stiria in Austria.
[8] pressappoco
[9] Letargia: è uno stato patologico di sonno profondo, derivato da malattie o indotto tramite ipnosi; in senso figurato è una condizione di torpore morale e spirituale.
[10] in qual guisa: in che modo.
[11] Colla: con la .
[12] Sogno: Attività mentale che si svolge durante il sonno, caratterizzata da impressioni visive, sensazioni e pensieri non coordinati tra loro logicamente, ma che esprimono desideri, ricordi, emozioni inconsce.
[13] Perochè: è una congiunzione subordinate causale di uso letterario, usata per introdurre  una proposizione causale con il verbo all'indicativo o al congiuntivo. Essa equivale a: per questo, perché, poiché.
[14] Allogarsi: sistemarsi, mettersi, collocarsi.
[15] Si diceva
[16] ghiaccioli
[17] muricciolo
[18] Plico:  Busta, perlopiù chiusa o sigillata, contenente documenti, lettere o altro.
[19] che accusavano l’ufficio di una mano di donna: rivelavano che fosse stato eseguito da mano di donna.
[20] plico
[21] Indarno: invano
[22] Mi parve
[23] Rimembranze: Rievocazione, nella propria memoria, di persone, situazioni e sentimenti appartenenti al passato; il ricordo stesso.
[24] Nondimeno: Ciò nonostante, tuttavia, però; conferisce a una frase o a una sequenza di discorso valore avversativo-limitativo rispetto a quanto detto in precedenza.
[25] lo
[26] dicevano
[27] Altane: Logge, terrazzi coperti sul tetto di un edificio
[28] Arrestato: Fermato
[29] Abbacinate: abbagliate
[30] Mangani: Macchina da guerra usata in passato per lanciare proiettili molto grossi
[31] Animava: Spingere, incitare qualcuno. a qualcosa.
[32] arruginiti
[33] Ascose: nascoste
[34] Intelligibili: comprensibili
[35] Dissipare: dissolvere, disperdere.
[36] Altrettanto che: quanto
[37] Spaventevole: spaventosa
[38] Adunque: dunque
[39] Irrefragabile: che non può essere contestato
[40] piccola Mosa: la Mosella è un fiume che attraversa Francia, Lussemburgo e Germania.
[41] Ellere: edere
[42] lo
[43] d’onde: donde, da dove
[44] Alcuna: qualche
[45] Assiso: Seduto
[46] Zingani: zingari
[47] Vita dei campi - Nell'ambito della produzione verista di Giovanni Verga un posto di primo piano, accanto ai roman­zi, è occupato da due raccolte di novelle pubblicate nel 1880 e nel 1883.
La prima, Vita dei campi, si compone di nove novelle.
Tematica unificatrice è quella dell'amore-passione: l'uomo vive prigioniero di un sentimen­to a cui non può opporre alcuna resistenza. Questo lo spinge all'azione, spesso violenta e impulsiva, lo condanna all'emarginazione o alla degradazione fisica o morale. Cavalleria rusticana, La lupa, Jeli il pastore, L'amante di Gramigna, Pentolacela... raccontano tutte una passione esclusiva, totaliz­zante, che porta l'individuo ad allontanarsi dall'equilibrio naturale del suo ambiente, rappresentato dalla casa, dal nucleo familiare chiuso e ben protetto. La famiglia definisce il perdurare nel tempo dei valori arcaici di una società contadina e, proprio per questo, non ammette alcuna lesione della sua stabilità; ogni trasgressione è destinata all'insuccesso, alla sconfitta, perché la natura ricerca prontamente e spontaneamente il suo equilibrio, escludendo ogni elemento di disturbo.
La famiglia, poi, garantisce l'uomo, lo protegge dalla logica esterna della sopraffazione: come l'ostrica che rimane avvinta allo scoglio è tutelata dalla violenza della marea, così l'uomo, nella struttura gerarchica della famiglia, dove ognuno ha un proprio ruolo, si salva dall'egoismo del mondo esterno.
Il chiuso nucleo familiare, infatti, insieme con gli altri, costituisce la collettività, il villaggio; le sue rela­zioni sociali sono esclusivamente basate su rapporti economici. Un individuo non vale per quello che è, ma è inserito in una collettività che lo accetta e lo apprezza per quanto possiede. Al di fuori del villaggio, poi, c'è il mondo, ignoto, inesplorato, la città che conduce alla perdizione.
Caratteristiche stilistiche della raccolta sono il canone dell'impersonalità, cioè l'obiettività di ciò che viene rappresentato, senza intrusioni di commento o di partecipazione emotiva da parte dell'au­tore, la creazione di una struttura linguistica che sintetizzi la lingua italiana e il dialetto sicilia­no e che ricrei un ambiente e dei personaggi come "fatti da sé".
Vita dei campi, è una raccolta di otto novelle ambientate nel mondo contadino. Di queste, cinque (]eli il pastore, Cavalleria rusti­cana, L’amante di Gramigna, La lupa, Pentolacela) sono incentrate sul tema dell’amore-passione e si concludono in modo drammatico e violento; del­le altre, una (Rosso Malpelo) narra la storia di un ragazzo che lavora in una cava, un’altra (Guerra dei santi) ha per protagonista un intero paese, la terza (Fantasticheria) non ha un vero e proprio im­pianto narrativo e fa da prologo ai Malavoglia. In questa raccolta la società contadina non viene rappresentata come un mondo semplice e sereno al di qua della storia e del progresso, ma appare domi­nata dalla crudele legge del più forte in base alla quale la roba e la donna, gli unici beni di questo mondo povero, tendono fatalmente a cadere nel­le mani di chi possiede il potere e la ricchezza. L’unica cellula in cui non valgono i rapporti eco­nomici ma solo i legami di sangue e all’interno del la quale l’individuo si sente difeso e protetto è la famiglia. Ecco perché chi ne è privo è ancor più debole ed emarginato (Jeli, Rosso Malpelo) e d’al­tra parte chi attenta a essa, alla sua unità finisce per essere ucciso (don Alfonso in Jeli il pastore, Turiddu in Cavalleria rusticana, la lupa nella novella omonima). Per rappresentare questa realtà Verga adotta il metodo dell’«impersonalità» del­l’arte: si serve di uno stile rapido e oggettivo, non commenta i fatti né esprime giudizi sui personag­gi e lascia la parola a un narratore interno al mon­do rappresentato che ne condivide il linguaggio e il modo di pensare.
[48] Giovanni Verga - Giovanni Verga nacque a Catania il 2 settembre 1840.
