Benvenuti in Quaderni di Lettere di Massimo Capuozzo

Sono presenti in questo sito le mie lezioni di grammantologia nel corso degli anni collaudate sul campo. Per le parti riguardanti la Storia mi sono valso della collaborazione del Dott. Antonio Del Gaudio

domenica 23 dicembre 2012

Il Gotico in Italia


Il Gotico rappresenta l'ultima grande fase unitaria dell'arte medievale europea. Le sue origini si collocano nella Francia del Nord, entro la prima metà del XII secolo, quando i costruttori, coordinando in forma organica elementi già presenti nel Romanico, nell'architettura orientale e nelle regioni anglo-normanne, giunsero a soluzioni del tutto originali.
Dal XII al XV secolo il gotico si estese rapidamente con straordinaria vitalità fino a rinnovare totalmente l'aspetto stilistico dell'arte europea in tutte le sue forme, con una profonda unitarietà e costanza di linguaggio che si specificò in aree nazionali o anche regionali e in diverse fasi storiche di sviluppo.
Nella storiografia artistica del Rinascimento italiano compare il termine gotico, applicato all'architettura, per indicare genericamente quanto avvenuto dopo la fine dell'arte antica, con il significato di barbarico; questa connotazione negativa, allargata in seguito a designare un'arte arbitraria e bizzarra, fuori delle regole classiche, durò fino alla fine del XVIII secolo, quando ebbe inizio un apprezzamento dell'arte medievale. L'Ottocento vide un grande sviluppo degli studi storici sul Gotico e l'immenso campo di ricerca fornito dai molteplici aspetti del fenomeno offre ancora spunti alla critica contemporanea.
Un discorso a parte merita il gotico internazionale.
L'aspetto architettonico è il più vasto dell'arte gotica, che non solo affronta su ampia scala i temi dell'edificio sacro e di quello civile, ma imposta un discorso nuovo sulla dimensione urbana, sulla città per una società nuova, di borghesi e mercanti. Il simbolo della civiltà gotica, la cattedrale, esprime insieme lo slancio fideistico della letteratura mistica e la razionalità della filosofia scolastica: è una struttura superbamente organizzata, che sfrutta appieno le possibilità dei singoli elementi che la caratterizzano.
L'impiego dell'arco a sesto acuto permise di sostituire alla pesante volta a crociera romanica la volta a ogiva, agile e scattante, in cui il peso è scaricato dai costoloni[1], con funzione portante, sui pilastri, eliminando in tal modo il valore della massa muraria a favore dell'apertura di grandi finestre, vere pareti di vetro colorato. Le spinte laterali dei costoloni sono equilibrate all'esterno dall'impiego dell'arco rampante in funzione di contrafforte[2], appoggiato a un pilastro verticale libero, coronato da guglia[3].
La pianta preferita è la basilicale, a 5 o 3 navate, con o senza transetto, terminante in una vasta zona absidale a cappelle radiali. Adorna all'esterno di una fastosa decorazione scultorea e all'interno di vetrate, statue, pale d'altare, ex voto dedicati da re e principi, borghesi e corporazioni artigiane, la cattedrale era fatta per esprimere visivamente la potenza della Chiesa trionfante, affiancata dal potere terreno.
Quasi in contrapposizione a tanto fasto, le chiese degli ordini conventuali e mendicanti si ponevano come la rappresentazione ideale della povertà evangelica, semplificate nella struttura e nella decorazione, attorniate dagli altri edifici della comunità religiosa: il chiostro, la sala capitolare, la biblioteca.
Nel corso del Trecento continuarono a Firenze i lavori dei cantieri di Santa Maria del Fiore – fu costruito, su progetto di Giotto, il campanile – e di Santa Croce; il mercato del grano di Orsanmichele fu trasformato nel 1380 in chiesa. A Siena e Orvieto furono completate le rispettive cattedrali.
Dopo la conquista angioina nel 1266, Napoli divenne il più importante centro artistico dell'Italia meridionale. Maestranze francesi vi importarono le forme gotiche della Francia meridionale, diffuse ben presto anche da architetti locali: S. Lorenzo Maggiore, iniziata nel 1267, con navata unica e abside con cappelle radiali; il duomo, dedicato a S. Gennaro, 1294-99, a tre navate con cappelle laterali; S. Chiara, 1310-24, con atrio e aula unica; S. Maria Donnaregina, 1314-20, ad aula unica con abside poligonale; S. Pietro a Maiella, 1313-16.
Anche nella Milano viscontea si compì l'assimilazione delle forme gotiche, che trovarono ampia espressione nel Duomo  – fatto erigere da Gian Galeazzo Visconti nel 1386. Importanti nel secolo XIV furono la ricostruzione e il completamento delle chiese di S. Eustorgio – dove il pisano Giovanni di Balduccio costruì l'arca di S. Pietro Martire, 1336-39, esempio per feconde esperienze della scultura milanese del sec. XIV – di S. Simpliciano e di S. Marco, la costruzione dei campanili di S. Antonio e di S. Gottardo. Nel 1316 Matteo Visconti fece costruire la loggia degli Osii (1316-30), con statue dei Maestri Campionesi.
Notevolissimi furono gli sviluppi dell'architettura civile: la cittadella circondata da mura, con poderose torri, comune dall’XI secolo, evolse nella città borghese, centro commerciale, per la quale dal XII secolo si elaborò una ricca tipologia di edifici – mercati, logge, ospedali – tra i quali eccelse il palazzo municipale. Diffusissimi i castelli, che alla funzione difensiva, prevalente in origine, affiancavano quella di dimora del signore.
La cattedrale gotica, con gli ampi portali strombati, le guglie, i pinnacoli, gli sporti, offriva largo campo alla decorazione scultorea: l'iconografia dei cicli si semplificò e chiarì, rispetto al simbolismo romanico, perché la sua funzione era didascalica e si allargò, secondo l'enciclopedismo medievale, non solo ai soggetti della fede, ma a tutti gli aspetti della vita.
Accanto alle storie dell'Antico e del Nuovo Testamento comparvero quindi i lavori dell'uomo, le figurazioni astrologiche, le allegorie, le scienze umane e divine. L'umanizzazione del tema sacro comportò la ricomparsa della figura umana, che dalla rigidezza ieratica iniziale – le statue-colonne, ancora incorporate nell'architettura – attinse a un maggiore naturalismo[4], talora con accenti di schietto classicismo[5].
Dalle maestranze legate ai cantieri, gli scultori passarono al servizio di re, principi, nobili privati, borghesi e le nuove richieste della committenza arricchirono la scultura gotica del periodo maturo di spunti nuovi.
Nell'arte gotica del XII e del XIII secolo la pittura rivestì un ruolo secondario rispetto all'architettura e alla scultura: scomparsi i cicli ad affresco della tradizione romanica, trionfarono le vetrate[6], ma in seguito, nel XIV secolo, l'affresco tornò a prevalere, anche per la grande diffusione della pittura profana – cicli in castelli e palazzi municipali – mentre contemporaneamente si affermava la pittura su tavola, a destinazione sia pubblica con le grandi pale d'altare sia privata con opere di devozione.
Si osservino ora le personalità di maggiore rilievo.
Nicola Pisano (1215 – tra il 1278 e il 1284) forse di origine pugliese – in alcuni documenti compare col nome di Nicola de Apulia – ebbe una grande funzione innovatrice nell'ambito della scultura medievale.
Nel 1260 eseguì il pulpito del battistero di Pisa, rappresenta una delle novità dell'epoca in fatto di sculture, principalmente per la profondità e la precisione anatomica delle figure, che anticipano il progressivo allontanamento dall'arte romanica.  A pianta esagonale, sorretto da colonne su cui si impostano archi trilobati e una balaustra con cinque lastre a rilievo, opera in cui assieme a spunti lombardi – visibili nella squadrata e solida volumetria – sono evidenti i rapporti con schemi classicheggianti assimilati forse nei cantieri dei magistri federiciani; tale rielaborazione di forme classiche, lungi dall'essere una fredda imitazione, si risolve in una liberazione dall'astrattezza della plastica medievale per raggiungere una maggiore individuazione delle figure e un'umanità più viva e concreta: il pulpito presenta, infatti, decorazioni e rilievi che preannunciano il recupero e la rilettura dello stile classico che rinnoverà profondamente l'arte italiana nei secoli successivi. Nei sei riquadri principali sono raffigurate scene della vita di Gesù e del Giudizio Universale.
Nel pulpito del duomo di Siena[7] (1265-68), eseguito in collaborazione col figlio Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio e Lapo, scultore attivo a Siena nel XIII secolo, la narrazione si fa più concitata, le figure, più fitte e mosse, si animano sotto giochi chiaroscurali più spezzati. Questo mutamento fu dovuto probabilmente all'influsso della cultura gotica francese e al contatto con il più drammatico temperamento del figlio. Il pulpito, a pianta ottagonale è sostenuto da colonne, fra le quali si aprono eleganti archi trilobati, decorati da statue di profeti e di virtù. Delle nove colonne, quattro hanno la base a forma di leone, mentre la base della centrale è circondata dalle otto figure delle arti. Il parapetto è formato da sette pannelli con storie della vita di Cristo e con la raffigurazione del Giudizio Universale, uniti fra loro da statue di profeti e della Madonna con il Bambino. Il pulpito, eseguito a pochi anni di distanza da quello per il Battistero di Pisa, segna la piena adesione di Nicola Pisano allo stile gotico, che però non rinuncia alla sua formazione classica: la forza espressiva delle singole figure ne esalta l'individualità, mentre l'incalzante ritmo narrativo le fonde nell'unità della scena.


Con lui collaborò nuovamente nella Fontana Maggiore a Perugia (1275-78), alla quale lavorò anche Arnolfo. Eretta forse su disegno di fra Bevignate, che immaginò due vasche marmoree poligonali concentriche sormontate da una tazza bronzea. La Fontana è una delle più belle, per eleganza di linee, armonia di forme e pregio nella decorazione, incentrata in 50 bassorilievi e 24 statue con cui la ornarono Nicola e Giovanni Pisano. Gli specchi delle vasche rappresentano personaggi, santi, simboli e scene attinenti alla città e alla fantasia medievale. Di Nicola Pisano sono gli specchi della vasca inferiore e le statuette divisorie di quella superiore, dove la forma plastica va risolvendosi in motivi puramente lineari, attraverso una lavorazione delicata, quasi a stiacciato.

All'artista sono attribuite anche un'acquasantiera in S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia e l'arca di S. Domenico nell'omonima chiesa di Bologna (1265-67), opera che sarà integrata nei secoli successivi da altri artisti.
Pietro Cavallini (Roma 1240 – 1330) assorbì la cultura bizantina neoellenistica, guardando anche al mondo classico attraverso l'arte paleocristiana. Perduti gli affreschi eseguiti nella chiesa romana di S. Paolo (ca. 1270-79), Cavallini ci è noto per i mosaici con Storie della Vergine nell'abside di S. Maria in Trastevere (1291), dove la narrazione, classicamente impostata, è ammorbidita dalla dolcezza del colore. i mosaici commissionate dal cardinale Stefaneschi a Cavallini costituiscono uno dei più evidenti esempi del momento di passaggio dalle forme ieratiche dell’arte bizantina alla scena prospettica dell’arte italiana «moderna».
Di alcuni anni più tardi è il Giudizio universale affrescato nella controfacciata di S. Cecilia in Trastevere, opera di altissimo valore in cui l'assorta umanità degli apostoli mitiga la bizantina solennità della visione dove la scelta della tecnica dell'affresco offre notevoli spunti stilistici che il mosaico non permette, soprattutto nei panneggi che con il chiaroscuro danno alla scena rappresentata una tridimensionalità e una potenza espressiva di grande spessore drammatico.
In quest’ottica si può leggere il Giudizio Universale, reputata il capolavoro del maestro romano. Con questi affreschi la pittura romana si affianca e supera i modelli toscani anche se in contemporanea il giovane Giotto imporrà la sua visione artistica e i suoi modelli in tutta la pittura dal Trecento in poi. L'opera di Cavallini è particolarmente innovativa perché per esempio negli Apostoli seduti negli scranni, egli infonde una presenza fisica e un volume del tutto estranei alla maniera bizantina: i panneggi non sono ripetitivi, ma variano a seconda della posizione delle membra, i volti sono raffigurati con individualità, la cromia è varia, il chiaroscuro è morbido e raffinato, ma non costipato, grazie a lumeggiature ed ombre scure nei solchi più profondi.
La conoscenza del giovane Giotto, le cui forme risultano qui peraltro ammorbidite, è evidente nell'affresco con la Madonna e santi della tomba del cardinale Matteo d'Acquasparta in S. Maria d'Aracoeli del 1302 o dopo.

Dell'attività di Cavallini a Napoli, dove è documentata la sua presenza nel 1308 al servizio di Roberto d'Angiò, il cui mecenatismo portò a Napoli alcuni dei più importanti pittori della sua epoca non rimane praticamente nulla: Cavallini lavorò alla cappella Brancaccio in San Domenico Maggiore nel 1308 e a Santa Maria Donnaregina nel 1317 con il suo concittadino Filippo Rusuti, che il maestro romano diresse forse tra il 1316 e il 1320.
Cenni di Pepo detto Cimabue (Firenze 1240 – Pisa 1302) si formò nell'ambito del neoellenismo bizantino, nonché del gusto dialettale dei mosaici del battistero fiorentino, alla cui esecuzione prese sporadicamente parte.




La più antica sua opera a noi nota è il Crocifisso di S. Domenico di Arezzo del 1275 in cui si avverte già chiaramente il premere di un'intensa forza espressiva di valore drammatico nuovo, entro gli schemi della omposizione medievale: Cimabue, si orientò verso le recenti rappresentazioni con il Christus patiens dipinte da Giunta Pisano, ma aggiornò l’iconografia arcuando maggiormente il corpo di Cristo. La somiglianza con il modello di Giunta si deve ad una specifica richiesta dei dominicani aretini, essendo il Crocifisso di Giunta conservato nella chiesa principale dell’ordine, la basilica di San Domenico a Bologna. Un’altra novità rispetto al modello fu l’uso delle striature d’oro nel panneggio che copre il corpo di Cristo o nelle vesti dei due dolenti sulle parti estreme dei bracci della croce, un motivo usato per la prima volta da Coppo di Marcovaldo e derivato dalle icone bizantine.


Di qualche anno più tardi è la Madonna in maestà degli Uffizi, caratterizzata dalla tensione che una dinamicità latente conferisce alla simmetrica, serrata composizione. Il dipinto realizzato a tempera su tavola per i monaci di Vallombrosa che la chiesero per l'altare maggiore della Chiesa di Santa Trinità è noto anche con il titolo di Madonna di santa Trinità. La stilizzata Madonna ha una stesura cromatica tenue e delicata in un articolato e gradevole disegno. I panneggi hanno un'efficacissima brillantezza aurea alla maniera bizantina che ne affievoliscono il modellato. L'espressione è soave ed armoniosa ed i suoi occhi sempre rivolti verso i fedeli, hanno uno sguardo tenero ed affettuoso. Il trono è spazioso e maestoso e gli angeli che l'attorniano conferiscono all'insieme un'atmosfera solenne, ma alcuni di essi lasciano trasparire dal volto segnali di angoscia e di asprezza, come pure due dei profeti in basso (quelli centrali).

Ad Assisi nel transetto destro della basilica inferiore affrescò la Madonna col Bambino in trono, quattro angeli e san Francesco, dipinto palesemente ridotto dal lato sinistro dove si suppone fosse presente un Sant'Antonio di Padova a pendant del Poverello d'Assisi. L'affresco, infatti, fu incorniciato alcuni decenni dopo dai maestri giotteschi che affrescarono il resto del transetto.
Per l'alta qualità dei dipinti della Basilica inferiore, verso il 1280 si collocano gli affreschi della chiesa superiore di S. Francesco ad Assisi, dove Cimabue fu chiamato a realizzare le pitture nell'abside e nel transetto. È difficile avere un'idea degli affreschi assisiati di Cimabue e della sua bottega, perché oggi sono i più danneggiati della basilica Superiore. Il complesso ciclo pittorico comprende: Evangelisti nella volta della crociera, Storie della Vergine nel coro, Scene dell'Apocalisse, Giudizio e Crocifissione nel braccio sinistro del transetto, Storie di San Pietro nel braccio destro, queste ultime poi continuate da seguaci. Anche se fortemente deteriorati, si avvertono ancora in essi il senso grandioso dello spazio e la concitata drammaticità delle figure, alternata a pause di pacata armonia. La scena più interessante è quella della Crocifissione nel transetto sinistro, dove le numerose figure in basso con i loro gesti straziati fanno convergere le linee di forza verso il crocifisso, attorno al quale si dispiega un seguito di angeli. La drammaticità quasi patetica della rappresentazione è considerato il punto di arrivo della riflessione francescana sul tema della Croce in senso drammatico.

Dopo i lavori di Assisi, le composizioni di Cimabue mostrano di tendere a una più distesa impaginazione, il linguaggio a farsi meno aspro ed emotivo, il ritmo a rallentare. Si giunge così al Crocifisso già in S. Croce a Firenze, ora al Museo dell'Opera di S. Croce, in parte distrutto dall'alluvione del 1966, cui il chiaroscuro più fuso conferisce un tono di drammatica catarsi. Realizzato dall’artista dopo il viaggio a Roma, fu tra le opere più danneggiate dall’alluvione del 1966 che causò il distacco di gran parte della pellicola pittorica.  Il corpo arcuato nello spasmo del dolore e gli occhi chiusi identificano la tipologia del Christus Patiens (Cristo sofferente). Nelle tabelle laterali sono le immagini a mezzobusto della Vergine e di san Giovanni Evangelista.
Probabilmente vicino ad esso si colloca la Maestà della Vergine con San Francesco nella chiesa inferiore di Assisi, peraltro assai ridipinta.

Nelle ultime opere – la Maestà del Louvre ed il mosaico con San Giovanni, 1302, nel duomo di Pisa – è avvertibile l'influsso delle nuove forme della scultura pisana. La Madonna con il Bambino o Maestà del Louvre, proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa amplifica la maestosità, tramite un più ampio campo attorno alla Madonna (si pensi alla Madonna del Bordone di Coppo di Marcovaldo), e migliore è la resa naturalistica, pur senza concessioni al sentimentalismo (Madonna e bambino non si guardano e le loro mani non si toccano). Il trono è disegnato con un'assonometria intuitiva e quindi collocato precisamente nello spazio, anche se gli angeli sono disposti ritmicamente attorno alla divinità secondo precisi schemi di ritmo e simmetria, senza interesse ad una reale disposizione nello spazio, infatti, levitano l'uno sopra l'altro (non l'uno dietro l'altro). Molto fine è il modo con cui i panneggi avvolgono il corpo delle figure, soprattutto della Madonna, che crea un realistico volume fisico. Non vi è usata l'agemina (le striature dorate).
Su Arnolfo di Cambio (Colle di Valdelsa 1245 – Firenze, prima del 1310) la prima documentazione su Arnolfo di Cambio si ha a Siena nel 1266, come discepolo di Nicola Pisano e collaboratore di Lapo e Giovanni Pisano al pulpito del Duomo. È anche ipotizzata una sua collaborazione all'arca di San Domenico a Bologna (1265-67). Probabilmente quando fu al servizio di Carlo d'Angiò, Arnolfo di Cambio conobbe l'arte romana e del meridione, come rivela la tomba oggi smembrata del cardinale Annibaldi del 1276 a Roma, in San Giovanni in Laterano, che costituì un prototipo per le tombe romane del periodo gotico e imposta il problema (tipico di tutta l'attività di Arnolfo di Cambio) del rapporto architettura-scultura.
Nel 1277 e così ancora nel 1281 si ha una presenza di Arnolfo di Cambio a Perugia, dove esegue tre figure di assetati oggi a Perugia, nella Galleria, resti di una fontanella per la Piazza Maggiore, di sobrio ed efficace naturalismo. 