L’attività giovanile di Verga si svolse nella città natale: influenzato dal suo insegnante Don Antonio Abate, autore di opere intrise di romanticismo, Verga esordì con un romanzo intitolato Amore e Patria, scritto fra il 1856 e il 1857 e rimasto inedito.
Nel 1861, uscì a puntate I carbonari della montagna.
Nel 1863, fu pubblicato su «La nuova Europa» il secondo romanzo d’appendice verghiano intitolato Sulle lagune.
Nel 1865, Verga lasciò la Sicilia: Firenze, capitale del regno d’Italia, offriva a Verga l’ambiente mondano ideale in cui far spaziare il proprio talento. L’interesse del giovane provinciale inurbato per i fasti della mondanità trovò ampio sfogo in Una peccatrice del 1866.
Il successo letterario giunse per Verga con Storia di una capinera del 1871, romanzo in cui l’accento è posto sul tema delle passioni travolgenti e fatali. In esso si riscontra una sorta di verismo ante litteram, soprattutto, quando Verga narra la pazzia della giovane protagonista costretta a farsi monaca.
Nel 1872, Verga si trasferì a Milano, dove frequentò i ritrovi eleganti del capoluogo lombardo ed entrò in contatto con gli scapigliati, pur non condividendo fino in fondo l’atteggiamento nichilista del loro movimento. Testimonianza di questa fase è il romanzo Eva del 1873.
Non altrettanto felice si possono considerare i successivi romanzi: Tigre reale del 1873 ed Eros del 1875.
Nel 1878, traumatizzato dalla morte della madre e angosciato dai sensi di colpa per aver abbandonato il focolare domestico, Verga cominciò la composizione de I malavoglia. Se Nedda del 1875 rappresenta per alcuni l’inizio della nuova arte di Verga, per altri non farà che rivelare come «l’elegante reduce dei salotti» abbia «cambiato materia ma non… il suo spirito e le sue abitudini mentali». Tesi, questa, che trova conferma nel volume successivo Primavera e altri racconti, dove Verga torna alla società elegante e salottiera di Eros.
Quando nel 1875 compose il bozzetto marinaresco Padron ‘Ntoni e quando, poi, nel 1878 annunciò a Salvatore Paola il ciclo della “marea”, successivamente rinominato “ciclo dei Vinti”, per Verga il Verismo era ancora uno strumento tecnico, che suggeriva un linguaggio nuovo. Solo con l’introduzione a L’amante di Gramigna Verga fu in grado di accettare la dottrina dell’impersonalità; con Fantasticheria, poi, il provvisorio distacco dalla tematica mondana potrà dirsi consumato.
Primo frutto della conversione letteraria di Verga è Vita dei campi del 1880.
Il senso di una tragedia ineluttabile appare anche ne I Malavoglia del 1881. Ne I Malavoglia, tuttavia, Verga continuò a fare retorica sul focolare e sulla necessità di non infrangere la legge della solidarietà che lega i poveri fra loro. L’ideale dell’ostrica, teorizzato in Fantasticheria, è una formulazione ideologica: in Verga visse una coerente ideologia conservatrice, che può spiegare il pessimismo fatalistico ed il terrore della storia, rivissuto nell’Aci Trezza de I Malavoglia, paese reso microcosmo astorico, di vita vissuta secondo le necessità della natura, più che della storia.
Mastro Don Gesualdo è del 1889. Tra quest’ultimo e I Malavoglia si collocano Il marito di Elena del 1882 le novelle milanesi Per le vie del 1883 e, infine, le Novelle rusticane sempre del 1883.
Dopo Mastro Don Gesualdo comincia il tramonto dello scrittore che ricerca una nuova espressione nel teatro.
Di questo periodo è Dal tuo al mio del 1905, che racchiude in sé una prefazione piena di strali polemici verso i socialisti.
L’involuzione delle idee politico sociali di Verga è netta e rapida: in una lettera a Camerini del 1888 egli si definiva politicamente «moderato», ma era intimamente avverso al metodo della democrazia parlamentare. Più tardi diventerà sostenitore della politica crispina e africanista e, quando si verificheranno i luttuosi fatti di Milano del 1898, plaudì alle repressioni di Bava-Beccaris.
Nel 1912, Verga aderì esplicitamente al partito nazionalista, fu interventista, dannunziano e antinittiano, e mostrò simpatie per il nascente partito fascista. Queste prese di posizione furono dettate anche da motivi economici: Verga, proprietario terriero, era molto preoccupato dalla legge agrumaria che danneggiava i produttori, era in ansia per la mancata vendita dei suoi limoni di Novalucello.
Dopo la raccolta Vagabondaggio del 1887, iniziò il crepuscolo di Verga con I ricordi del capitano d’Arce del 1891. Fallì il tentativo di dar vita, con la Duchessa di Leyra, ad un quadro della vita aristocratica siciliana: del romanzo, che doveva essere parte del progettato e mai concluso “ciclo dei Vinti”, vide la luce solo il primo capitolo, pubblicato nel 1922, dopo la morte dell’autore.
Verga visse i suoi ultimi anni a Catania, dove morì nel 1922 abbandonato ad una vita inattiva e tranquilla, ad una solitudine sdegnosa e scontrosa, noncurante della tardiva fama consacrata dalla nomina a senatore nell’ottobre del 1920.
[49] riescire: riuscire.
[50] cava della rena rossa: cava di sabbia rossa da costruzione. La cava è un luogo allo scoperto, o scavato nel sottosuolo, da cui si estraggono minerali o materiali da costruzione.
[51] corbello: cestello di vimini che conteneva la colazione.
[52] bigio: nero perché fatto con farina scura più scadente.
[53] motteggiandolo: schernendolo, deridendolo.
[54] soprastante: sorvegliante.
[55] s’era fatta sposa: si era fidanzata.
[56] bettonica: pianta erbacea molto nota fino ai secolo scorso per le sue numerose applicazioni in medicina.
[57] Monserrato ... Curvano: sono sobborghi di Catania oggi inglobati nella città.
[58] mastro Mìsciu: mastro è il nome che viene solitamente dato in Sicilia ai muratori e agli artigiani. Misciu è diminutivo di Domenico.
[59] a cottimo: con un compenso pattuito in anticipo, indipendentemente dal numero di ore di lavoro che saranno effettivamente prestate.
[60] ìngrottato: la volta di una galleria scavata come una grotta.
[61] carra: plurale femminile antico per carri, usati come unità di misura.
[62] sterrava: scavava.
[63] minchione: ingenuo, sciocco.
[64] asino da basto: asino da soma.
[65] soperchierie: soprusi.
[66] tuttoché: benché.