Il suo nome si trova nel Monumento al cardinale De Braye del 1282 in San Domenico di Orvieto. Il Monumento è un complesso scultoreo e architettonico, decorato con inserti decorativi di mosaico cosmatesco e composta di vari elementi, in passato è stata smembrata. In seguito a un lungo restauro terminato nel 2004, il monumento è stato ricollocato in San Domenico, addossato alla parete sinistra di ciò che resta della chiesa. La struttura del monumento è diversa da quella originale, gli studiosi hanno potuto ricostruirla solo ipoteticamente. Comunque si ritiene che il Monumento de Braye non doveva differenziarsi troppo dagli altri primi esempi di tombe a muro realizzati in Italia. I riferimenti più diretti sono due monumenti conservati a Viterbo nella chiesa di San Francesco alla Rocca, la Tomba di Clemente IV realizzata da Pietro di Oderisio nel 1270 e la Tomba di Adriano V, attribuita allo stesso Arnolfo. Queste opere corrispondono a un modello di sepolcro formato da un baldacchino con un arco di forme gotiche (ogivale o trilobato), che accoglie un basamento sostenente un sarcofago con la statua distesa del defunto. Arnolfo arricchì questo modello progettandone uno sviluppo in altezza con altri elementi scultorei e architettonici. Nella parte alta, infatti, si inseriscono tre nicchie con statue e al centro una lapide con la dedica funebre e la firma di Arnolfo. In alto, la nicchia principale contiene il gruppo della Madonna in trono col Bambino. Nelle nicchie laterali sono posti a sinistra San Marco che presenta il Cardinale De Braye alla Madonna, a destra San Domenico, che partecipa all'avvenimento rivolgendosi al cielo. La complessità dell'opera ha richiesto l'apporto di aiuti, ma la mano di Arnolfo è riconoscibile in vari punti, soprattutto nel gruppo centrale del cardinale giacente: la figura distesa è rivelata con l'originale inserimento dei chierici reggicortina. Sono figure vivaci che oppongono la loro vitale energia alla figura immobile, distesa e con gli occhi chiusi del defunto, in un efficace contrasto simbolico tra vita e morte. Altra figura particolarmente espressiva è la statua di San Domenico. La forma esile che si assottiglia verso il basso aumenta l'effetto di leggerezza e fragilità. Le linee verticale delle vesti che avvolgono il corpo del santo sviluppano una tensione verticale, che è ribadita dalla testa e dallo sguardo rivolti verso l'alto. Grande attenzione è stata riservata al volto, dall'espressione intensa e commossa. In ogni parte si coglie il senso di chiarezza e rigore formale tipico dello stile di Arnolfo. Anche il gruppo della Madonna col Bambino, di altissima qualità e scolpito a tutto tondo, è concepito secondo un principio di essenzialità di forme e volumi. In occasione dell'ultimo restauro si è scoperto che questo gruppo è una statua romana del II secolo, forse una Giunone che Arnolfo ha sapientemente trasformato nella Vergine cristiana. Il Bambino è stato appositamente scolpito e adattato al grembo della madre. Il gruppo si inseriva in un trono con ornamenti cosmateschi diverso da quello che si vede oggi. Il restauro e l'accurato lavoro di analisi tra cui gli studi condotti da Angiola Maria Romanini hanno permesso di scoprire aspetti del lavoro arnolfiano finora sconosciuti. Una delle scoperte più interessanti è rappresentato dall'uso del colore da parte di Arnolfo non inteso in senso decorativo ma come parte integrante dell'opera. Dalle tracce di colore ritrovate nelle pupille dei chierici reggicortina ai raffinati mosaici cosmateschi che rivestono le parti architettoniche, tutto rientra in un preciso progetto in cui l'effetto pittorico è un fondamentale aspetto dell'impatto visivo d'insieme. Strettamente connesso a quest’aspetto, è l'altra importante scoperta che tutti gli elementi, scultorei e architettonici del monumento, rispondono alla scelta di un punto di vista preciso. Ogni pezzo è concepito e disposto con un preciso orientamento ed è lavorato fino a dove rimane visibile, sempre in riferimento a quel punto di vista, calcolato secondo le leggi dell'ottica. Questi risultati si basano su conoscenze scientifiche molto raffinate e all'avanguardia, oggetto di studio di alcuni filosofi e matematici operanti presso le corti papali tra Roma, Viterbo e Orvieto. Gli sviluppi futuri di tali ricerche si ritroveranno nella prospettiva rinascimentale. Non è ancora chiaro come Arnolfo sia entrato in possesso di simili conoscenze, ma la sua opera rivela un'apertura indubitabile verso il mondo della scienza.
Il suo nome si trova ancora nei cibori[8] di San Paolo fuori le Mura del 1285 e di Santa Cecilia in Trastevere del 1293 a Roma; nel sacello[9] di San Bonifacio IV del 1296, nel vecchio San Pietro in Vaticano, dove si qualifica architector. L'8 settembre 1296 il cardinale Pietro Valeriano colloca a Firenze la prima pietra di Santa Maria del Fiore, su progetto di Arnolfo di Cambio, e nel 1300 il Consiglio dei Cento di Firenze in un suo documento esonera da altri gravami l'artista al fine di permettergli di concludere utilmente i lavori alla Cattedrale: la parte alla quale Arnolfo lavorò di più era comunque la facciata, che fu iniziata molto anticipatamente per esigenze di culto legate all'utilizzo provvisorio della vecchia chiesa di Santa Reparata, demolita solo in seguito. La facciata di Arnolfo fu poi demolita nel 1587-1588 e mai più ripristinata fino alla facciata neomedievale del XIX secolo. Restano di quell'impresa alcuni disegni numerose statue e frammenti conservati nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze. Tra questi spicca la cosiddetta Madonna della Natività, che riprende la posa dei ritratti funerari dei sarcofagi etruschi, o la Statua di Bonifacio VIII.
Giovanni Pisano (Pisa ca. 1245 – Siena dopo il 1314), figlio e allievo di Nicola, iniziò la sua attività collaborando con il padre nella realizzazione del pulpito[10] del duomo di Siena.
Successivamente nel 1278 ebbe larga parte nei lavori della Fonte di Piazza a Perugia, il cui impianto architettonico è dovuto a Nicola, ma dove l'influsso di Giovanni è presente, sia pure in maniera non completamente accertata, in molte sculture e rilievi. In seguito, secondo la tradizione, si sarebbe recato in Francia – tale viaggio tuttavia non è documentato – visitando, tra l'altro, la cattedrale di Reims, allora in costruzione: ciò spiegherebbe gli influssi transalpini evidenti nella sua opera, rispetto al maggiore classicismo del padre.
Dal 1284 al 1296 egli fu impegnato nella sua prima grande realizzazione autonoma, la decorazione della facciata del duomo di Siena. Dagli stipiti dei portali fino alle numerose statue – oggi per la maggior parte nel Museo dell'Opera, sostituite nella facciata da copie – tutta la realizzazione è di qualità altissima. Le figure della Maria, di Mosè, di Platone, di Abacuc, di Davide si distinguono per la carica di drammaticità e di movimento, in forme profondamente incise dallo scalpello, ma non prive di una certa intonazione lirica.

Nel 1297 è documentata la sua attività a Pisa come capomastro del duomo. Dal 1298 fino al 1301 Giovanni fu a Pistoia, impegnato nella costruzione del pulpito nella chiesa di S. Andrea. È questo probabilmente il suo capolavoro e se, strutturalmente, non si distingue molto da quello di Siena, opera del padre Nicola, si caratterizza per la ben maggiore drammaticità delle rappresentazioni. I rilievi, affollatissimi di figure, si individuano per la tensione continua, data dall'emergere in luce di questa o quella figura, mentre fra i punti di maggiore rilievo si apre il vuoto. Il programma iconografico del pergamo riprende i modelli paterni, con Allegorie nei pennacchi degli archetti, Profezie (ovvero sei sibille per il mondo pagano e dieci profeti per il mondo giudaico) a figura intera, appoggiate sulle mensole dei capitelli, ed i cinque parapetti del pulpito con Storie della vita di Cristo: Annunciazione, Natività, Bagno di Gesù e Annuncio ai pastori, Sogno e adorazione dei Magi, Strage degli Innocenti, Crocifissione, Giudizio finale. Il sesto parapetto non esiste perché su quel lato vi è aperto l'accesso. Le scene sono molto affollate, come nel pulpito di Siena, ma rispetto alla composta organizzazione ritmica di Nicola Pisano, qui Giovanni scolpì le figure come emergenti all'improvviso dallo sfondo, con bruschi giochi di luci ed ombre derivati dal diverso rilievo di ciascuna figura e un'estrema ricerca del dinamismo. Fra i riquadri più notevoli, la Natività, la Strage degli innocenti, il Giudizio finale.
Poco più tarda è la Madonna nella Cappella degli Scrovegni di Padova (ca. 1305), dove un intenso sguardo lega la Madre e il Figlio.
Negli anni 1302-10, Giovanni fu impegnato nella realizzazione del nuovo pulpito per il duomo di Pisa, opera di particolare monumentalità, dove tutta la decorazione si anima di un'intonazione drammatica molto più violenta e movimentata di quella dei rilievi di Pistoia. Anche scene pacate, come la Natività, ne sono pervase, mentre in altre (la Strage degli innocenti, la Crocifissione, il Giudizio finale) essa raggiunge toni quasi esagitati.
Successivamente, intorno al 1312-13, Giovanni fu impegnato nella tomba dell'imperatrice Margherita di Brabante, moglie di Enrico VII di Lussemburgo, nella chiesa di S. Francesco a Genova (oggi distrutta). Ne restano soltanto la figura della regina, risorgente dal sepolcro in pacata serenità (nel Museo di S. Agostino a Genova) e pochi altri brani.
L'ultima opera di Giovanni è probabilmente la Madonna della Cintola nel duomo di Prato, dove viene ancora una volta ripreso il tipico tema del colloquio tra la Vergine e il Bambino. L'opera di Giovanni ebbe larghissima eco e fu per decenni presente ai maggiori scultori italiani.
Di Angiolo di Bondone detto Giotto (Colle di Vespignano ca. 1267-Firenze 1337) scarsissime sono le notizie biografiche, attorno alla cui giovinezza sono fiorite varie leggende. Forse la più nota di esse narra la scoperta del genio di Giotto fanciullo da parte di Cimabue, pittore presso la cui bottega fiorentina egli svolse tradizionalmente il proprio discepolato, completando la sua formazione con l'attività giovanile a Roma, dove si recò probabilmente con il maestro.
Giotto rinnovò il linguaggio pittorico mediante la sintesi plastica e la chiara modulazione spaziale, ponendosi come fondatore dell'arte figurativa moderna e come uno dei più autorevoli precursori del Rinascimento.
Il problema delle prime manifestazioni dell'arte di Giotto è connesso con l'individuazione della parte da lui avuta in due importanti cicli decorativi: gli affreschi alti nella navata della basilica superiore di S. Francesco in Assisi del 1290 e l'esecuzione, almeno dei cartoni, per l'ultima zona dei mosaici della cupola del battistero di Firenze.
Sembra attendibile che nelle Storie dell'Antico e del Nuovo Testamento di Assisi la mano di Giotto sia riconoscibile in quelle della prima campata verso la facciata e, sull'interno di questa, le due Storie di Isacco della seconda campata sono prevalentemente riconosciute come la prima opera rivoluzionaria del giovane Giotto.
Quanto ai mosaici del battistero di Firenze, l'esecuzione si addentra nel Trecento. Giotto eseguì poi il Crocifisso di S. Maria Novella in Firenze (1290-1300); dopo il 1296 diede probabilmente inizio al ciclo dei ventotto riquadri con le Storie francescane, affrescato nella fascia bassa della basilica superiore di Assisi.
La questione giottesca – un problema degli studi sulla storia dell'arte nata dall'attribuzione a Giotto o meno degli affreschi della Basilica superiore di Assisi, e se sì in quale misura rispetto ai suoi collaboratori in un'opera tanto vasta – è tutt'ora aperta, ma gli studiosi, dopo i tentennamenti iniziali, sembrano ormai più propensi a mantenere l'attribuzione tradizionale a Giotto, per l'inconfondibile maniera di organizzare le scene, la padronanza della prospettiva intuitiva negli sfondi, il realismo, l'eloquenza senza fronzoli dei gesti e delle fisionomie. Indipendentemente dal fatto che si tratti di Giotto o di un altro pittore, le scene non mostrano sempre la stessa qualità esecutiva, per cui furono sicuramente dipinte da più mani all'interno dello stesso cantiere con la supervisione di un protomagister. L'importanza del Ciclo francescano sta comunque nelle soluzioni formali rivoluzionarie. Innanzitutto l'impaginazione delle scene si differenzia nettamente dalle cornici geometriche pensate da Cimabue e dagli altri pittori duecenteschi: per essi la superficie era essenzialmente bidimensionale, ed era trattata quindi come la pagina miniata con motivi di corredo puramente decorativi. Per Giotto invece lo spazio pittorico doveva ricreare un volume tridimensionale e giustificò l'interruzione tra le scene tramite una serie di colonne che simulano un loggiato, sviluppando un'idea già usata, ad esempio nei mosaici della cupola del battistero di Firenze. Con un sapiente dosaggio del chiaroscuro si rende l'evidenza plastica delle figure, mentre l'uso di architetture scorciate che svolgono il ruolo di quinte prospettiche creano degli spazi praticabili in cui i personaggi si muovono con naturalezza e coerenza, ad esempio possono girarsi di spalle rispetto all'osservatore cosa prima inconcepibile. La composizione è libera dagli schematismi e simmetrie della pittura precedente, anche se accanto a scenari naturali ed architettonici realistici troviamo ancora delle rappresentazioni dal gusto arcaico e non tutti gli scorci sono resi con la stessa sicurezza: più incerte appaiono le città dipinte in lontananza e gli edifici delle prime tre campate della parete sinistra. Ecco l’elenco dei ventotto riquadri: Omaggio dell'uomo semplice, Dono del mantello, Sogno del castello con le armi, Preghiera in San Damiano, Rinuncia ai beni, Sogno di Innocenzo III, Conferma della Regola, Apparizione sul carro di fuoco, Visione dei troni, Cacciata dei diavoli, Prova del fuoco, Estasi di san Francesco, Presepe di Greccio, Miracolo della sorgente, Predica agli uccelli, Morte del cavaliere, Predica a Onorio III, Apparizione al Capitolo di Arles, San Francesco riceve le stimmate, Morte di san Francesco, Visioni, Verifica delle stimmate, Saluto di santa Chiara, Canonizzazione, Apparizione a Gregorio IX, Guarigione dell'uomo di Leida, Confessione della donna resuscitata, Liberazione dell'eretico.
Un frammento dell'affresco con l'Indizione del giubileo da parte di Bonifacio VIII (1300, Roma, S. Giovanni in Laterano) dimostrerebbe il gravitare dell'artista nell'ambito delle commissioni.
A Firenze, ai primi del Trecento, Giotto eseguì la Madonna in trono di S. Giorgio alla Costa e il Polittico di Badia (Firenze, Uffizi).
Con i soggiorni a Rimini (dove, scomparsi gli affreschi, rimane il Crocifisso del Tempio Malatestiano) e a Ravenna, ebbe inizio l'opera di diffusione del linguaggio giottesco, che gradualmente condizionò le diverse scuole regionali.

Dopo il 1304 Giotto intraprese la decorazione ad affresco della cappella di Enrico Scrovegni all'Arena di Padova. I circa quaranta riquadri con le Storie di Gioacchino, S. Anna e la Vergine e la Storia di Cristo, più le figure decorative alle pareti, le allegorie dei Vizi e delle Virtù nello zoccolo, il Giudizio Universale sulla parete d'ingresso, fanno del complesso un monumento straordinario, uno dei massimi capolavori dell’arte occidentale. Le innovative caratteristiche volumetriche e di prospettiva del ciclo di Assisi permangono, ma ora, a testimonianza della sua continua volontà di ricerca e rinnovamento, c’è una nuova attenzione per il colore, più acceso e variato e per la linea, più morbida e meno marcata. La suddivisione dello spazio stellato della volta in due campi perfettamente uguali, in ognuno dei quali brillano come astri la Vergine, madre e regina, e Cristo Benedicente, rende immediatamente il senso del ruolo attribuito in quella chiesa alla Madonna che, intermediaria nei confronti del Figlio e tramite pertanto della Salvezza, è la vera protagonista del ciclo. Un significato confermato dallo sviluppo eccezionale delle scene che ne narrano le vicende prima e dopo la nascita, occupanti l'intero registro superiore e gran parte della parete dell'arco trionfale, nonché la sua reiterata presenza sulla controfacciata, in atto di ricevere la Cappella dal peccatore pentito o di guidare le schiere dei beati verso la ricompensa eterna. Tale intenzione si dichiarava d'impatto al visitatore che entrava nella Cappella, il quale era subito attratto dalla rappresentazione dell'Annunciazione sull'arco trionfale, di dimensioni inusuali per l'inserimento dell'episodio della Missione dell'annuncio a Maria.
La rappresentazione del Giudizio Universale sulla controfacciata mette istantaneamente in rapporto l'inizio e la fine della vicenda principe nell'esperienza di ogni buon cristiano: la salvezza. Poiché i misteri legati a quest'ultima richiedono una raccolta meditazione, Giotto impone un percorso mentale che è anche movimento fisico, disponendo gli episodi della vita della Vergine e di Cristo in una sequenza narrativa tale che il riguardante è sollecitato ad andare su e giù per ben tre volte prima di arrestare lo sguardo dinanzi all'altare. Da qui, per decidere del proprio comportamento, dopo il memento mori delle due cappelle funerarie dipinte, al visitatore non resta che considerare i percorsi alternativi configurati nelle due pareti dalla sequenza dei sette Vizi e delle sette Virtù: i primi, sulla parete settentrionale, conducono - con un crescendo che culmina nello Disperazione penzolante impiccata - all'Inferno; le altre, culminanti nella Speranza levata in volo, terminano nella zona destinata ai beati.

A Giotto è attribuito anche lo stesso progetto dell'edificio: dell'attività di Giotto architetto sarebbe questa la testimonianza più completa e, con il campanile di Santa Maria del Fiore, più significativa. Si tratta di una torre, molto alta a base quadrata, in cui i marmi policromi animano la struttura, anche se nella decorazione e nella parte alta della struttura ci sono stati interventi di altre mani (Andrea Pisano e Franceso Talenti), a causa dell’abbandono dell’artista.
Gli affreschi dell'Arena di Padova rappresentano il compimento del processo di cambiamento della pittura in Italia. Ne sono aspetti fondamentali e permanenti: la rappresentazione impostata secondo coordinate soprattutto dirette in profondità, per cui la scena è contenuta in un preciso spazio; gli oggetti sono disposti secondo schemi strutturali architettonici con linee essenziali e solo con i particolari di significato generale; il chiaroscuro è usato per evidenziare la plasticità e il volume dell'oggetto; nell'azione rappresentata è individuato un nodo che ne esprima il senso drammatico e da cui partano e a cui tendano i gesti dei personaggi.
Questa struttura sintetica, spaziale, plastica e drammatica non può essere intesa soltanto come altissimo raggiungimento di Giotto, ma come punto di arrivo, geniale sintesi di una complessa elaborazione storica che si è nutrita di classicismo bizantino, di rigore romanico, di linearità gotica.
Dopo il 1305 lo stile di Giotto si rinnovò. Dalla grande tavola con la Maestà nella chiesa di Ognissanti a Firenze (1306-10, ora agli Uffizi) al mosaico della Navicella in S. Pietro a Roma, di cui restano due angeli (a Roma, Museo Petriano, e a Boville Ernica), agli affreschi della cappella della Maddalena nella basilica inferiore di Assisi, ai due cicli murali in S. Croce a Firenze, nelle cappelle Peruzzi (Storie di S. Giovanni Battista e di S. Giovanni Evangelista, 1320) e Bardi (Storie di S. Francesco, 1325), la spazialità si fa meno serrata, più articolata e distesa, il colore più tenero, in una sempre fresca e rinnovata sensibilità.
Dalla fine del 1328 alla metà del 1333 Giotto fu a Napoli per Roberto d'Angiò e lavorò nella chiesa francescana di S. Chiara e in Castel Nuovo. Poco o nulla rimane della sua opera, ma anche a Napoli il suo influsso fu determinante. Così anche a Milano, dove Giotto lavorò intorno al 1333 per Azzone Visconti; il suo magistero di architetto ha un'eco nel complesso di S. Gottardo.
Nel 1334 Giotto fu nominato architetto della città di Firenze; nella parte bassa il campanile del duomo segue il suo progetto, così come parte delle formelle scolpite che lo adornano.
A Siena, la prosperità economica, l'esistenza di un grandioso cantiere per il duomo, che richiamava prestigiose personalità come Nicola e Giovanni Pisano, favorirono il fiorire di una civiltà artistica che trovò più spiccata individualità – tale da autorizzare la definizione di scuola – tra la metà del XIII e la metà del XV secolo. In quest'arco di tempo le espressioni pittoriche senesi presentano caratteri stilistici coerenti e originali, così da dar vita come a un altro polo rispetto alla cultura fiorentina rappresentata da Giotto e giotteschi, per la fusione delle più alte tradizioni bizantine con gli eleganti modi gotici d'Occidente – Duccio di Buoninsegna – per il raffinatissimo gusto lineare e cromatico – Simone Martini, Niccolò di Ser Sozzo Tegliacci – per l'interpretazione profana, cortese, dei temi sacri e allegorici –Ambrogio e Pietro Lorenzetti, Lippo Vanni.
Nulla si sa della formazione di Simone Martini, nato a Siena nel 1284 e amico di Francesco Petrarca.