[67] Zio Mommu: zio è l’appellativo riservato in Sicilia alle persone anziane. Mommu è diminutivo di Girolamo.
[68] onze: antica moneta del valore di 12 lire.
[69] andare a fare l’avvocato: fare un mestiere da vecchi che non comporta né fatica né pericoli.
[70] fare la morte del sorcio: morire in trappola come un topo.
[71] Nunziata: è la sorella di Malpelo.
[72] appalto: la ricompensa pattuita per il lavoro preso a cottimo.
[73] il cottimante: colui che stabilisce con il padrone un contratto a cottimo. Qui è detto con ironia nei confronti di mastro Misciu.
[74] fa pancia: si gonfia fino a franare.
[75] comare Santa: la madre di Malpelo.
[76] la terzana: febbre malarica che torna ogni tre giorni.
[77] invetrati: vitrei, fissi.
[78] tristo: cupo.
[79] quasi... Dio: secondo il detto popolare, il pane non va sciupato perché è grazia di Dio.
[80] si acconciava ad esserlo: faceva in modo di esserlo.
[81] busse: bastonate.
[82] tarì: antica moneta siciliana.
[83] s’era lussato il femore: si era provocato una lussazione al femore. La lussazione è lo sposta­mento dei capi ossei che compongono un’articolazione.
[84] rifinito: sfinito.
[85] stremo di forze: privo di forze.
[86] avvezzo: abituato.
[87] piangevano: cadevano.
[88] in quell’arnese: in quell’abbigliamento.
[89] damo: fidanzato.
[90] saccone: pagliericcio che serviva da materasso.
[91] ruzzare: giocare.
[92] malarnese: tipo poco raccomandabile.
[93] lercio: sporco.
[94] ammiccavano: si stringevano. A Rosso, abituato al buio della cava, la luce del sole dava fastidio.
[95] Plaja: località costiera nelle vicinanze di Catania.
[96] sciara: è lo strato di roccia nera e dura formata dalla lava quando si raffredda.
[97] che stesse ... al vento: che stesse per morire.
[98] curiosamente: con stupore.
[99] che: solo che.
[100] lezzo del carcame: puzzo del cadavere.
[101] ustolando: uggiolando, mugolando per la fame.
[102] greppi: dirupi.
[103] guidalesche: piaghe formate dai finimenti di cuoio del basto sulla pelle degli animali da tiro.
[104] luminaria: indica l’illuminazione allestita nei paesi per le processioni e le feste.
[105] ramingava: svolazzava.
[106] corbe: ceste nelle quali veniva trasportato il materiale.
[107] non ne avrebbe ... mestiere: non sarebbe vissuto a lungo con quel lavoro.
[108] sbocco di sangue: il sintomo tipico della tubercolosi.
[109] ribrezzo: tremito.
[110] mentre che: nonostante che.
[111] Cifali: forma siciliana per Cibali, località nei pressi di Catania.
[112] avevano ... casa: lo avevano abbandonato a se stesso.
[113] il sangue suo: un suo figliolo.
[114] chi... pelle: nessuno che chiedesse un risarcimento per la sua morte.
[115] Novelle rusticane - Le Novelle rusticane furono pubblicate nel 1883 e segnano un inasprimento del Verismo verghiano, che diventa più tagliente. Nella società che l’autore delinea ogni valore è tramontato, i sentimenti e gli affetti non hanno più spazio, tutto si riduce, nell’ambito della lotta per la sopravvivenza, a pura economicità.
[116] Sciorinarono: sventola­rono.
[117] Casino dei galantuo­mini: il luogo di ritrovo e svago dei proprietari terrieri.
[118] berette bianche: i ber­retti bianchi che distingue­vano i contadini dai padro­ni, che portavano invece il cappello.
[119] irruppe: all'improvviso occupò a forza.
[120] nerbare: frustare.
[121] campieri: guardiani che sorvegliavano il lavoro dei contadini.
[122] epulone: ghiottone.
[123] tari: moneta d'oro di origine araba.
[124] cappelli: sinonimo di galantuomini, vedi nota 3.
[125] ché: perché.
[126] gna’: signora (deriva dallo spagnolo dona).
[127] Ruota: si usava la ruota girevole dei conventi (col­locata in un'apertura del muro, serviva a far passare oggetti o cibo), per deporvi neonati abbandonati.
[128] speziale: farmacista.
[129] martello: battente della porta.
[130] un rovere: una quercia.
[131] in falsetto: con le voci alterate, più acute del normale.
[132] alcove: al singolare alcova. Era il luogo in cui si trovava il letto, separato da resto della camera per mezzo di tende.
[133] Schioppettate: fucilate
[134] quel carnevale furibondo: il termine indica che la rivolta aveva messo il paese sottosopra, come durante il carnevale, in cui sono ammesse tutte le violazioni delle norme morali e sociali. Ma, mentre la festa è tradizionalmente allegra, qui si tratta di una tragedia.
[135] briachi: ubriachi, nel senso dì storditi dall'eccitazione, da quel delirio collettivo.
[136] suonare a stormo li campana di Dio: suonare a martello (con colpi rapidi e regolari) la campana della chiesa; in genere lo si fa in occasione di una festa e per dare un allarme.
[137] turchi: infedeli, miscre­denti.
[138] Aggiornava: stava fa­cendo giorno.
[139] far capannello: riunirsi in gruppetti.
[140] Nino Bestia... Ramurazzo: i due più violenti capi popolo
[141] avrebbe fatto a riffa e a raffa: avrebbe preso a suo piacimento.
[142] Il generale: Nino Bixio, mandato da Garibaldi a do­mare la ribellione.
[143] Scranna: sedia con schie­nale e braccioli molto alti.
[144] Biade: le piante dei ce­reali.
[145] Trafelate: in preda all'af­fanno.
[146] stallazzo: alloggio per animali annesso ad alberghi, osterie, locande.
[147] ubbìe: paure.
[148] all'aria ci vanno i cenci: chi ci rimette è sempre la povera gente.
[149] stipati nella capponaia: ammassati nella gabbia, come tanti capponi.
[150] doveva vedersi... con lui: doveva stare faccia (mo­staccio) a faccia con l'uomo che gli aveva portato via la moglie.
[151] ciangottavano: chiac­chieravano a bassa voce.
[152] palmo: antica misura che corrisponde a circa 25 cm.
[153] biviere di Lentini: lago oggi prosciugato fra Cata­nia e Siracusa.
[154] stoppie: ciò che resta sui campi dopo la mietitura.
[155] riarse: essiccate dal sole.
[156] Francofonte... Passanitello: località in provincia di Siracusa.
[157] lettiga: struttura coper­ta a forma di letto con lun­ghe stanghe, trasportata a braccia da un lettighiere o con un traino di cavalli.
[158] la mano sugli occhi: per ripararsi dal sole.
[159] schioppo: antica arma da fuoco.
[160] maggese: terreno lavorato e poi lasciato a riposo. È cosi chiamato da maggio, mese nel quale di solito vengono fatti questi lavori in campagna.
[161] Canziria: campagna nei pressi di Vizzini, in provincia di Catania.
[162] assiolo: piccolo uccello notturno rapace.
[163] baiocco: moneta d’argento in corso nel XVI secolo, sostituita nel 1866 dal soldo.
[164] dove prima veniva ... a mietere: le terre nelle quali egli prima aveva lavorato dalla mattina alla sera come contadino adesso gli appartenevano, erano la sua roba.
[165] ma egli... nera: solita­mente i contadini portava­no berretti bianchi, mentre i padroni si distinguevano portando il cappello.
[166] bocche: si tratta de contadini alle sue dipendenze, che dal punto di vi­sta del padrone sono più che altro delle bocche da sfamare, trascurando il fat­to che lavorando produco­no ricchezza.
[167] corbello: cesto rotondo di vimini nel quale si portava la colazione.
[168] mèsse: mietitura.
[169] tari: antica siciliana di ori­gine araba.
[170] soprastante: addetto al­la sorveglianza dei contadi­ni durante il lavoro.
[171] nerbate: frustate inflitte con il nerbo, uno scudiscio formato da tendini secchi di bue intrecciati.
[172] biscotto: è il pane cotto due volte.
[173] madie: grandi piatti (il termine indica in genere dei mobili da cucina, le casse nelle quali si impastava la farina per preparare il pane e la pasta. nei quali si metteva a lievitare la pasta).
[174] fondiaria: tassa sui fon­di, cioè sui terreni.
[175] capire: stare, entrare.
[176] carta sudicia: la cartamoneta.
[177] pagare il re: pagare le tasse.
[178] armenti: branchi di grossi animali domestici.
[179] il santo, colla banda: la processione.
[180] ch'ei: che egli.
[181] campieri: sinonimo di soprastanti (vedi la nota 15).
[182] minchione: stupido, credulone.
[183] covoni: fasci di spighe.
[184] chiusa: terreno recintato.
[185] lupini: frutti della pian­ta omonima, contenenti se­mi commestibili.
[186] Ché: perché.
[187] Le novelle della Pescara - Gabriele D’Annunzio pubblicò Le novelle della Pescara nel 1902, utilizzando anche alcuni testi già apparsi nelle raccolte Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886).
L’opera nasce quindi da un’attenta selezione, che le conferisce, nella varietà dei temi affrontati, un carattere unitario. Il primo elemento caratterizzante è, come suggerisce il titolo, il rapporto con il territorio.
Il paese di Pescara è al centro di questa narrazione, insieme alla campagna circostante che spesso accoglie folle di persone in preda ad impulsi non controllabili. Si pensi ai contadini in rivolta nel racconto dell’Eroe, dove il nobile protagonista si getta nel fuoco mentre i poveri assediano il palazzo, all’esaltazione collettiva dei fedeli che gridano al miracolo o alla guerra tra due paesi, dai nomi immaginari di Radusa e Mascalico, ognuno dei quali cerca di imporre il proprio patrono all’altro.
D’Annunzio mostra da un lato una perfetta padronanza del mezzo espressivo, che riesce a restituire ogni minima emozione dei personaggi, dall’altro una viva curiosità per le emozioni più estreme. Si va dal fanatismo della folla alla sorte disperata di molte madri, che finiscono per morire di parto o nel tentativo disperato di vedere un’ultima volta il figlio ormai lontano. La rappresentazione di scene di vita quotidiana si risolve a volte in beffe di sapore boccaccesco, ma il legame più significativo risulta quello che avvicina D’Annunzio al Verismo.
Anche lo scrittore abruzzese ama soffermarsi sulle emozioni del popolo e sulle sue rivolte, non però per descrivere le rivendicazioni sociali, ma per studiarne gli stati d’animo, le energie quasi primordiali che vengono sprigionate nel momento della protesta. Per questo agli occhi di D’Annunzio la rivolta dei contadini non è molto diversa dalla guerra in nome del patrono: ciò che davvero lo affascina è il grande spettacolo delle emozioni collettive, che portano singoli individui ad un livello quasi subumano di ferocia ed aggressività. La conferma di questo interesse per le emozioni intense, quasi morbose, viene dalla novella che chiude la raccolta, Il cerusico di mare. In essa D’Annunzio descrive minuziosamente l’infezione di un marinaio e la maldestra operazione effettuata da un compagno di bordo, per poi soffermarsi sul propagarsi dell’infezione, fino alla morte dello sfortunato protagonista: anche se manca la folla, emerge comunque l’interesse per le situazioni estreme, descritte nei minimi particolari.
In questo senso la raccolta si ricollega ad altre opere di D’Annunzio: il romanzo Giovanni Episcopo (1892), e La figlia di Iorio (1904).
Il mondo rurale e primitivo di queste novelle sembra d’altronde richiamarsi alle opere coeve di Grazia Deledda, anch’essa oscillante, come il primo D’Annunzio, tra influenze veriste e suggestioni dostoevskijane.
[188] Gabriele D’Annunzio – Gabriele D’Annunzio nacque a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese: compì gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato, distinguendosi per la sua condotta indisciplinata e per il suo accanimento nello studio.
Già negli anni di collegio, con la sua prima raccolta poetica Primo vere, pubblicata a spese del padre, D’Annunzio ottenne un precoce successo, in seguito al quale iniziò a collaborare ai giornali letterari dell'epoca.
Nel 1881, iscrittosi alla facoltà di Lettere, D'Annunzio si trasferì a Roma, dove condusse una vita, ricca di amori e avventure. In breve, collaborando a diversi periodici, il giovane D'Annunzio divenne figura di primo piano della vita culturale e mondana romana.
Nel 1882, furono pubblicati con successo Canto novo e Terra vergine.
Nel 1883, ebbero grande risonanza la fuga ed il matrimonio di D’Annunzio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nacquero tre figli, ma che, a causa dei suoi continui tradimenti, durò solo fino al 1890.
Nel 1883, D’Annunzio compose i versi l'Intermezzo di rime del 1883, la cui «inverecondia» scatenò un'accesa polemica.
Nel 1886, uscì la raccolta Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, poi divisa in due parti L'Isottèo e La Chimera nel 1890.
Nel 1889, ricco di risvolti autobiografici, D’Annunzio pubblicò il romanzo Il piacere.