La sua prima opera nota è l'affresco della Maestà nella Sala del Mappamondo nel Palazzo Pubblico di Siena del 1315 e ritoccata nel 1321 dallo stesso Martini che rivela una personalità artistica già matura. Nelle parti superstiti del 1315 la pittura di Simone appare ancora ispirata ai modi di Duccio – di cui fu forse allievo – ma anche rivoluzionaria nel superamento di consuetudini bizantine a favore di una concezione concreta e quasi naturalistica dello spazio, indubbiamente da ricollegarsi alla lezione innovatrice di Giotto. Sotto il baldacchino, che introduce una certa tridimensionalità, le figure, disegnate da una linea morbida e fluida, si dispongono armoniosamente. Il dipinto occupa tutta la larghezza della parete e poco più di quattro quinti in altezza. Al centro della composizione primeggia la Madonna col Bambino, ai cui lati sono disposte su tre virtuali ellissi concentriche le figure di santi, apostoli ed angeli, contrastate da uno sfondo di intenso blu oltremarino. Nel gruppo di destra sono stati identificati – variamente disposti, ma sempre da sinistra verso destra – San Paolo, l'arcangelo Gabriele, Santa Maria Maddalena, San Giovanni Evangelista e Santa Caterina di Alessandria: nel gruppo a sinistra – da sinistra verso destra – Santa Barbara, San Giovanni Battista, Sant'Agnese, l'arcangelo Michele. In basso, ai piedi del trono, stanno due angeli in atto di offrire alla Vergine rose e gigli in coppe d'oro, e i quattro santi patroni di Siena: Crescenzio, Vittore, Savino ed Ansano. La composizione ha una cornice, nelle cui vaste fasce sono dipinti venti medaglioni intercalati da motivi vegetali che circondano borchie circolari, dove si dispongono in alternanza la balzana ed il leone rampante, ovvero, gli stemmi di Siena e quelli del suo popolo. Nel medaglione centrale della fascia alta è raffigurato il Cristo benedicente, mentre ai lati stanno Isacco, Mosè, Davide e Giacobbe; nei medaglioni delle due fasce laterali sono raffigurati i profeti, mentre agli angoli, gli evangelisti. Nel medaglione centrale della fascia inferiore della cornice è raffigurato un busto muliebre sdoppiato, i cui volti – con uno senile e l'altro giovanile – simboleggiano la Vecchia e la Nuova Legge recanti il Decalogo ed i Sette Sacramenti; ai lati del busto muliebre bifronte stanno altri quattro medaglioni raffiguranti tre santi vescovi ed un Dottore della Chiesa. A fianco del busto sdoppiato sono riprodotte le leggende corrispondenti al recto ed al verso di una moneta senese. Sempre in basso sulla fascia di una ulteriore incorniciatura sono dipinti in monocromia altri due medaglioni, raffiguranti l'uno la Madonna col Bambini e angeli, l'altro, il leone rampante del sigillo del Capitano del popolo. Il grande affresco è considerato come un omaggio alla Maestà di Duccio nel Duomo di Siena, dalla quale Simone riprende lo stesso impianto compositivo con la Madonna col Bambino al centro, i santi ai due lati e, in primo piano, i santi patroni di Siena. In questo dipinto si evidenzia però anche il distacco di Simone dalla precedente pittura di cui sopra considerata, soprattutto per lo squisito e delicato gusto gotico nella raffigurazione di una Vergine più austera e distaccata, assise in un trono cuspidato entro un baldacchino da cerimonia: un gusto che possiamo definire di sapore transalpino. Inoltre nella Madonna di Simone è completamente assente l'horror vacui che pare caratterizzare quella di Duccio.
Analoghi modi si riscontrano negli affreschi della cappella di S. Martino nella chiesa inferiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, eseguiti verso il 1317 per alcuni studiosi, dal 1325 al 1330 per altri. L'esempio giottesco si rivela nella plasticità leggermente accentuata delle figure, ampiamente panneggiate (secondo moduli tipici di Giovanni Pisano): gli aristocratici personaggi, collocati in ambienti prospetticamente costruiti, esaltano la magnificenza degli ideali cavallereschi.

Quest'ultimo tratto giunge alla sua più alta espressione nella tavola con S. Ludovico da Tolosa incorona il fratello Roberto d'Angiò (1317, Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte): la ricca decorazione e i vivaci colori si stagliano sul fondo d'oro e concorrono a creare una scena in cui il motivo religioso svanisce rispetto all'esaltazione della regalità dei personaggi. San Ludovico (1275 - 1298), figlio del re di Sicilia Carlo II d'Angiò (1248 - 1309), e di Maria di Ungheria (1257 - 1323), a Montpellier, ad inizio 1296, rinunziò alla corona di Napoli scegliendo la strada religiosa, che intraprese nel maggio dello stesso anno. Al suo posto ascese al trono il fratello Roberto ma forti furono le contestazioni e le voci di usurpazione, tanto che si arrivò ad un processo presso la corte pontificia. Il papa si pronunciò a favore ma le polemiche non si placarono, soprattutto negli ambienti dei ghibellini. La santificazione di Ludovico, che avvenne il 7 aprile 1317 sotto il pontificato di papa Giovanni XXII, diede modo al nuovo re di Napoli di validare la propria legittimità al trono. Simone Martini valutò l'importanza dell'avvenimento ed impostò il suo concetto nel modo più razionale ed espressivo, mettendo in relazione sul piano figurativo le due alte investiture — terrena e celeste — che riconosceva come inseparabili anche nel pensiero di Roberto. L'opera è costituita da tavola grande (200 x 138 cm.), dove è raffigurato il santo, e una predella (56 x 205 cm.) in cui sono narrate le sue storie. L'episodio principale è descritto nella sua quasi totalità dalla maestosa immagine di San Ludovico da Tolosa, assise in trono e vistosamente adornato con vesti episcopali la cui apertura scopre il saio francescano. Il Santo è incoronato da due angeli nel momento in cui sta porgendo una corona sul capo di Roberto d'Angiò, suo fratello minore. Il dipinto è dunque una celebrazione del grande Santo, realizzato in occasione della sua santificazione, ma anche quella della dinastia della famiglia angioina. Nella composizione tutto diventa aulico, regale e pregiato: la sontuosità del mantello in broccato rifinito con elegantissime bordure dorate, il prezioso casellamento di gemme sul pastorale e sulla mitra, la raffinatezza delle due corone che sembrano fondersi con lo stesso cromatismo dorato dello sfondo. Simone Martini dimostra in questo dipinto di avere una grande sensibilità e capacità di raffigurare le varie materie, come le stoffe con i relativi ricami, i gigli della famiglia Angiò, il tappeto di motivo orientale disteso sul pavimento, i pregiati metalli delle oreficerie, gli intarsi della pedana in legno sotto il trono.
Ugualmente ricca di preziosità stilistiche è l'arte di Martini nei dipinti su tavola – polittico per i domenicani di Pisa, 1319, Pisa, Museo; Madonna col Bambino, Siena, Pinacoteca; tavola con Il beato Agostino Novello e quattro suoi miracoli, Siena, S. Agostino.


Nel 1328 l'artista eseguì il celebre Guidoriccio da Fogliano, affrescato sulla parete che fronteggia la Maestà, nel Palazzo Pubblico di Siena: la severa e maestosa figura del condottiero e l'aspro e nudo paesaggio sono calati in un'atmosfera di lirica e malinconica contemplazione. Il dipinto si estende per tutta la parte adiacente al soffitto – molto distante in altezza dal pavimento – nella parete di fondo della sala del Mappamondo, di fronte alla "Parete della Balestra" dove è rappresentata la Maestà (cm. 763 x 970). L'autografia di Simone Martini, ricavata da documentazioni esistenti, non ha mai dato adito a discussioni. L'affresco fu commissionato intorno all'ottobre-dicembre del 1328 e assegnato – come appartenenza – al ciclo dei "Castelli conquistati dalla repubblica di Siena", dovendo proseguire lungo le altre due pareti maggiori della sala. L'intero ciclo fu iniziato nel 1314 con la rappresentazione del Castello di Giuncarico, quindi continuato con la presente opera e portato a termine dallo stesso artista nel 1331 con la raffigurazione dei Castelli di Arcidosso e di Casteldelpiano, ormai perduti. In questa composizione rimane intatto anche il suo idealizzato modulo formale, dove la favola persevera incontrastata in un elegante ed aristocratico tono che intende celebrare, con un'astrazione umanistica, non più l'essere divino ma l'uomo, nella figura di Guidoriccio da Fogliano, il grande condottiero vincente su Castruccio Castracani e conquistatore di Montemassi. In un paesaggio bigio, spoglio delle cose più naturali, irto di castelli e torri con bandiere sventolanti, con lunghi steccati, sguarnite montagne e con un tetro accampamento nella vallata, il protagonista, più che essere celebrato, è semplicemente raffigurato. Ma questa figura solitaria, viene rappresentata dall'artista come una apparizione di un personaggio nel suo superbo e rigido profilo, inserito in un ampio ambiente irreale dove incombe la sua supremazia.
Del 1333 è l'Annunciazione (Firenze, Uffizi), in cui prevale il gioco lineare. L'arte di Simone tuttavia non giunge mai a cristallizzarsi in soluzioni puramente grafiche o decorative; al contrario, proprio per l'intensificarsi dell'espressione lineare si arricchisce di densi significati umani. Nella tavola di centro, che a prima vista sembrerebbe un trittico, dall'angelo inginocchiato davanti alla Madonna esce il tradizionale discorso, rilevato in oro sullo sfondo aureo. Nello scomparto laterale a sinistra è raffigurato Sant'Ansano, mentre in quello a destra, una santa di non facile identificazione: per la maggior parte degli studiosi si tratta di Santa Giustina o Santa Giuditta; per altri, tra i quali il Kaftal, la santa raffigurata è Massima, la madrina di Sant'Ansano; per altri ancora, trattasi di Santa Margherita. I quattro medaglioni con le raffigurazioni dei busti di Profeti, inseriti nelle quattro cuspidi laterali, sono autografi. L'opera fu realizzata per la cappella di Sant'Ansano della cattedrale senese. La critica moderna è ormai concorde nell'attribuire l'Annunciazione a Simone Martini ed i due santi al collaboratore, data la stesura più corposa, come pure i medaglioni raffiguranti i Profeti.
L'espressività si accentua nelle opere del periodo di Avignone, dove Simone Martini si trasferì nel 1339 alla corte papale di Benedetto e dove morì nel 1344. Qui i modi della sua pittura, più naturalistica di quella gotica francese, concorsero con quella alla nascita del gotico internazionale.