Nel 1891, D'Annunzio, assediato dai creditori, si allontanò da Roma e si trasferì insieme all'amico pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove, collaborando ai giornali locali, trascorse due anni di «splendida miseria»: a Napoli la principessa Maria Gravina Cruyllas abbandonò il marito ed andò a vivere con il poeta, dal quale ebbe una figlia.
Nel 1891, D’Annunzio pubblicò il romanzo Giovanni Episcopo.
Nel 1892, pubblicò Le elegie romane L'innocente.
Nel 1893, Il poema paradisiaco.
Alla fine del 1893, D'Annunzio fu costretto a lasciare per le difficoltà economiche anche Napoli: ritornò, con la Gravina e la figlioletta, in Abruzzo, ospite di Michetti.
Nel 1894, D'Annunzio pubblicò il suo nuovo romanzo Il trionfo della morte.
Nel 1895, uscì Le vergini delle rocce, il romanzo in cui si affaccia la teoria del superuomo che dominò tutta la sua produzione successiva. In questo stesso anno D’annunzio iniziò una relazione con l'attrice Eleonora Duse, descritta successivamente nel romanzo Il Fuoco del 1900 ed avviò una fitta produzione teatrale.
Nel 1897, D’Annunzio scrisse Sogno d'un mattino di primavera; sempre nello stesso anno D’Annunzio fu eletto deputato, ma nel 1900, opponendosi al ministero Pelloux, abbandonò la destra e si unì all'estrema sinistra (in seguito non fu più rieletto).
Nel 1898, D’Annunzio scrisse Sogno d'un tramonto d'autunno e La città morta; sempre nello stesso anno, D'Annunzio mise fine al suo legame con la Gravina, da cui aveva avuto un altro figlio e si stabilì a Settignano, nei pressi di Firenze, nella villa detta La Capponcina, dove visse lussuosamente prima assieme alla Duse, poi con il suo nuovo amore Alessandra di Rudinì.
Nel 1899, D’Annunzio scrisse La Gioconda. 
Nel 1901, D’Annunzio scrisse la Francesca da Rimini. 
Nel 1902, uscirono Le novelle del Pescara.
Nel 1903, scrisse La figlia di Jorio e i primi tre libri delle Laudi: Maia, Elettra,  Alcyone del 1903.
Il 1906 è l'anno dell'amore per la contessa Giuseppina Mancini.
Nel 1910, D’Annunzio pubblicò il romanzo Forse che sì, forse che no, e per sfuggire ai creditori, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff, si rifugiò in Francia. Il poeta visse allora tra Parigi ed una villa ad Arcachon, partecipando alla vita mondana della belle époque internazionale: compone opere in francese; al «Corriere della Sera» fece pervenire le prose Le faville del maglio; scrisse la tragedia lirica La Parisina, musicata da Mascagni, e anche sceneggiature cinematografiche, come quella per il film Cabiria del 1914.
Nel 1912, a celebrazione della guerra in Libia, uscì il quarto libro delle Laudi, Merope. Il quinto, Asterope, fu completato nel 1918 e i restanti due, sebbene annunciati, non usciranno mai.
Nel 1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale, D’Annunzio tornò in Italia: egli riacquistò un ruolo di primo piano, tenendo accesi discorsi interventistici e partecipò a varie ed ardite imprese belliche. Durante un incidente aereo fu ferito ad un occhio. A Venezia, costretto a una lunga convalescenza, scrisse il Notturno, edito nel 1921.
Nonostante la perdita dell'occhio destro, D’Annunzio divenne partecipò a celebri imprese, quali la beffa di Buccari ed il volo nel cielo di Vienna.
Nel 1919, alla fine della guerra, D’Annunzio condusse una violenta battaglia per l'annessione all'Italia dell'Istria e della Dalmazia: alla testa di un gruppo di legionari marcia su Fiume ed occupò la città, instaurandovi una singolare repubblica, la Reggenza italiana del Carnaro, che il governo Giolitti fece cadere nel 1920.
Negli anni dell'avvento del Fascismo, nutrendo una certa diffidenza verso Mussolini ed il suo partito, si ritirò, celebrato come eroe nazionale, presso Gardone, sul lago di Garda, nella villa di Cargnacco, trasformato poi nel museo-mausoleo del Vittoriale degli Italiani. Qui, pressoché in solitudine, nonostante gli onori tributatigli dal regime, raccogliendo le reliquie della sua gloriosa vita, il vecchio esteta trascorre una malinconica vecchiaia sino alla morte avvenuta il primo marzo 1938.
[189] convito: banchetto,
[190] frequente di convitati: con molti ospiti.
[191] numerava: contava
[192] mense: servizi da tavola. nei canterani e nei for­zieri: nei cassettoni dove si riponeva la biancheria e nei mobili muniti di serratura.
[193] nei canterani e nei for­zieri: nei cassettoni dove si riponeva la biancheria e nei mobili muniti di serratura.
[194] alla bisogna: per le ne­cessità di quel lavoro.
[195] canestre: panieri di vi­mini dotati di manici.
[196] spasa: cestello piatto e largo.
[197] lavorati... liturgiche: costruiti a mano da argen­tieri di paese, che avevano dato loro forme particolari, simili a quelle di oggetti per cerimonie religiose.
[198] i mantili... le salviette: i copritavola e i tovaglioli.
[199] tiratoi: cassetti.
[200] interstizi: spazi fra i ca­pi di biancheria profumati in genere con la lavanda.
[201] segaligna: magra.
[202] di testuggine: simile a quello della tartaruga.
[203] ortonese: originaria di Ortona, in Abruzzo.
[204] pingue: robusta.
[205] la parlatura molle: il modo di parlare dolce.
[206] usa: abituata.
[207] anche nativa di Ortona: come Maria Bisaccia.
[208] nel monastero benedettino: le famiglie nobili o della ricca borghesia mandavano le figlie in convento per ricevere un'istruzione.
[209] cattivi: brutti.
[210] pudichi: pieni di riser­vatezza
[211] somigliando... mulie­bri: simile a un chierico, cioè a un sacerdote, ma in abiti femminili (dal latino mulier, «donna»).
[212] come: mentre.
[213] 'na cucchiara: un cuc­chiaio, in dialetto abruzzese.
[214] riscontrare: contare di nuovo.
[215] sicura da: al di sopra di.
[216] dell'appannaggio ma­trimoniale: della dote.
[217] al suo campanile: al paese da cui era arrivata.
[218] San Tommaso: il pa­trono di Ottona.
[219] loggia: corridoio aperto con archi o finestre, oppure balcone, terrazzo.
[220] cumular congetture: mettere insieme una gran quantità di ipotesi.
[221] Come: poiché (con­fronta con la nota 24).
[222] il rumore: la diceria.
[223] lucherini: uccellini dal canto armonioso.
[224] di ciarlare al bel tem­po: di conversare stando affacciate alle finestre, dato che il tempo era invitante.
[225] il ciaramellìo: le ciance, le chiacchiere.
[226] in su le gronde: sugli orli sporgenti del tetto da cui far scorrere la pioggia.
[227] furtivi: circospetti, cauti, per non farsi notare.
[228] predatore: che vive, co­me la faina, dando la caccia agli altri animali.
[229] stridula: dal suono acu­to, stridente.
[230] detta... garrulità: era stata soprannominata la Pi­ca (cioè la gazza) perché, proprio come questo ani­male, parlava troppo.
[231] Ma... dita: ha il vizio di rubare.
[232] Io manco: nemmeno io.
[233] Silvestra: probabilmente un'altra lavandaia che, come quelle nominate poco dopo, aveva fama di essere una gran ladra.
[234] placido: mite, tranquillo.
[235] in mala vista: in cattiva luce.
[236] si propalò: si diffuse, si divulgò.
[237] vegnente: successiva, seguente.
[238] lisciva: cenere di legna sciolta in acqua bollente, usata per lavare oppure sbiancare tessuti
[239] il Caporaletto: qui il termine si riferisce forse al carattere di Biagio, prepo­tente e sgarbato perché esercita un potere poco soggetto a un controllo da parte dei superiori.
[240] bisogna: occupazione.
[241] inalberandosi: inquietandosi, non senza una certa irritazione.
[242] caparbie: testarde recal­citranti.
[243] non cessava dalle: non smetteva di fare.
[244] su l'elsa: sull'impugna­tura.
[245] daga: spada corta e larga.
[246] vico: vicolo.
[247] motti ambigui: parole poco chiare, che alludevano alla scomparsa del cuc­chiaio d'argento.
[248] Posa l'osso: restituisci ciò che hai rubato.
[249] in conspetto: alla pre­senza.
[250] ai due... sindacale: l'esptessione è ironica nei con­fronti delle guardie che svol­gono un compito (quello di rappresentare la legge in no­me del sindaco) creduto esageratamente importante an­che quando si tratta di con­vocare una povera donna.
[251] corno: materia con cui sono fatte le corna dei ru­minanti.
[252] rimase in piedi: è l'at­teggiamento di chi, povero e assolutamente insignifi­cante nella scala sociale, non si fida dei potenti, nep­pure quando essi si mostra­no amichevoli.
[253] : abbreviazione del nome del sindaco (Siila).
[254] capo per capo: pezzo per pezzo.
[255] per ghermire: per af­ferrare la preda.
[256] che le addebitavano: che le attribuivano, di cui veniva incolpata.
[257] locusta: cavalletta.
[258] curule: da alto funzio­nario.
[259] prudentemente: per­ché don Silla teme una rea­zione violenta della donna.
[260] garrì: gridò con voce aspra come un grido di rondine.
[261] stipite: struttura che de­limita ai lati il vano di una porta o di una finestra.
[262] assembrata: riunita, ammassata.
[263] le sue discolpe: le giu­stificazioni che avrebbero potuto liberarla dall'accusa.
[264] Piangi... la gente: è un invito a Candia affinchè pianga in pubblico, non in privato, per dimostrare a tutti la propria innocenza.
[265] il ranno: la lisciva (vedi la nota 50).
[266] artifizioso: artificioso, ingegnoso
[267] arzigogolando sottilis­simamente: facendo ragio­namenti molto complicati.
[268] si giovava... plebea: si serviva di tutte le risorse dell'arte di ragionare e di­scutere (dialettica) di cui una poveretta come lei poteva disporre (plebea).
[269] accalorandosi: infiam­mandosi, appassionandosi.
[270] empirica: fondata sull'e­sperienza e non su principi scientìfici di natura teorica.
[271] ' pratiche: rapporti di fa­miliarità con i ladruncoli.
[272] 'na regalia forte: un regalo consistente, di grande entità.
[273] rompeva... significati­vo: scoppiava in rumorose risate di scherno a indicare che non credeva proprio all'innocenza di Candia, la quale avrebbe potuto rivelare alla Cinigia il nascondi­glio del cucchiaio.
[274] ardenti: ad alta grada­zione alcolica.
[275] atto di cupidigia: gesto che esprimeva il suo desi­derio avido di bere.
[276] Una torma: una folla.
[277] burlevole
[278] erasi ragunata: si era radunata.
[279] bleso: dalla pronuncia difettosa di alcune conso­nanti (soprattutto la r e la s).
[280] erano comari: si erano messe d'accordo, come due vecchie amiche, per prepa­rate il piano.
[281] ilarità: allegria sfrena­ta, chiassosa.
[282] la strega: l'indovina.
[283] le gesticolazioni: i ge­sti pieni di eccitazione.
[284] bocconi: steso sul ven­tre a faccia in giù.
[285] le coceva: le cuoceva, le bruciava.
[286] sotterfugio: imbroglio.
[287] addurre: presentare.
[288] bisogne: necessità.
[289] agevoli: facili da met­tere in pratica.
[290] agevolezza: possibilità di attuare il proposito sen­za alcuna difficoltà.
[291] la credenza popolare: la convinzione della gente che ella fosse colpevole.
[292] artifizi... cavilli: astu­zie... sottigliezze.
[293] capziosi: ingannevoli.
[294] annichilila: distrutta, annientata.
[295] pertinacia mirabile: ostinazione straordinaria.
[296] edifizi: argomentazio­ni, ragionamenti.
[297] rime improvvise: versi improvvisati.
[298] cenciosa: vestita di stracci (cenci).
[299] zi': zia (appellativo af­fettuoso che si da alle persone anziane).
[300] arzigogolare: perdersi in discorsi complicati e inconcludenti.
[301] lebbra: nel senso di in­fiammazione della pelle.
[302] un cordiale e un cas­setto di brace: una bevanda rinvigorente e uno scaldino (un recipiente di rame o di terracotta riempito di brace per dare un po' di calore).
[303] farneticava: diceva pa­role prive d senso.
[304] per secondare la pe­rorazione: per sostenere con forza il suo appassionato discorso.
[305]    torbida: cupa, senza limpidezza.
[306] Italo Svevo – Italo Svevo  pseudonimo di Ettore Schmitz,   nacque nel 1861 a Trieste da madre ebrea e da padre tedesco, agiato commerciante nel settore vetrario: studiò in un collegio in Baviera e si appassionò alla letteratura tedesca.