Ambrogio Lorenzetti nacque a Siena nel 1285 e morì nel 1348. La sua opera più antica è la Madonna col Bambino firmata e datata 1319 nella parrocchiale di Vico l'Abate in Val di Pesa, dove l'artista appare vicino alla lezione di Giotto, evidente nell'esaltazione dei valori plastici e nella salda strutturalità dell'immagine, espressa nei contorni che definiscono vividi piani cromatici. L'attività di Ambrogio si svolse tra Firenze e Siena fino al 1335; dopo questa data documenti e opere ne attestano la presenza pressoché ininterrotta a Siena. Qui, allontanandosi da Duccio e da Simone Martini, egli instaurò un linguaggio italiano e popolare, capace di esprimere una ricca gamma di sentimenti umani. Nelle sue celebri Madonne (dalla Madonna del Latte dell'arcivescovado di Siena alla Madonna col Bambino di Brera, alla piccola Maestà n. 65 della pinacoteca di Siena alla Maestà del municipio di Massa Marittima), all'appassionata immediatezza si unisce una sottigliezza di indagini stilistiche e di ricerche formali inedite.
Tra il 1337 e il 1339 eseguì gli affreschi con le Allegorie ed Effetti del buono e cattivo governo in città e nel contado nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, opera di grande interesse non solo artistico ma anche iconografico e documentario perché Ambrogio diede per la prima volta preminenza assoluta alla rappresentazione del paesaggio, cogliendone gli aspetti più vivi e realistici e rendendolo scevro da ogni stilizzazione formale.
L'Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo è un ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti che dovevano ispirare l'operato dei governatori cittadini che si riunivano in queste sale, sono composti da quattro scene disposte lungo tutto il registro superiore di tre pareti di una stanza rettangolare, detta Sala del Consiglio dei Nove, o della Pace. Il periodo di governo dei Nove,  in carica dal 1287 al 1355, fu molto fecondo e prolifico per la comunità senese: vennero aperti nuovi e numerosi cantieri, tra i quali quello del Duomo; furono edificati molti palazzi, incluso il Palazzo Pubblico; venne completata una parte consistente della cinta muraria; nell'arte fiorì la Scuola senese.
Gli affreschi furono commissionati dal Governo della Città di Siena, che in quegli anni era governata da nove cittadini, il Governo dei Nove appunto, che rimanevano in carica un periodo di tempo limitato, per lasciare poi il posto ad altri nove cittadini.
Ambrogio vi lasciò la firma sotto l’affresco della parete di fondo, dove si trova l’Allegoria del Buon Governo. La Sala del Consiglio dei Nove ha subito negli anni numerose modifiche: il sistema degli accessi alla sala è stato modificato e sono andati perduti la mobilia e gli arredi originari. Anche gli affreschi hanno subito integrazioni e mostrano qua e là lacune. Nel dipingere le scene Ambrogio ricorse a stratagemmi fini, per esempio nel Buon Governo la prospettiva e la luce sono costruite in modo da mostrare serenamente la città fino in profondità, mentre la scura città del Cattivo Governo dà subito una sensazione di disarmonia, con tetri edifici che bloccano la visuale. Influenzato dalla prima formazione avvenuta a Siena, Ambrogio tuttavia si discostò dai caratteri dominanti di tale arte tanto che è difficile ritenerlo un'esponente tipico della pittura senese del Trecento. Nell'affresco fu rappresentato il paesaggio rurale ed urbano, quasi assoluta novità nel panorama artistico dell'epoca (presente già in alcune miniature di ambito federiciano, ma molto più stilizzato), con una cura del dettaglio, una vastità ed una credibilità mai toccate finora. Tuttavia questa rappresentazione non era fine a se stessa (volontà di portare una testimonianza di un paesaggio) ma fa parte di un preciso messaggio politico, veicolato dal paesaggio: la campagna qui illustra allegoricamente un concetto (di effetto di un regime politico), non un paesaggio.
Del 1342 è la Presentazione al Tempio (Firenze, Uffizi) e del 1344 l'Annunciazione (Siena, Pinacoteca). Ambrogio fu anche cartografo e realizzò fra l'altro il perduto Mappamondo, mappa girevole, probabilmente su pergamena, dello Stato senese, che si conservava nella sala maggiore del palazzo pubblico di Siena.
Fratello maggiore di Ambrogio, anche Pietro Lorenzetti (Siena 1280/85 – 1348), fu attivo oltre che a Siena, a Firenze, Assisi e Arezzo. La prima opera certa è il polittico della Pieve d'Arezzo del 1320, dove la visione di Pietro appare sostanziata anche dal patetismo e dalla drammaticità di Giovanni Pisano. Espressioni analoghe che si ritrovano anche nella Madonna del Museo diocesano di Cortona, nel motivo del muto colloquio di sguardi tra la Madonna e il Bambino.
La pala della Beata Umiltà agli Uffizi del 1316 rivela un forte ascendente giottesco. Il polittico mostra la Beata Umiltà con una monaca inginocchiata al centro della pala, circondata da storie della vita della beata, con pinnacoli di Evangelisti e una predella con tondi di Santi e un Cristo in pietà al centro. Le Storie, dalla vivace vena narrativa e descrittiva della vita monastica dell'epoca, vanno lette per file, da sinistra verso destra, dall'alto in basso. Esse sono: Beata Umiltà decide di separarsi dal marito Ugolotto per vivere santamente, Ugolotto prende la veste religiosa, Beata Umiltà riesce miracolosamente a leggere nel refettorio di Santa Perpetua, (le monache stanno chiacchierando durante il pasto violando il voto di silenzio, ma la beata appare ristabilendo l'ascolto delle Sacre Scritture), Un monaco vallombrosano rifiuta di farsi amputare un piede malato, Beata Umiltà risana il piede del monaco vallombrosano, Beata Umiltà guada il fiume Lamone, Beata Umiltà giunge a Firenze, Beata Umiltà porta i mattoni raccolti per costruire il convento, Beata Umiltà resuscita un bambino, Beata Umiltà detta i suoi sermoni, Beata Umiltà resuscita una suora, Miracolo del ghiaccio, Funerali della beata Umiltà. I quattro evangelisti sono rappresentati a mezza figura, affacciati su scranni retti dal loro animale simbolico. Da sinistra si riconoscono: San Marco col leone San Giovanni con l'aquila San Matteo con l'angelo (perduto) San Luca con il bue. I tondi della predella rappresentano: San Girolamo San Paolo Madonna Cristo in pietà San Giovanni Evangelista San Pietro San Giovanni Gualberto Lo stile di Pietro in quest'opera appare influenzato da quello del fratello Ambrogio per quanto riguarda la riduzione del fondo oro in favore di una maggiore importanza data agli sfondi architettonici, che spesso si adattano gradevolmente alla forma delle tavole. Alcune scene mostrano un tentativo di superare il tradizionale sfondamento delle pareti degli edifici per mostrare scene ambientate all'interno con la presenza di archi e loggiati, mentre altre devono ricorrere a tale espediente. In generale è evidente anche l'influsso della scuola giottesca, con personaggi solidi e ben collocati nello spazio, che poco hanno a che fare con le esili figure allungate della scuola più marcatamente gotico-senese. Importante documento sono le numerosissime notazioni di costume e di vita quotidiana.
Tra il 1326 e il 1329 Pietro eseguì un importante ciclo di affreschi con le Storie della Passione di Cristo nella basilica inferiore di Assisi, nel transetto sinistro.
Le scene – Entrata di Cristo in Gerusalemme, Lavanda dei piedi, Ultima Cena Cattura di Cristo, Giuda impiccato, Flagellazione davanti a Pilato, Andata al Calvario, Crocifissione, Deposizione dalla croce, Seppellimento di Cristo, Discesa agli Inferi, Resurrezione, San Francesco riceve le stimmate, Madonna col Bambino tra i santi Francesco a Giovanni Evangelista – si dispiegano sulla volta a botte e sulle pareti della cappella, compresi gli spicchi sopra l'arco che dà alla cappella di San Giovanni. Raffigurano le scene della vita di Cristo ante mortem (la volta) e post mortem (parete verso la cappella di San Giovanni) e si ricollegano a quelle dell'infanzia di Cristo nel braccio opposto della crociera, con la ripetizione della Crocifissione: una doppia presenza che si riscontra anche nella basilica superiore, dove la scena è riprodotta due volte da Cimabue e la sua bottega, secondo un principio non del tutto chiaro; forse i Francescani volevano ribadire la centralità dell'episodio in tutta la decorazione basilicale, magari, come ha ipotizzato Chiara Frugoni, attingendo alle versioni leggermente differenti in ciascuno degli evangelisti. Alla base degli affreschi si trovano alcuni riquadri con i santi Rufino, Caterina d'Alessandria, Chiara e Margherita di assistenti del Lorenzetti, e un curioso trompe-l'oeil, la Panca vuota. Sotto la Madonna si trovano un Crocifisso e un riquadro di un committente orante (in origine erano forse due, posti simmetricamente). Nella cappella di San Giovanni Battista inoltre dipinse una finta pala d'altare, la Madonna col Bambino tra i santi Giovanni Battista e Francesco.
Del 1329 è la pala con predella per i carmelitani di Siena. Il trittico con la Natività della Vergine al Museo dell'opera di Siena (1335-42) attesta l'evoluzione di Pietro verso più complessi impianti compositivi, palesati nelle salde strutture plastiche dei personaggi inserite in uno spazio prospetticamente definito.