Nel 1878, Svevo tornò in Italia diciassettenne per completare gli studi, e si iscrisse all'Istituto superiore di commercio di Trieste, Revoltella.
Nel 1880, in seguito al fallimento dell'industria paterna, Svevo abbandonò gli studi ed entrò come impiegato alla viennese Banca Union, dove restò vent'anni, ma nelle ore libere dal lavoro si dedicò allo studio del violino e, soprattutto la notte, a scrivere.
Nel 1892, Svevo pubblicò a sue spese il romanzo Una vita con lo pseudonimo Italo Svevo, pseudonimo che accosta le due culture e le due lingue dell'autore il tedesco e l'italiano: il libro guadagnò qualche segnalazione, ma passò sostanzialmente inosservato.
Nel 1896, Svevo sposò una cugina, Livia Veneziani, figlia di un ricco industriale e l'anno dopo nacque la figlia Letizia.
Nel 1898, uscì il secondo romanzo, Senilità, sempre a spese dell'autore ed inosservato come il precedente, scrisse novelle e testi teatrali che forse nessuno avrebbe letto, incurante del mancato successo.
Nel 1899, Svevo entrò come socio nella ditta commerciale del suocero di cui assunse poi la direzione e visitò per lavoro e risiedette a lungo in l'Inghilterra, Francia e Germania.
Nel 1906, Svevo si iscrisse alla Berlitz School per migliorare il suo inglese, che gli era necessario nei rapporti di lavoro e conobbe un insegnante irlandese eccezionale:  James Joyce.
Presto le lezioni diventeranno private: non si faceva cenno alla grammatica, ma si parlava soprattutto di letteratura e, su insistenza di Joyce, Svevo gli diede i suoi romanzi, che furono giudicati positivamente.
Fra il 1908 e il 1910, Svevo lesse Freud e si interessò di psicoanalisi, ma non era solo un interesse teorico c'era quello pratico: per valutare l'opportunità di far curare un suo parente tenne una corrispondenza con un medico collaboratore di Freud: Svevo non aveva molta fiducia nell'applicazione terapeutica della psicoanalisi e scrisse che Freud era più importante per i romanzieri che per gli ammalati.
Nel 1919, Svevo iniziò a scrivere La coscienza di Zeno che fu pubblicato, sempre a spese dell'autore, nel 1923.
L'anno dopo Joyce, che nel frattempo si era trasferito a Parigi e che era entusiasta del libro, ne parlò ai suoi amici e fu deciso il lancio di Svevo in Francia.
Nel 1927, La coscienza di Zeno fu tradotto in Francia e Svevo si battè per l'affermazione dei primi due romanzi, mentre pubblicava Vino generoso del 1927 ed Una burla riuscita nel 1928.
Nel marzo del 1928, al Pen Club di Parigi fu organizzato per lui un omaggio celebrativo, con la presenza di oltre cinquanta intellettuali europei, fra i quali Joyce, ma un banale incidente automobilistico lo fermò nel pieno della fama attesa da trent'anni: Svevo morì nel settembre del 1928 a Motta di Livenza (Treviso).
Molte sue opere furono pubblicate postume: La novella del buon vecchio e della bella fanciulla nel 1930, Corto viaggio sentimentale nel 1949, Saggi e pagine sparse nel 1954, Le Commedie nel 1960 composte di sei testi teatrali.
[307] L'assassino riteneva che sarebbe stato al sicuro in Svizzera. Si capisce che aveva una nozione imperfetta dei trattati d'estradizione. (N.d.A.)
[308] Luigi Pirandello - Luigi Pirandello – La vita e la produzione artistica di Pirandello possono essere distinte in quattro fasi:
1. l’intellettuale: scrive racconti e il romanzo L’esclusa, lasciando le opere teatrali nel cassetto;
2. la declassazione (1903-1910): continua tuttavia a scrivere racconti;
3. il teatro (1910-1930): si ha la prevalenza di commedie;
4. la fase finale (1930-1936): Pirandello raccoglie le sue opere e scrive I giganti della montagna.
Pirandello nacque nel 1867 a Girgenti (Agrigento) da una famiglia agiata e borghese: suo padre era, infatti, proprietario di miniere di zolfo. Il pensiero politico dell’ambiente in cui nasce è prevalentemente garibaldino-risorgimentale. Frequentò il liceo classico a Palermo poi si iscrisse alla facoltà di lettere a Roma.
Dopo un litigio con un professore, Pirandello si trasferì a Bonn, dove si laureò in filologia romanza con una tesi sui dialetti siciliani, e presso la cui università in­segnò per un anno: il soggiorno tedesco fu per lui importante perché in Germania Pirandello entrò in contatto con i letterati romantici, i quali lo influenzarono per quanto riguarda l’umorismo.
Nel 1892, Pirandello cominciò a dedicarsi alla letteratura, scrivendo a Roma il romanzo L’esclusa , completato nel 1893 e pubblicato nel 1908: egli riusciva così a vivere di letteratura grazie agli assegni che il padre gli corrispondeva.
Nel 1894, Pirandello sposò Antonietta Portulano con la quale andò a vivere a Roma, trovando occupazione come professore di lingua italiana all’Università.
Nel 1895, Pirandello scrisse la prima commedia, Il nibbio.
Nel 1902, Pirandello pubblicò Il turno.
Nel 1903, il padre ebbe un crack finanziario: la sua miniera di zolfo si allagò, provocando la crisi psicologica della moglie di Pirandello, che divenne ben presto pazza, e la declassazione dal passaggio da una vita di agio ed una di piccolo borghese. La gelosia della moglie e la condizione matrimoniale cominciano a essere sentiti da Pirandello come una trappola; egli doveva inoltre lavorare il doppio per vivere continuava quindi a fare l’insegnante ed a scrivere libri, lavorando anche per il cinema e scrivendo soggetti per alcuni film: Pirandello cominciò così a sentirsi un intellettuale sfruttato dalla società.
Nel 1904, Pirandello pubblicò sulla rivista Nuova antologia, Il fu Mattia Pascal, un romanzo particolare e diverso dagli altri.
Nel 1908, Pirandello scrisse L'umorismo (in cui confluirono parecchie pagine dei suoi scritti precedenti) per presentarlo come titolo al concorso a ordinario presso l'Istituto superiore di Magistero femminile.
Nel 1909, Pirandello pubblicò I vecchi e i giovani.
Nel 1910, Pirandello si occupò di teatro e fece rappresentare le commedie Lumìe di Sicilia e La morsa: egli diventò così scrittore di teatro, sebbene abbandonasse del tutto i racconti e la letteratura.