[1] Costolone – Particolare tipo di nervatura aggettante sull'intradosso (superficie interna (generalmente inferiore) di un arco o di una volta, detta anche imbotte, delimitata dalle linee d'imposta) o sull'estradosso (superficie superiore di una struttura ad arco, di una volta o di una cupola) di una volta o di una cupola. Già presente nell'architettura romana imperiale del secolo II d. C. senza tuttavia una funzione portante particolare, il costolone fu poi adottato nell'architettura bizantina e in quella islamica, spesso con funzione di rinforzo. Largamente usato anche nel periodo romanico per convogliare le spinte delle volte a crociera, divenne elemento essenziale della tecnica costruttiva gotica e seguitò a svolgere una funzione importante nell'architettura rinascimentale e postrinascimentale .
[2] ContrafforteNervatura di rinforzo che aumenta la sezione di una struttura muraria all'intersezione con travi, archi, volte, onde contenere le risultanti dei carichi; ha in genere sezione decrescente dal basso verso l'alto. Appare come elemento funzionale nell'architettura romana, sotto forma di nicchie celate nel perimetro murario o sporgenti da esso come a Roma nel Pantheon; nell'architettura romanica, dove i contrafforti sono per lo più ispessimenti del muro in corrispondenza dei costoloni delle volte; nel gotico, dove le spinte delle volte sono trasmesse ai contrafforti mediante archi rampanti . Nel Rinascimento il contrafforte tende invece a divenire elemento puramente decorativo. Con lo stesso nome si designano i rinforzi in muratura posti all'interno di opere fortificate per accrescerne la resistenza.
[3] GugliaElemento architettonico, generalmente piramidale, disposto sulla linea del tetto o a piombo dei muri perimetrali, con un'evidente funzione decorativa e di richiamo visivo per l'edificio sottostante.
Molto frequente nelle architetture delle civiltà orientali, dove viene realizzata in pietra (stūpa di Bali) o in legno (pagode cinesi), la guglia si incontra di rado in Occidente fino all'epoca gotica, età in cui è utilizzata come terminale per i campanili o per le torri fiancheggianti le chiese, come contrappeso per i piloni che reggono i contrafforti o come coronamento della crociera del transetto.
In quest'ultimo caso, la guglia è costituita da un'intelaiatura di legno coperta di piombo o di lastre di ardesia.
Quasi scomparsa in epoca rinascimentale e barocca, fu talvolta ripresa in edifici moderni (cupola di S. Gaudenzio a Novara, di A. Antonelli; tempio della Sagrada Familia a Barcellona, di A. Gaudí).
[4] Naturalismo - Termine comune alle correnti di pensiero che considerano la natura non solo come oggetto fondamentale della riflessione filosofica, ma anche come punto di riferimento determinante e assoluto per quanto riguarda la vita e gli interessi dell'uomo.
Nella storia dell'arte il termine naturalismo, inteso come tendenza alla rappresentazione obiettiva della realtà, assume valore di categoria eterna, riferibile a diversi momenti artistici: da certe figurazioni preistoriche all'arte ellenistica, da certi aspetti del Quattrocento italiano e fiammingo al caravaggismo del Seicento europeo, fino alla pittura di costume del Settecento inglese.
Il caravaggismo fu una corrente artistica che ebbe inizio nel sec. XVII e che annoverò personalità diverse operanti in Italia, in Francia, in Spagna e soprattutto nei Paesi nordici fino a tutto il sec. XVIII. La lezione caravaggesca non ebbe soltanto valore di insegnamento formale, ma costituì soprattutto un alto esempio di misura morale: con Caravaggio l'artista assunse una dignità nuova nella società del secolo della Controriforma. Corrispondendo alle esigenze e agli ideali del tempo, l'arte di Caravaggio ebbe anche carattere di azione chiarificatrice, il cui significato fu subito raccolto da artisti diversi.
Storicamente, invece, con naturalismo si indica il movimento sorto in Francia verso il 1870 come continuazione e sviluppo del realismo, dal quale ricavò l'opposizione all'idealismo classico e romantico sulla base di una rivendicazione del valore della realtà oggettiva come tema di rappresentazione valido in sé anche nei suoi aspetti meno gradevoli ed edificanti. Tuttavia, pur derivando dal realismo tali esigenze di verità e di sincerità espressiva, il naturalismo ne attenuò l'impegno politico e sociale, accentuando invece i rapporti con le scienze naturali, in corrispondenza con gli ideali positivistici e con la mentalità razionalistica del momento.
Dalla Francia, dove il movimento raggiunse elevate espressioni e creò le premesse culturali della svolta impressionista, tale spinta verso la realtà si diffuse in tutta Europa e in America. In Italia, attraverso gli stretti rapporti che ebbero coi francesi i fratelli Palizzi e S. De Tivoli, il naturalismo incise sulla formazione dei macchiaioli.
[5] Classicismo  – Termine assunto ad indicare fenomeni culturali o momenti storici traenti origine da modelli classici, ossia, per le loro caratterizzazioni emergenti, esemplari. Questa accezione è conseguente al significato del termine latino classicus, da cui deriva direttamente classicismo, coniato da Quintiliano nel secolo I d. C. col significato appunto di esemplare, scrittore di prima classe a indicare per traslato quegli scrittori dell'età aurea augustea degni, per la loro importanza e per i risultati di alta elaborazione formale da essi raggiunti, di essere presi a modello. E il concetto di imitazione di un modello considerato qualitativamente irraggiungibile resta una delle categorie fondamentali nella delimitazione del fenomeno.
D'interesse archeologico nei confronti delle culture antiche assunte a modello, il classicismo è accompagnato per lo più da un vasto processo di elaborazione di teorie estetiche e precettistiche.
Per quanto riguarda l'architettura e le arti figurative, il fenomeno è caratterizzato dal costante e prevalente riferimento all'arte greca e romana.
Così è avvenuto per la cosiddetta rinascita carolingia che si riferisce abbastanza indifferentemente a motivi della tradizione ellenistica, romana, ravennate e bizantina.
Nel primo Rinascimento i modelli principali sono stati reperiti in Italia e soprattutto a Roma e diffusi nell'accezione dei grandi maestri toscani. Nel più recente neoclassicismo si è unita tradizione greca, etrusca, pompeiana, egizia, ecc. In tali movimenti di reviviscenza dei modelli classici sono apparsi caratterizzanti la rappresentazione naturalistica del corpo umano, l'idealizzazione di questo attraverso la proposta di canoni proporzionali, il conseguente più esteso concetto di armonia e di bellezza intese come equilibrio razionale dei rapporti, l'iconismo e il naturalismo come fenomeni linguistici e tematici prevalenti, ecc.
Il fenomeno del classicismo implica infatti sempre due polarità compenetrantesi: quella morfologica e quella ideologica. Morfologicamente gli aspetti ricorrenti nei fenomeni classicistici sono il richiamo a una tradizione, la citazione di un lessico di epoche storicizzate come classiche, il riferimento a modelli desunti da un repertorio archeologico, la concezione di un bello ideale contrapposto alla mutevolezza delle forme reali e articolantesi come proporzionalità, armonia, razionalità, nel totale rifiuto di ogni forma di decorazione accessoria e di ogni concessione al sentimento e alla passionalità, dall'altra. Ideologicamente il classicismo si articola su due piani; uno è etico, come lettura della storia e della cultura classica in funzione di modelli di comportamento. L'altro, a carattere politico e statale, si lega alle concezioni, variamente interpretate, dello Stato e dell'Impero, come appare evidente in epoca carolingia, in talune posizioni politiche del papato, nell'ideologia fascista e nazista dell'impero, ecc.: tutte intese ad affermare una relazione dialettica con le concezioni giuridiche e dello Stato proprie del mondo antico greco e soprattutto romano.
[6] Vetrate – L'uso di schermare finestre con vetri policromi risale a tempi molto antichi, tuttavia il grande sviluppo della vetrata ebbe luogo nel periodo romanico e soprattutto gotico, allorché la riduzione delle funzioni di sostegno del tessuto murario permise l'apertura di sempre più ampie finestre.
Lungo il secolo XII lo sviluppo della vetrata fu soprattutto limitato all'area francese. Fra le vetrate del centro-nord della Francia, grande importanza ebbero quelle del coro dell'abbazia di S. Denis; caratteri più bizantineggianti ebbero quelle del centro e del sud della Francia, per i rapporti con la cultura italiana.
La svolta in senso gotico avvenne alla fine del secolo XII, soprattutto con le vetrate di S. Remi a Reims (1175 – 1200). A queste, nel secolo XIII, seguì il grande sviluppo della vetrata, che raggiunse il suo apogeo. Sono di questo secolo i grandi complessi di Chartres (1200-36), di Bourges, di Lione, di Reims, di Troyes.
Caratteri specifici delle vetrate del secolo XIII sono l'arricchirsi delle strutture narrative, l'unificazione dell'intero vano della finestra in un'unica apertura schermata dalla vetrata, un ampliarsi sempre maggiore delle vetrate stesse, fino a esempi come quello della Sainte-Chapelle di Parigi (1242-48), dove ormai è del tutto assente il tessuto murario, sostituito dallo sviluppo continuo delle vetrate, appena separate da sottili pilastri.
Conseguente all'arricchimento delle strutture narrative fu il sempre più largo uso della grisaille – pittura monocroma, basata su varie tonalità di grigio, con effetti di chiaroscuro e rilievo – che comportò una svolta verso maggiori effetti di pittoricismo, compensando in tal modo la scarsità o assenza di decorazioni pittoriche.