Sempre per il teatro scrisse Il piacere dell’onestà, Pensaci Giacomino, Se non così, Lì o là, Il gioco delle parti.
Nel 1911, Pirandello pubblica il romanzo Suo marito.
Nel 1915 c’è la guerra: Pirandello si schierò su posizioni interventiste perché vedeva nella guerra la fine del Risorgimento. Nello stesso anno egli pubblicò Si gira, il cui titolo fu cambiato nel 1925 in I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Nel frattempo suo figlio Stefano fu catturato e Pirandello non riuscì a riscattarlo: le condizioni della moglie quindi peggiorano e fu ricoverata.
Dal 1916 comincia ad occuparsi veramente e solamente di teatro scrivendo commedie e anche testi in dialetto siciliano come: Il berretto a sonagli, commedia in due atti il cui titolo si riferisce al berretto portato dal buffone, il copricapo della vergogna ostentato davanti a tutti - la commedia riprende le tematiche delle due novelle La verità e Certi obblighi entrambe del 1912; Lì o là, una commedia in tre atti messa fu messa in scena per la prima volta il 4 novembre 1916 ed ispirata ad un episodio del capitolo IV del romanzo Il fu Mattia Pascal; La giara atto unico ripreso dall’omonima novella del 1906.
Nel 1917, Pirandello compose Pensaci, Giacomino!, il cui nucleo originario, è tratto dalla novella omonima. Successivamente compose Il piacere dell’onestà, tratta dalla novella Tirocinio; sempre nello stesso anno Pirandello mandò in scena Così è (se vi pare), tratto dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero.
Nel 1918, Pirandello scrisse Il gioco delle parti.
Nel 1920, Pirandello abbandonò il lavoro di insegnante.
Nel 1921, Pirandello scrisse Sei personaggi in cerca d’autore, che all’inizio non ebbe molto successo, ma nelle ultime rappresentazioni fu applauditissimo; egli scrisse inoltre Enrico IV un dramma in 3 atti rappresentato il 1922 al Teatro Manzoni di Milano.
Nel 1924, Pirandello aderì al Fascismo: questo movimento provocò in Pirandello sostanzialmente due reazioni e comportamenti: lo accolse con favore perché prometteva ordine, legalità e non più scioperi, ma sotto sotto era però un anarchico, perché avrebbe voluto liberarsi e rifiutare i vincoli e le imposizioni della società. Ben presto Pirandello si accorse però che quella del Fascismo era solo una maschera che dissimulava il suo carattere autoritario, ma, per continuare a lavorare liberamente, egli decise comunque di non opporsi ad esso, standosene in disparte. In questo stesso anno scrisse Ciascuno a suo modo: l'opera fa parte della cosiddetta trilogia del teatro nel teatro, preceduta da Sei personaggi in cerca d'autore e seguita da Questa sera si recita a soggetto.
Nel 1925, Pirandello diventò direttore del teatro d’Arte a Roma e si legò all’attrice Marta Abba. In quest’anno egli pubblicò Uno, nessuno e centomila.
Tra la fine del 1928 e l'inizio del 1929, Pirandello scrisse Questa sera si recita a soggetto, subito dopo l'esperienza di capocomico presso il Teatro d'Arte: l’opera è considerata la terza parte della trilogia che il drammaturgo dedica al teatro nel teatro, preceduta da Sei personaggi in cerca d'autore e Ciascuno a suo modo.
Nel 1930, Pirandello si allontanò un po’ dal Fascismo. Raccolse le sue opere nelle Novelle per un anno e le produzioni teatrali in Maschere nude.
Nel 1934, Pirandello ricevette il Nobel per la letteratura. Egli lavorò molto per il cinema.
Nel 1936, morì d’infarto lasciando incompiuto I giganti della montagna, terminato poi dal figlio.
[309] in quel suo viag­gio: Adriana rivive nei suoi pensieri le considerazioni di chi si allontana per la pri­ma volta dalla propria casa, dal proprio pic­colo paese. La donna si concentra soprat­tutto sul fatto che il mondo sia sconfina­to e ignoto, procu­randole sensazioni di ansia e di smarri­mento.
[310] premura affettata: il cognato si pro­diga in attenzioni proporzionate alla gravita del male da cui è afflitta la donna, dimostrandole senti­menti di autentico e sincero affetto
[311] s’intende tutto quanto può es­sere d’aiuto, di con­forto e di sollievo per l’ammalata.
[312] l’etere eti­lico è una miscela di composti chimici usata come aneste­tizzante.
[313] l’autore si sof­ferma volutamente nella descrizione di luci, suoni e colori della città con l’inten­to di sottolineare quanto questi con­trastino con l’animo triste e perso della donna.
[314] il fiore dei limoni dal profumo intenso e penetran­te.
[315] cobalto: cielo di un colore az­zurro intenso.
[316] espressione meta­forica collegata alla forma a cuore delle foglie che galleggia­no nella fontana.
[317] lume d’altri cieli: la giornata serena, la cornice suggestiva della fontana d’Ercole accendono nell’a­nimo della donna una nuova luce (lume) di serenità che si so­stituisce a quel sen­so di vuoto senza li­miti che aveva con­trassegnato fino a quel momento la sua esistenza.
[318] l’imbarco sul piroscafo e il viag­gio in mare, proprio perché costituisco­no un’assoluta no­vità nella vita di Adriana, si accompagna­no a un sentimento vago e confuso di in­quietudine e di turba­mento.
[319] insenatura riparata dal vento e dai marosi, quindi adatta per le attività portuali e la sosta delle imbarcazioni.
[320] chiostra ampia dei monti: disposi­zione a semicerchio dei rilievi alle spalle della città.
[321] stantuffi d’acciaio: organi mecca­nici che si muovono all’interno di cilindri e trasmettono forza motrice al piroscafo.
[322] tanfo grasso: odore assai sgrade­vole dovuto alla com­bustione dei grassi che lubrificano il motore.
[323] lugubre   maschera di fuoco... niveo fulgore: dal ponte della nave Adriana assiste al sorgere della luna che illumina   l’orizzonte di una luce serena. Ancora una vol­ta l’autore pone a confronto due im­magini contrastanti che si adattano perfettamente ai sentimenti ambivalenti della donna: la lugu­bre maschera di fuoco - la luna appena sorta dal caratteristico colore rossastro appare come un oscuro presagio di morte; il niveo fulgore - la luce bianca come la neve della luna, ormai nell’alto del cielo – abbaglia la distesa del mare come un soffio (pàlpito) argenteo tra­smettendo un’im­magine di calma e tranquillità.