Nel secolo XIII si verificò inoltre la grande diffusione europea della vetrata: dalla Germania, oscillante fra tradizione romanica e cultura gotica, all'Inghilterra, in stretta relazione con la Francia (ne sono esempio le vetrate della cattedrale di Canterbury), fino all'Italia. Qui gli esemplari più antichi sembrano essere le vetrate della Basilica Superiore di S. Francesco ad Assisi (ca. 1240-50), direttamente legate alla tradizione tedesca. Ulteriore sviluppo in direzione del pittoricismo si ebbe nel XIV secolo, soprattutto per un intensificarsi dei particolari e delle volumetrie a grisaille e, sul piano della narrazione, per la sempre più accentuata definizione degli spazi architettonici e ambientali in cui sono inseriti i personaggi.
La Francia intanto perse il suo ruolo preminente e si affermarono le scuole inglesi, spagnole e italiane; qui si ricordano ancora Assisi, S. Maria del Fiore e S. Croce a Firenze, l'abside del duomo di Orvieto con vetrata di Giovanni di Bonino su disegni di Lorenzo Maitani (1334). Oltre al Maitani, fornirono disegni per vetrate Niccolò di Pietro, Taddeo e Agnolo Gaddi e altri illustri artisti. L'indirizzo in senso pittorico fu accentuato nell'ultimo quarto del secolo dalla cultura del gotico internazionale. Si giunge così al secolo XV per assistere a una svolta ormai irreversibile della vetrata verso i caratteri di una “pittura su vetro” che sostituiscono quelli originari e specifici di pittura di vetro. In Italia fornirono disegni artisti come Paolo Uccello, Donatello, Andrea del Castagno per S. Maria del Fiore a Firenze, Filippino Lippi e Domenico Ghirlandaio per S. Maria Novella, Filippo Lippi per il duomo di Prato, il Foppa e Cristoforo de' Mottis per il duomo di Milano, il Bergognone per la Certosa di Pavia, G. Mocetto per S. Zanipolo di Venezia ecc.
Con il secolo XVI le vicende culturali europee portano pressoché dovunque a una riduzione di interesse per le vetrate (salvo quelle a soggetto araldico, di destinazione profana e comunque di piccole dimensioni). In Italia furono tuttavia ancora presenti figure di rilievo come Guillaume de Marcillat (attivo a Roma, Cortona, Arezzo).
Una ripresa si ebbe nel corso del secolo XIX con il neogotico e, soprattutto negli ultimi decenni, con l'affermarsi del simbolismo e dell'Art Nouveau, a cui ben si confacevano le campiture definite dei tasselli vitrei, sottolineate dai listelli di piombo che accentuavano le caratterizzazioni grafiche dell'immagine. Notevoli le vetrate eseguite da L. C. Tiffany su disegni di Toulouse-Lautrec, Bonnard, Vuillard, ecc., quelle disegnate da M. Denis, fino ad arrivare a quelle realizzate nel Novecento su disegni di Léger, Braque, Rouault, Matisse e altri.
[7] Il Duomo di Siena - Il Duomo di Siena é uno dei capolavori del romanico-gotico italiano. La Cattedrale fu eretta nel luogo in cui esisteva una chiesa fin dal IX secolo La costruzione iniziò nel 1229 e fu portata a termine solo alla fine del Trecento. Tra il 1258 e 1285 la direzione dei lavori fu affidata ai monaci Cistercensi di San Galgano, che chiamarono a Siena Nicola Pisano e suo figlio Giovanni.
All'inizio del Trecento, Siena era al massimo della sua prosperità e le proporzioni della Cattedrale non apparvero più degne dello splendore della Repubblica. Si decise quindi di ricostruire una nuova e grandiosa Cattedrale di cui l'attuale chiesa sarebbe stata solo un transetto. Il progetto fu affidato a Lando di Pietro nel 1339, ma la peste del 1348 e le guerre con le città vicine fecero precipitare la situazione che da florida divenne critica e l'ambizioso progetto fu definitivamente abbandonato. Dopo questa parentesi, si tornò a lavorare sul duomo originario e nel 1376 fu affidata la costruzione della facciata superiore a Giovanni di Cecco; nel frattempo la cupola e il campanile erano già stati eseguiti. Nel 1382 si provvedeva al rialzamento delle volte della navata centrale e alla ricostruzione dell'abside: solo allora il Duomo poté considerarsi terminato.
La facciata, di Giovanni Pisano, é luminosa, solare, maestosa, ricca di particolari: in marmi policromi ha una ricca decorazione scultorea. La zona inferiore, aperta da tre portali con timpani gotici, è opera di Giovanni Pisano, così come le statue dei profeti, dei filosofi e dei patriarchi, mentre la parte superiore è del Trecento e mosaici ottocenteschi decorano le tre cuspidi. Il fianco destro, scandito dalle fasce marmoree chiare e scure, è aperto da grandi finestre a tabernacolo e dalla Porta del Perdono, sormontata da un bassorilievo raffigurante la Madonna con il Bambino, attribuito a Donatello. I contrafforti sono coronati da statue di profeti, copie degli originali del XIV secolo, custoditi nella cripta di San Giovanni.
Il campanile, a fasce bianche e nere, sorge su un'antica torre, presenta sei ordini di finestre ed è coronato da una cuspide a piramide ottagonale.
L'interno é uno spettacolare gioco di ombre, tra gli archi imponenti e la miriade di opere realizzate da Bernini, Donatello, Michelangelo, Pinturicchio e Nicola Pisano. A croce latina, è suddiviso in tre navate da pilastri, che sostengono le volte dipinte in azzurro con stelle d'oro. La bicromia delle fasce bianche e nere raggiunge qui un effetto di grande enfasi, accentuato dal magnifico pavimento con tarsie marmoree prevalentemente dello stesso colore.
La navata centrale e il presbiterio presentano un cornicione sostenuto dai busti di 172 pontefici, sotto il quale si trovano i busti di 36 imperatori, opera del XV-XVI secolo. La cupola, a pianta esagonale, è decorata da statue dorate di santi e da figure di patriarchi e profeti, dipinte a chiaroscuro alla fine del XV secolo.
Nel transetto sinistro si può ammirare lo splendido pulpito di Nicola Pisano. Si prosegue nel transetto sinistro, dove è posta la tomba del Cardinale Riccardo Petroni, eseguita da Tino di Camaino nel 1317-1318, il cui modello fu spesso ripetuto nel corso del XIV secolo.
L'esterno e l'interno sono legati dallo stupendo rosone gotico di Duccio di Buoninsegna e dal motivo architettonico tipico della Toscana, con quelle strisce alternate di bianco e verde scuro, ai quali si aggiungono i marmi gialli il rosso ammonnitico ed i travertini.
L'elemento più particolare della Cattedrale é il pavimento, un esempio unico nel suo genere. L'impresa decorativa interessa 1.300 metri quadri di superficie e durò oltre 400 anni, dal XIV al XVIII secolo: se inizialmente il lavoro era basato sulla semplicità, col passare del tempo si affinò fino a realizzare scene che sembrano vere e proprie opere pittoriche che rappresentano l'evolversi della filosofia umana: si parte dalla saggezza alchemica di Ermete Trismegisto, per passare alla mitologia quella greco-romana, quindi alle scene del Vecchio Testamento fino a quello del Nuovo, per arrivare alla Verità Assoluta rappresentata da Dio. Le 56 scene sono state realizzate dai numerosi artisti che si sono succeduti: tra questi il Pinturicchio, Domenico di Bartolo, Francesco di Giorgio Martini e Domenico Beccafumi.
[8] Battistero – Il Battistero è uno dei quattro edifici che compongono il complesso monumentale di Piazza dei Miracoli.
Il progetto originale del Battistero era dell'architetto Diotisalvi, ma i lavori furono interrotti presto per essere ripresi un secolo più tardi, sotto la guida di Nicola e Giovanni Pisano. La struttura fu terminata a fine Trecento. Questa è la ragione della particolare mescolanza di stili architettonici che contraddistingue il Battistero e che è possibile ritrovare anche in altre opere di Piazza dei Miracoli. L'ultimo intervento che ci ha consegnato l'edificio così come lo vediamo oggi risale al XIX secolo, quando furono anche eseguite delle copie delle originali sculture ornamentali. Queste ultime, infatti, furono trasferite e sono tuttora conservate nel Museo dell'Opera del Duomo.
Il Battistero è a pianta circolare, ricoperto di marmo bianco, prevalentemente in stile romanico pisano, sebbene decorazioni e bifore evidenziano un'influenza gotica. La sua cupola piramidale è divisa in una parte di mattone rosso ed una di lamine di piombo bianco. Culmina con un cupolino sopra al quale poggia una statua in bronzo raffigurante San Giovanni Battista.
L'interno del Battistero fu progettato volutamente spoglio allo scopo di favorire uno straordinario eco, in grado di suscitare un'atmosfera mistica e suggestiva. Al centro della struttura è situata la Fonte Battesimale, concepita per il rito "a immersione", allora molto comune. Opera di Guido Bigarelli da Como, realizzata nel 1246, è costituito da una grande vasca ottagonale con altre quattro vasche più piccole all'interno. L'opera risente dell'influenza bizantina del suo autore, che si rivela negli intarsi che la impreziosiscono.
[9] SacelloNella Roma antica, piccola area cintata o piccolo edificio con un altare sacro a una divinità, più spesso di carattere privato. Erano chiamate sacella anche le cappelle dei Lari Compitali. Nell'architettura cristiana, sinonimo di oratorio, di piccola cappella o edificio sepolcrale.
[10] Pulpito Nelle chiese cristiane, struttura sopraelevata destinata alla predicazione o alla lettura dei testi sacri.
Derivato dall'ambone, ma collocato fuori dal presbiterio (in genere nella navata centrale) per un più diretto contatto con i fedeli, il pulpito, di forma quadrata, circolare o poligonale, è sorretto da pilastrini o colonne, oppure è addossato direttamente alla parete o a un pilastro. Integrato in epoca gotica da un baldacchino a tettoia per migliorare l'acustica, il pulpito può essere costruito in pietra, marmo o legno, col parapetto talora adorno di tarsie colorate (Cappella Palatina a Palermo) o di rilievi marmorei (pulpito di Nicola e Giovanni Pisano nelle cattedrali di Siena e di Pisa). Il legno fu particolarmente usato nei pulpiti sei-settecenteschi, sontuosamente scolpiti e ornati di stucchi.